Corte Costituzionale sentenza n. 198 SENTENZA 7 – 11 luglio 2014

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SENTENZA

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 657, comma
4, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Lucera
nel procedimento penale a carico di M.E. con ordinanza del 27 giugno
2013, iscritta al n. 233 del registro ordinanze 2013 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie
speciale, dell’anno 2013.
Visti l’atto di costituzione di M.E., nonche’ l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 maggio 2014 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati Raffaele Lepore e Mercurio Galasso per M.E. e
l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio
dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza depositata il 27 giugno 2013, il Tribunale di
Lucera ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e
27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 657, comma 4, del codice di procedura
penale, in forza del quale, nella determinazione della pena detentiva
da eseguire, sono computate soltanto la custodia cautelare subita o
le pene espiate senza titolo dopo la commissione del reato per il
quale e’ stata inflitta la pena che deve essere eseguita.
Il giudice a quo premette di essere investito dell’incidente di
esecuzione sollevato da un condannato, volto ad ottenere – a fronte
del diniego tacito del pubblico ministero, funzionalmente competente
ai sensi dell’art. 657 cod. proc. pen. – che dalla pena detentiva da
espiare in forza di una sentenza dello stesso Tribunale di Lucera,
divenuta irrevocabile il 20 maggio 2013, sia detratto il periodo di
custodia cautelare ingiustamente subita dal richiedente per altri
reati dal 17 giugno 1983 al 15 settembre 1986.
Al riguardo, il Tribunale rimettente rileva che, in base alle
risultanze degli atti, l’istante, nel lontano 1983, era stato
sottoposto a «carcerazione preventiva» per tre anni e tre mesi, in
quanto coinvolto in un "maxi-processo" per reati di criminalita’
organizzata, venendo poi assolto dalla Corte d’appello di Napoli dai
reati ascrittigli per non aver commesso il fatto.
All’accoglimento della richiesta osterebbe, tuttavia, la
disposizione censurata, in base alla quale l’ingiusta carcerazione,
per poter essere computata in detrazione, deve seguire, e non gia’
precedere, la commissione del reato per il quale vi e’ stata condanna
alla pena da espiare. Nel caso in esame, di contro, i reati cui si
riferisce la pena da eseguire sono stati commessi dal richiedente nel
2000 e, dunque, in epoca ampiamente successiva all’ingiusta custodia
cautelare.
Recependo l’eccezione formulata in via subordinata dal
richiedente, il giudice a quo dubita, peraltro, della legittimita’
costituzionale dell’indicata condizione limitativa.
La relativa previsione violerebbe, in specie, il principio di
eguaglianza (art. 3 Cost.) e quello del favor libertatis (desumibile
dal disposto dell’art. 13, primo comma, Cost.), determinando una
ingiustificata disparita’ di trattamento fra i soggetti che abbiano
ugualmente riportato una condanna definitiva a pena detentiva e
subito una ingiusta carcerazione. A parita’ di situazione, la
possibilita’ di "compensare" la seconda con la prima verrebbe,
infatti, a dipendere da un fattore meramente casuale di natura
temporale, quale l’anteriorita’ del reato, per il quale deve essere
determinata la pena da eseguire, rispetto alla carcerazione ingiusta.
La norma censurata violerebbe, inoltre, l’art. 27, terzo comma,
Cost., giacche’, impedendo di scomputare il periodo di ingiusta
carcerazione a chi ha commesso il reato successivamente ad essa –
ossia proprio al soggetto che, a ben guardare, piu’ meriterebbe il
beneficio, avendo subito l’ingiusta detenzione quando era incensurato
– vanificherebbe la finalita’ rieducativa della pena ed ostacolerebbe
il reinserimento del reo nel tessuto sociale.
La disposizione in esame si porrebbe in contrasto con i principi
di eguaglianza e di ragionevolezza anche sotto un ulteriore e diverso
profilo: e, cioe’, in quanto fondata su una presunzione assoluta non
rispondente ad una regola di esperienza generalizzata.
Alla luce delle indicazioni della relazione al progetto
preliminare del codice di procedura penale, la preclusione denunciata
sarebbe finalizzata, infatti, ad evitare che il diritto al recupero
della detenzione ingiustamente sofferta si risolva in un incentivo
alla commissione di azioni criminose. Tale paventato effetto
criminogeno sarebbe presunto iuris et de iure dalla legge, non
essendo il divieto derogabile neanche quando vi sia la prova certa
che quel pericolo non si e’ concretizzato.
Per consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale,
tuttavia, le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto
fondamentale della persona – quale il diritto alla liberta’ personale
– violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e
irrazionali, cioe’ se non rispondono a dati di esperienza
generalizzati, riassumibili nella formula dell’id quod plerumque
accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione
assoluta si coglie tutte le volte in cui sia agevole formulare
ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a
base della presunzione stessa.
Tale situazione si riscontrerebbe puntualmente nell’ipotesi in
esame. Se e’ certamente possibile, infatti, che taluno sia spinto a
delinquere dal proposito di recuperare la carcerazione subita
ingiustamente, altrettanto frequente sarebbe il caso di chi – proprio
per aver sofferto «la terribile esperienza di conoscere il carcere da
innocente» – si guarda bene dal commettere reati solo per
"riscuotere" il "credito" che da tale esperienza gli deriva.
Per questo verso, si potrebbe anche ritenere – a parere del
giudice a quo – che il vulnus ai parametri costituzionali derivi non
dalla presunzione in se’, ma dal suo carattere assoluto, che implica
un divieto indiscriminato e totale di scomputo. In simile
prospettiva, la compatibilita’ costituzionale potrebbe essere
ripristinata trasformando la presunzione in relativa: dichiarando,
cioe’, costituzionalmente illegittima la norma denunciata nella parte
in cui non consente al giudice di derogare al divieto in presenza di
elementi probatori di segno contrario alla presunzione stessa (quale,
ad esempio, il lungo tempo trascorso tra l’ingiusta carcerazione e la
successiva commissione del reato); elementi che sarebbe onere
dell’interessato fornire.
La questione sarebbe, altresi’, rilevante nel giudizio a quo,
posto che la preclusione prevista dal comma 4 dell’art. 657 cod.
proc. pen. costituisce l’unico elemento ostativo all’accoglimento
dell’istanza del condannato.
La rilevanza non verrebbe meno neanche qualora la Corte
costituzionale, «optando per l’alternativa» dianzi prospettata, si
limitasse a "degradare" in relativa la presunzione assoluta insita
nella norma censurata. Nella specie, infatti, la prova contraria
risulterebbe senz’altro raggiunta, alla luce del lunghissimo lasso
temporale intercorso tra la custodia cautelare ingiustamente sofferta
dal richiedente e i fatti cui attiene la pena da espiare.
2.- E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe
inammissibile, in quanto a carattere alternativo. Il rimettente
avrebbe chiesto, infatti, al tempo stesso, un intervento ablatorio e
uno di tipo additivo sulla norma censurata, senza chiarire se le due
richieste siano in rapporto di «alternativita’ irrisolta» o di
subordinazione.
Quanto al merito, la questione sarebbe gia’ stata affrontata e
risolta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 442 del 1988,
che ha dichiarato infondata una questione analoga relativa al
previgente art. 271, quarto comma, del codice di procedura penale del
1930. Le considerazioni svolte nell’occasione dovrebbero condurre
anche in questo caso a ritenere che la disciplina legislativa
dell’istituto della cosiddetta fungibilita’ della detenzione
ingiustamente patita «non contiene in alcun modo, regole
irragionevolmente discriminatorie», ne’ viola gli altri parametri
invocati dal rimettente.
3.- Si e’ costituito, altresi’, M.E., condannato istante nel
giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione.
4.- Con successiva memoria, la parte privata – oltre a
ripercorrere e sviluppare le censure formulate dal giudice
rimettente, da essa pienamente condivise – ha rilevato come la
previsione dell’art. 657, comma 4, cod. proc. pen. si ponga in
contrasto anche con l’art. 24, quarto comma, Cost., che impone al
legislatore di determinare «le condizioni e i modi per la riparazione
degli errori giudiziari». Il divieto stabilito dalla disposizione
denunciata vanificherebbe, infatti, «tali procedure riparatorie e lo
stesso esercizio del diritto di difesa, di per se’ ancora piu’
incomprimibile se volto a tutelare la liberta’ della persona».
La parte privata ha contestato, per altro verso, la fondatezza
dell’eccezione di inammissibilita’ della questione, sollevata dal
Presidente del Consiglio dei ministri: dalla lettura dell’ordinanza
di rimessione risulterebbe, infatti, palese come il giudice a quo
abbia chiesto un intervento ablatorio, accennando all’ulteriore
richiesta a carattere additivo solo in via argomentativa e per
completezza di trattazione.
Non sarebbe altresi’ conferente, nel merito, il richiamo
dell’Avvocatura dello Stato alla sentenza n. 442 del 1988, relativa
all’art. 271, quarto comma, del codice di rito abrogato, trattandosi
di pronuncia le cui argomentazioni – sintoniche con l’impostazione
inquisitoria di detto codice – avrebbero perso di attualita’ a
seguito del passaggio ad un modello processuale di tipo accusatorio,
operato dal codice del 1988.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale di Lucera dubita della legittimita’
costituzionale dell’art. 657, comma 4, del codice di procedura
penale, in forza del quale, nella determinazione della pena detentiva
da eseguire, si tiene conto soltanto della custodia cautelare subita
o delle pene espiate senza titolo dopo la commissione del reato per
il quale la pena che deve essere eseguita e’ stata inflitta.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe i
principi di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) e del favor
libertatis (desumibile dall’art. 13, primo comma, Cost.),
determinando una ingiustificata disparita’ di trattamento fra i
soggetti che hanno riportato una condanna definitiva a pena detentiva
e subito una ingiusta carcerazione. A parita’ di situazione, la
possibilita’ di "compensare" la seconda con la prima verrebbe,
infatti, a dipendere da un fattore meramente casuale di natura
temporale, quale la circostanza che l’ingiusta carcerazione segua, e
non gia’ preceda, la commissione del reato per il quale deve essere
determinata la pena da eseguire.
Sarebbe violato, inoltre, l’art. 27, terzo comma, Cost., giacche’
la preclusione censurata – che colpirebbe il soggetto, in realta’,
maggiormente meritevole del beneficio, avendo subito l’ingiusta
detenzione quando era ancora incensurato – vanificherebbe la
finalita’ rieducativa della pena ed ostacolerebbe il reinserimento
del condannato nel tessuto sociale.
La norma denunciata violerebbe i principi di eguaglianza e di
ragionevolezza (art. 3 Cost.) anche perche’ fondata su una
presunzione assoluta arbitraria: quella, cioe’, che la possibilita’
di scomputare la detenzione ingiustamente sofferta dalla pena
inflitta per un successivo reato si risolva in un incentivo a
delinquere. Detta presunzione non esprimerebbe, infatti, una regola
di esperienza generalizzata, essendo agevolmente ipotizzabili casi
nei quali proprio la traumatica vicenda di aver conosciuto «il
carcere da innocente», lungi dallo stimolare, distoglie chi l’ha
subita dal commettere reati solo per "riscuotere" il corrispondente
"credito di pena".
Per questo verso, si potrebbe anche ritenere – secondo il giudice
a quo – che il vulnus ai parametri costituzionali evocati derivi,
anziche’ dalla presunzione in se’, dal suo carattere assoluto:
prospettiva nella quale la compatibilita’ con la Costituzione
andrebbe assicurata trasformando la presunzione in relativa e,
segnatamente, dichiarando l’illegittimita’ costituzionale della norma
censurata nella parte in cui non prevede che il giudice possa
derogare al divieto quando l’interessato abbia offerto la prova che
il temuto effetto criminogeno non si e’, di fatto, realizzato.
2.- L’eccezione di inammissibilita’ formulata dall’Avvocatura
dello Stato, sull’assunto che si tratti di questione "ancipite", non
e’ fondata.
Al di la’ di qualche ambiguita’ di ordine lessicale, dal
complessivo tessuto motivazionale dell’ordinanza di rimessione emerge
con sufficiente chiarezza che il rimettente chiede, in via
principale, a questa Corte l’ablazione della norma censurata,
prospettando solo in via subordinata un intervento di tipo additivo,
che renda superabile la limitazione sancita dalla norma stessa in
presenza di elementi probatori di segno contrario alla presunzione su
cui essa – in assunto – si fonda.
Gli interventi richiesti non si pongono, pertanto, in rapporto di
alternativita’ irrisolta, ma di subordinazione fra loro: circostanza
che rende la questione ammissibile (ex plurimis, sentenza n. 280 del
2011).
3.- Sempre in via preliminare, va osservato che, per
giurisprudenza costante di questa Corte, l’oggetto del giudizio di
legittimita’ costituzionale in via incidentale e’ limitato alle
disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione,
non potendo essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste
fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalita’ dedotti
dalle parti, eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, oppure
diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle
ordinanze stesse (ex plurimis, sentenze n. 310, n. 227 e n. 50 del
2010).
Ne deriva che sono inammissibili, e non possono formare oggetto
di esame in questa sede, le deduzioni della parte privata dirette ad
estendere il thema decidendum, tramite la denuncia dell’asserito
contrasto della norma censurata anche con l’ulteriore parametro
costituito dall’art. 24, quarto comma, Cost.
4.- Nel merito, la questione non e’ fondata.
Come segnala la relazione al progetto preliminare del codice,
l’art. 657 cod. proc. pen. adotta un «criterio di fungibilita’» della
carcerazione subita con la pena detentiva da espiare particolarmente
ampio, «volto a ricomprendere tutti i periodi di privazione della
liberta’ personale comunque sofferti senza effettiva
giustificazione».
Nel determinare la pena detentiva da eseguire in forza di una
pronuncia definitiva di condanna, il pubblico ministero e’ tenuto,
infatti, a computare tanto il periodo di custodia cautelare sofferta
per lo stesso o per altro reato, anche se ancora in corso (comma 1
dell’art. 657 cod. proc. pen.), quanto il periodo di pena detentiva
espiata senza titolo (s’intende, per altro reato), nel senso
precisato dal comma 2: ossia «quando la relativa condanna e’ stata
revocata, quando per il reato e’ stata concessa amnistia o quando e’
stato concesso indulto, nei limiti dello stesso».
Tale regime di fungibilita’ – giustificato, sempre secondo la
relazione al progetto preliminare, «dalla prevalenza del principio
del favor libertatis cui deve essere improntata tutta la legislazione
penale» – e’ suscettibile di configurare anche una riparazione "in
forma specifica" per l’ingiusta privazione della liberta’ personale,
come attestano le previsioni degli artt. 314, comma 4, e 643, comma
2, cod. proc. pen., che escludono il diritto all’ordinaria
riparazione pecuniaria per quella parte della custodia cautelare o
della detenzione che sia stata computata ai fini della determinazione
della misura di una pena.
Il meccanismo di "compensazione" incontra, peraltro, il limite di
ordine temporale enunciato dalla norma oggi sottoposta a scrutinio
(comma 4 dell’art. 657 cod. proc. pen.): limite che riprende, con gli
opportuni adattamenti, quello gia’ stabilito dal previgente art. 271,
quarto comma, cod. proc. pen. del 1930. La fungibilita’ opera, cioe’,
soltanto per la custodia cautelare subita o le pene espiate dopo la
commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da
eseguire.
Tale sbarramento temporale si giustifica alla luce di due ordini
di considerazioni, tra loro strettamente correlati.
In primo luogo – ed e’ questa la spiegazione tradizionale del
divieto – esso e’ imposto dall’esigenza di evitare che l’istituto
della fungibilita’ si risolva in uno stimolo a commettere reati,
trasformando il pregresso periodo di carcerazione in una "riserva di
impunita’" utilizzabile per elidere le conseguenze di futuri illeciti
penali, e che concreterebbe addirittura una sorta di "licenza di
delinquere" quanto ai reati punibili in misura uguale o inferiore
alla carcerazione sofferta. Come puntualmente si afferma nella
relazione al progetto preliminare, «il recupero della detenzione
ingiustamente sofferta deve funzionare come correttivo alle
disfunzioni della macchina giudiziaria e compensazione dell’ingiusta
carcerazione, ma non certo come incentivo alla commissione successiva
di azioni criminose».
In secondo luogo, poi – ma, in realta’, prima ancora – risponde
ad una fondamentale esigenza logico-giuridica che la pena, ancorche’
scontata nella forma anomala dell’"imputazione" ad essa del periodo
di ingiusta detenzione sofferta per altro reato, debba comunque
seguire, e non gia’ precedere, il fatto criminoso cui accede e che
mira a sanzionare. E’ questa, infatti, la condizione indispensabile
affinche’ la pena possa esplicare le funzioni sue proprie, e
particolarmente quelle di prevenzione speciale e rieducativa. Una
pena anticipata rispetto al reato, anziche’ sconsigliarne la
commissione, rischierebbe – come detto – di incoraggiarla e, d’altro
canto, non potrebbe in nessun caso costituire uno strumento di emenda
del reo. Come questa Corte ha gia’ avuto modo di rilevare, nel
dichiarare infondata una questione di legittimita’ costituzionale
parzialmente analoga avente ad oggetto il citato art. 271, quarto
comma, del codice abrogato, «le finalita’ "rieducative" di cui al
terzo comma dell’art. 27 Cost. […] possono aver senso anche se
riferite ad "altro" reato ma […] certamente non possono mai
riguardare un reato "da commettere"» (sentenza n. 442 del 1988).
5.- Cio’ posto, nessuna delle censure del giudice a quo coglie
nel segno.
Quanto, infatti, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost. per
irragionevole disparita’ di trattamento, questa Corte ha gia’
evidenziato come la situazione di chi ha sofferto la custodia
cautelare (o espiato una pena senza titolo) dopo la commissione di
altro reato non sia affatto identica, sotto il profilo che interessa,
a quella di chi l’ha subita (o espiata) anteriormente. Solo per
quest’ultimo soggetto la prospettiva di scomputare dalla pena il
tempo della pregressa carcerazione puo’ rientrare nel calcolo che
conduce alla deliberazione criminosa; non per il primo, posto che
«scontare, in avvenire, custodie cautelari o carcerazioni in
esecuzione di pena non puo’ in alcun modo motivare il soggetto a
delinquere» (sentenza n. 442 del 1988).
A cio’ va aggiunto che – alla luce di quanto dianzi osservato –
solo in rapporto a chi ha sofferto la detenzione ingiusta dopo la
commissione del reato il meccanismo di compensazione con la pena da
espiare e’ coerente con le funzioni proprie di quest’ultima.
Sicche’, in conclusione, «per diverse situazioni, dal punto di
vista oggettivo e soggettivo, il legislatore ha […] ragionevolmente
previsto diverse discipline giuridiche» (sentenza n. 442 del 1988).
6.- La preclusione censurata non viola, per analoghe ragioni,
neppure l’art. 13, primo comma, Cost.
La scelta legislativa di non privilegiare, nell’ipotesi
considerata, il «favor libertatis» trova giustificazione, da un lato,
nell’esigenza di evitare – per ragioni di difesa sociale e di tutela
della collettivita’ – che chi ha sofferto un periodo di custodia
cautelare o di detenzione per altro reato, sia pure indebita, sia
indotto a delinquere o, comunque, rinvenga motivi "favorevoli" alla
commissione di reati nella possibilita’ di sottrarsi alle relative
conseguenze sanzionatorie opponendo in compensazione un "credito di
pena" precedentemente maturato (sentenza n. 442 del 1988);
dall’altro, nella correlata esigenza di non creare le premesse per
uno stravolgimento delle funzioni di prevenzione e di emenda che la
pena dovrebbe esplicare.
7.- Per quanto attiene, poi, alla denunciata violazione dell’art.
27, terzo comma, Cost., e’ gia’ insito nelle considerazioni
precedentemente svolte come tale precetto costituzionale, lungi dal
collidere con la preclusione censurata, concorra a giustificarla,
stante l’impossibilita’ di concepire una funzione rieducativa in
rapporto a reati che debbano essere ancora commessi.
8.- Non riscontrabile, infine, e’ l’asserito contrasto con i
principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.),
conseguente al fatto che la norma censurata poggerebbe su una
presunzione assoluta arbitraria, in quanto non rispondente ad una
regola di esperienza generalizzata, quale il supposto effetto
criminogeno del diritto a "recuperare" il periodo di ingiusta
detenzione sofferto prima della commissione del reato: essendo, in
fatto, ben possibile che la vicenda traumatica della carcerazione
ingiusta abbia un opposto effetto dissuasivo e che, comunque, il
successivo reato venga perpetrato per ragioni del tutto avulse
dall’intento di "riscuotere" il "credito di pena".
Al riguardo, e’ dirimente il rilievo che il giudice a quo
qualifica come presunzione assoluta quella che, in realta’, e’ la
ratio legis: o, meglio, una delle due rationes della limitazione
denunciata (l’altra consistendo nell’evidenziata esigenza
logico-giuridica che la pena segua, e non gia’ preceda, il reato).
Ratio peraltro non scalfita dalla eventualita’, prospettata dal
rimettente, che la "riserva di impunita’", conseguente all’ipotetica
rimozione della preclusione, possa in concreto non pesare sul
processo motivazionale che induce a delinquere chi ne beneficia.
Tali considerazioni escludono che possa accedersi anche
all’intervento richiesto dal rimettente in via subordinata, volto a
trasformare l’ipotetica presunzione assoluta in relativa.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 657, comma 4, del codice di procedura penale, sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione, dal Tribunale di Lucera con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2014.

F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l’11 luglio 2014.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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