Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 07-07-2011) 28-09-2011, n. 35257

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza in data 27/10/2010 il Tribunale di Reggio Calabria, adito dall’indagato B.C. in sede di riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p., confermava la misura cautelare della custodia in carcere inflitta al predetto con ordinanza in data 14/9/2010 del G.I.P. in sede per il reato di cui all’art. 416/bis c.p..

Si contestava all’indagato di aver fatto parte dell’associazione mafiosa denominata "’ndrangheta", avente natura transnazionale, operante sul territorio della Provincia di Reggio Calabria, e di altre aree del territorio nazionale ed estero, costituita da molte decine di "locali" o "’ndrine", articolate in tre mandamenti (Ionico, Tirrenico, Centro-Reggio città), aventi un organo di vertice e di coordinamento delle plurime "locali", in esso gravitanti, denominato "Provincia", ed in particolare della ‘ndrina di Grotteria – facente parte del Mandamento Ionico – con il compito di assicurare nell’ambito di essa, le comunicazioni tra gli associati, partecipare alle riunioni ed eseguire le direttive dei vertici della società e dell’associazione, riconoscendo e rispettando le gerarchie e le regole interne al sodalizio.

In motivazione il Tribunale richiamava le numerose sentenze, che avevano affermato l’esistenza dell’organizzazione criminosa e si soffermava sulla importanza vitale e strategica ai fini della operatività della consorteria dell’organismo di vertice, denominato "Provincia", composto di esponenti di rilievo dell’organizzazione criminosa, sulle modalità di costituzione, sulle competenze e sulla sua consistenza organica, che i precedenti giudicati non avevano avuto modo di approfondire; evocava quindi il contenuto delle numerose intercettazioni ambientali e telefoniche, nonchè i conseguenti servizi di o.p.c., posti in essere dalla p.g. a comprova dell’esistenza e della operatività della "locale" di Grotteria, della sua composizione interna e dei rapporti con le altre "locali";

non dubitava della gravita del quadro indiziario delineatosi a carico dell’indagato, richiamando in particolare una intercettazione ambientale, nella quale M.V. e P.P. F., indiscussi esponenti della ‘ndrangheta, fanno riferimento a persona, identificata per B.C., figlio di B. C., capo e organizzatore della "locale" di Grotteria, indicato quale affiliato con la dote "alta" – termine per indicare il grado di affiliazione -, valorizzando poi come riscontro individualizzante il riferimento che i due interlocutori avevano fatto ad un viaggio svolto dal predetto a Cuorgnè e poi a Milano insieme con "il figlio di A.C. e altri due", che gli inquirenti avevano accertato essersi effettivamente verificato; riteneva infine, quanto al quadro cautelare, inevitabile l’applicazione della massima misura cautelare in forza del titolo di reato e della presunzione di pericolosità sociale espressa dal disposto di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3.

Contro tale decisione ricorre l’indagato a mezzo del suo difensore, il quale nell’unico motivo a sostegno della richiesta di annullamento dell’impugnata decisione denuncia la violazione della legge processuale in riferimento all’art. 273 c.p.p. e penale in riferimento all’art. 416 bis c.p., nonchè il vizio di motivazione in riferimento alla valutazione della gravita del quadro indiziario.

Sostiene in particolare e in sintesi il difensore che a carico dell’indagato, persona incensurata, la cui utenza telefonica, era stata costantemente intercettata, senza alcun risultato utile all’accusa, deponeva il contenuto di una sola intercettazione ambientale di natura eteroaccusatoria, talmente generica, da non poter superare la soglia di semplice indizio insufficiente a sorreggere l’applicazione della massima misura coercitiva. Il Tribunale aveva poi travisato il tenore della conversazione, dalla quale si evinceva inequivocabilmente che i dialoganti facevano riferimento a un tale F. figlio di B.C., per come trascritto nell’intercettazione di cui al progr. 1518 del medesimo giorno a differenza di quanto affermato dal Giudice della cautela;

nè ad avvalorare il ritenuto riferimento a B.C. poteva valere il soggiorno di costui prima in Piemonte e poi nel capoluogo lombardo, cui faceva riferimento il P., quando affermava che "il figlio di C. era venuto con quattro giovanotti, il figlio di A.C. e altri due", giacchè nel suo breve soggiorno a Milano il ricorrente, per come emergeva dall’informativa, non risultava aver avuto alcun contatto con il P.; non solo, ma la persona, cui faceva riferimento il P., si sarebbe dovuta recare a Torino e subito dopo in America, laddove invece risultava pacificamente che l’indagato era rientrato in Calabria. Infine non uno solo dei reati-fine del sodalizio risultava addebitato all’indagato, onde si doveva nel caso in esame dubitare persino dell’esistenza della stessa organizzazione criminosa, non essendo all’uopo sufficiente il richiamo sul punto ad alcune sentenze passate in giudicato.

Il ricorso è inammissibile perchè fondato su motivi non consentiti e manifestamente infondati.

Ricorda il collegio che per gravi indizi di colpevolezza, che l’art. 273 c.p.p. esige ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale, devono intendersi tutti quegli elementi a carico di natura logica o rappresentativa, che – contenendo "in nuce" tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono di per sè a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato, e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (ex plurimis Cass. Sez. Un. 21/4-11/5/95 n. 11; Sez. 6 10/3/99 n. 864 Rv.

212998; Sez. 2 10/1-16/4/03 n. 18103 Rv. 224395).

Nel caso in esame la censura del ricorrente è tutta tesa a dimostrare attraverso la prospettazione di un possibile errore nella identificazione dell’indagato, la insussistenza dell’ipotesi di concorso del predetto nell’associazione mafiosa, meglio nota come "’ndrangheta".

Le ragioni poste dalla difesa a sostegno sul punto non appaiono tuttavia idonee a vulnerare il processo logico argomentativo seguito dai giudici della cautela, giacchè, se è vero che i dialoganti nella loro conversazione facevano riferimento a tale F., che secondo la difesa, doveva identificarsi in C.F., figlio di B.C., la identificazione dell’indagato nella persona, che i predetti avevano indicato come affiliato alla "’ndrina di Grotteria", in virtù della "dote alta" posseduta e del rapporto familiare che lo legava al capo indiscusso del sodalizio, è correttamente avvenuta sulla base del riscontro individualizzante, costituito dalla verifica, operata dagli inquirenti, del viaggio, che costui aveva in precedenza effettuato insieme ad altre tre persone e che gli stessi dialoganti gli avevano contestualmente attribuito.

Siffatta motivazione non appare sindacabile in sede di scrutinio di legittimità dell’ordinanza impugnata, soprattutto quando il ricorrente si limita sostanzialmente a sollecitare un non consentito riesame del merito attraverso la rilettura del materiale investigativo.

Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 c.p.p., di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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