Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-02-2012, n. 1890 Concorso di colpa del danneggiato

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 21.11.09 la Corte d’Appello di Trento, previa riunione dei relativi giudizi di impugnazione, confermava le due sentenze, non definitiva e definitiva, emesse dal Tribunale della stessa sede, a seguito delle quali la Silvelox S.p.A. era stata condannata a pagare a L.L., in conseguenza dell’infortunio sul lavoro da lui patito il 2.4.02, Euro 34.000,00 per danno non patrimoniale permanente, Euro 2.300,00 per danno non patrimoniale temporaneo ed Euro 500,00 a titolo di danno patrimoniale.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Silvelox S.p.A. affidandosi a sei motivi.

Resiste con controricorso il L..

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si lamenta vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ravvisato la colpa della società ricorrente per l’infortunio patito dal lavoratore e, segnatamente, un’omessa considerazione della deposizione del teste B. – che ha escluso che al L. fossero state assegnate le pesanti mansioni di addetto al carrello – e, nel contempo, una sopravvalutazione della deposizione del teste P., le cui dichiarazioni non sono incompatibili con l’asserito rischio elettivo assunto dal lavoratore nello svolgere imprevedibilmente le mansioni di addetto al carrello;

per altro – prosegue la società ricorrente – la manovra di spinta del carrello è cosa ben diversa da quella (determinante l’infortunio de quo) di sollevare uno scatolone, manovra che, per di più, alla stregua di quanto riferito dal teste A. si sarebbe potuta evitare facendo semplicemente scivolare il peso dal muletto al carrello, che si trovava ad un livello più basso rispetto alla pedana dalla quale il carico doveva essere spostato; nè – conclude la società ricorrente – è vero quanto asserito dalla Corte territoriale, ossia che la società, pur consapevole del precedente infortunio subito nel 1995 dal L., ne conoscesse altresì il conseguente stato di invalidità, assunto in realtà smentito dagli accertamenti eseguiti dal c.t.u. medico-legale (dr. D.), che a sua volta ha asserito che la precedente discopatia lombare del lavoratore è multifattoriale e che per essa non è possibile stabilire con certezza il ruolo dei possibili molteplici agenti concausali.

Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ravvisato un nesso causale fra le ritenute violazioni della normativa antinfortunistica ascritte alla ricorrente e l’evento dannoso, nel contempo erroneamente escludendo l’interruzione del nesso causale in virtù dell’assunzione del rischio elettivo da parte del lavoratore; il L., unico a sapere delle proprie effettive condizioni fisiche a seguito dell’infortunio del 1995, mettendosi al lavoro al carrello aveva deliberatamente violato le direttive aziendali e le mansioni affidategli e, per di più, aveva sollevato un peso che, invece, avrebbe potuto agevolmente far scivolare (come sopra detto).

Con il terzo motivo ci si duole di omessa pronuncia, in relazione all’art. 112 c.p.c., sul motivo di appello concernente una responsabilità concorsuale ex art. 1227 c.c. del L. nella determinazione dell’evento dannoso, viste le sopra descritte erronee modalità di esecuzione – da parte del lavoratore – della manovra intesa a collocare lo scatolone sul carrello.

Con il quarto motivo si denuncia vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in riferimento ai criteri di calcolo utilizzati per la liquidazione del danno biologico da invalidità permanente parziale derivato dall’infortunio per cui è causa, che in virtù della ed. formula G. di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 79 va calcolato nella misura di 5 punti percentuali, tenendo presente che la base di partenza non è il 55% di invalidità conseguente al precedente infortunio, ma – semmai – lo zero.

Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in ordine alla ritenuta legittimazione passiva della società ricorrente quanto al danno biologico non complementare, legittimazione da riconoscere in capo all’INAIL e non alla Silvelox S.p.A. Con il sesto ed ultimo motivo di ricorso si lamenta vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui la Corte territoriale ha escluso che la transazione intercorsa fra le parti il 31.1.03 concernesse anche i danni derivanti dall’aggravamento del primo infortunio, nel senso che, avendo l’impugnata sentenza considerato il danno derivato dall’infortunio del 2.4.02 come aggravamento del primo (occorso nel 1995), detta transazione doveva ritenersi satisfattiva di ogni richiesta risarcitoria, atteso che il L. aveva espressamente escluso dall’accordo soltanto il risarcimento dei danni patiti in occasione dell’infortunio del 2.4.02; pertanto – conclude la ricorrente – delle due l’una: o si tratta di un aggravamento del primo infortunio e allora detta transazione lo copre, oppure è un nuovo infortunio e, quindi, è corretta una liquidazione che faccia partire il danno da zero e non dal 55%, con la conseguenza che il danno risarcibile a carico della Silvelox è relativo ad una micropermanente del 5%. 2- I primi due motivi – da trattarsi congiuntamente perchè fra loro connessi, avendo entrambi ad oggetto la ricostruzione dello sviluppo causale dell’infortunio per cui è causa – si collocano al di fuori dell’area dell’ari. 360 c.p.c., poichè sostanzialmente in essi si sollecita solo una nuova lettura in punto di fatto delle risultanze istruttorie e, in particolare, delle deposizioni testimoniali e degli accertamenti peritali.

Infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema – da cui non si ravvisa motivo alcuno di discostarsi – il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di un punto (ora, dopo la novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, di un "fatto") decisivo della controversia, potendosi in sede di legittimità controllare unicamente sotto il profilo logico – formale la valutazione operata dal giudice del merito, soltanto al quale spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr, ex aliis, Cass. S.U. 11.6.98 n. 5802 e innumerevoli successive pronunce conformi).

Nè può parlarsi di vizio di motivazione laddove la Corte territoriale avrebbe trascurato il rischio elettivo, atteso che la ricostruzione in punto di fatto accolta dall’impugnata sentenza muove dalla contraria constatazione (suffragata da un argomentare immune da vizi logico-giuridici) che il L. aveva espletato proprio le mansioni assegnategli dalla società ricorrente, così escludendosi – a monte – ogni ipotetico discorso di rischio elettivo che, per altro, suppone nella condotta del lavoratore i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato rispetto a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere (cfr., ex aliis, Cass. 25.2.2011 n. 4656).

Ciò – giova ribadire – è stato motivatamente escluso dall’ impugnata sentenza.

Nè può parlarsi di rischio elettivo sol perchè una determinata operazione, rientrante nelle mansioni proprie del lavoratore, poteva – in ipotesi – eseguirsi anche diversamente (secondo quanto sostiene la società ricorrente).

3- Il terzo mezzo di ricorso è infondato perchè, in realtà, nè dall’atto d’appello proposto dalla Silvelox contro la sentenza non definitiva nè da quello avente ad oggetto la pronuncia definitivamente resa dal Tribunale emerge la formulazione di uno specifico motivo di gravame inteso a far valere una responsabilità concorsuale ex art. 1227 c.c. nella determinazione dell’evento dannoso.

Nè il giudice del merito è tenuto a vagliare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr, Cass. Sez. Lav. 20.4.06 n. 9234 e numerose altre conformi).

4- I restanti motivi di ricorso – fatti valere ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – sono, in realtà, ad esso estranei, in quanto sostanzialmente intesi non già a censurare una (malamente motivata) ricostruzione in punto di fatto, bensì pretesi errori di diritto, spendibili, semmai, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Invero, il vizio di motivazione per cui può proporsi ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacchè quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 384 c.p.c., u.c.), senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire; rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorchè malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

A ciò si aggiunga che il vizio di motivazione di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato D.Lgs. n. 40 del 2006, ex art. 2, deve ormai consistere solo in un vero e proprio "fatto" in senso storico – e non già in una mera "questione" o in un "punto" -, vale a dire in un fatto principale ex art. 2697 c.c. (cioè in un fatto costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo) o al più, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, in un fatto secondario (cioè in un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè – s’intende – controverso e decisivo (cfr., ex aliis, Cass. 29.7.2011 n. 16655).

Nè la censura erroneamente avanzata sotto forma di vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 può convertirsi in una sostanziale denuncia di violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi del n. 3 dello stesso articolo, ostandovi il costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 5.6.07 n. 13066) secondo il quale, dovendo il ricorso ex art. 360 c.p.c. contenere, a pena di inammissibilità, motivi specifici, completi e riferibili alla decisione impugnata, è inammissibile il motivo che non precisi la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la pronunzia di merito (non essendo al riguardo sufficiente un’apodittica affermazione di erroneità), dovendo il ricorrente porre la Corte Suprema in grado di orientarsi tra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la sentenza impugnata e di assolvere, così, al compito istituzionale di verificare il fondamento della suddetta violazione.

Quanto all’aggravamento, in realtà il ricorso confonde l’aggravamento di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 83 (e l’eventuale legittimazione INAIL) con l’aggravarsi dell’invalidità del lavoratore pur sempre dovuta al sovrapporsi della menomazione conseguente al secondo infortunio a quella derivante dal primo.

Trascura, poi, la società ricorrente che la formula Gabrielli di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 79 non si applica se non per invalidità preesistenti derivanti da fatti estranei al lavoro o da altri infortuni in diverso settore di tutela, mentre se la menomazione preesistente è concorrente e provocata da un evento lavorativo nello stesso settore di tutela (come nel caso di specie) si opera una valutazione complessiva, come se un unico infortunio avesse provocato più menomazioni, ma ciò non trasforma il fatto storico costituito pur sempre dalla duplicità di eventi traumatici, diversi nel tempo e nello spazio.

Ciò conferma altresì la correttezza logica dell’impugnata sentenza nell’interpretare la volontà espressa dall’odierno controricorrente nella transazione sopra ricordata.

5- In breve, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 50,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2012.

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