Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 07-07-2011) 28-09-2011, n. 35251

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza in data 27/10/2010 il Tribunale di Reggio Calabria, adito dall’indagato F.A. in sede di riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p., confermava la misura cautelare della custodia in carcere inflitta al predetto con ordinanza in data 14/9/2010 del G.I.P. in sede per il reato di cui all’art. 416 bis c.p..

Si contestava all’indagato di aver fatto parte dell’associazione mafiosa denominata "’ndrangheta", di natura trasnazionale, operante sul territorio della Provincia di Reggio Calabria, e di altre aree del territorio nazionale ed estero, costituita da molte decine di "locali" o "’ndrine", articolate in tre Mandamenti (Ionico, Tirrenico e Centro-Reggio città), aventi ciascuno un organo di vertice e di coordinamento delle plurime "locali", in esso gravitanti, denominato "Provincia", ed in particolare della ‘ndrina di Siderno – facente parte del Mandamento Ionico – con il compito di assicurare nell’ambito di essa le comunicazioni tra gli associati, partecipare alle riunioni ed eseguire le direttive dei vertici della società e dell’associazione, riconoscendo e rispettando le gerarchie e le regole interne al sodalizio.

In motivazione il Tribunale richiamava le numerose sentenze, che avevano affermato l’esistenza dell’organizzazione criminosa e si soffermava sulla importanza vitale e strategica, ai fini della operatività della consorteria, dell’organismo di vertice, denominato "Provincia", composto da esponenti di rilievo dell’organizzazione criminosa, sulle modalità di costituzione, sulle competenze e sulla sua consistenza organica, che i precedenti giudicati non avevano avuto modo di approfondire; evocava quindi il contenuto delle numerose intercettazioni ambientali e telefoniche, nonchè i conseguenti servizi di o.p.c., posti in essere dalla p.g. a comprova della esistenza ed operatività della "locale" di Siderno, della sua organizzazione interna e dei rapporti con le altre "locali"; non dubitava della gravità del quadro indiziario delineatosi a carico dell’indagato, richiamando in particolare due intercettazioni ambientali, in una delle quali è lo stesso F., che avvicina C.G., capo indiscusso della "locale" ed esponente di spicco della "Provincia", dopo averlo chiamato " ma." e si scusa di non poter partecipare alla riunione, che si sarebbe tenuta a Canolo proprio quel giorno, nell’altra è indicato, dai conversanti C.G. e M.C. – altro elemento apicale della società di Siderno – quale affiliato alla "’ndrangheta" e titolare di un’alta carica nell’ambito del sodalizio, al quale il sodale M.R. si era rivolto in primis, per ottenere il consenso a ricoprire il ruolo apicale di F.A., ritenuto non più idoneo; riteneva infine, quanto al quadro cautelare, inevitabile l’applicazione della massima misura cautelare in forza del titolo di reato e della presunzione di pericolosità sociale espressa dal disposto di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3.

Contro tale decisione ricorre l’indagato a mezzo del suo difensore, il quale nell’unico motivo a sostegno della richiesta di annullamento dell’impugnata decisione denuncia il vizio di motivazione, testualmente rilevabile in riferimento all’erronea valutazione dei presupposti legittimanti la massima misura cautelare. Osserva in particolare e in sintesi che nessuna delle due conversazioni poteva ritenersi gravemente indiziante; quella eteroaccusatoria nella quale C.G. nel discutere con M.C. sulle problematiche interne al sodalizio e del blocco nell’assegnazione delle cariche nella "locale" di Siderno, riferisce che il M. R. aveva preso contatti con "ngilla", ossia il F. prima e successivamente con lui per avere la carica di "capo Società", in atto appartenente al " t.", ossia di F.A., persona ritenuta non degna di ricoprire tale carica, conteneva un errore di fondo, giacchè, per come evidenziato nella consulenza tecnica di parte, la trascrizione fedele non era "appena glielo ha detto ngilla", bensì "appena gli ho detto ngilla", frase che escludeva un coinvolgimento diretto del prevenuto nell’azione del "compare R.". Anche a voler aderire all’impostazione accusatoria che identificava ‘ingilla con il F.A., da quella conversazione non si rilevava alcun elemento utile per affermare il ruolo di partecipe di costui nè sotto il profilo statico, nè sotto quello dinamico. Inoltre sulla medesima conversazione il giudice del riesame aveva reso due opposte interpretazioni, incompatibili tra loro, nella prima (pag. 25) aveva affermato che M.R. avrebbe prima preso contatti con ngilla, poi si sarebbe recato dal C. per chiedere di poter prendere la carica di capo società al T., nella seconda (pag.32) aveva concluso che il M.R. si era poi recato dal C. per proporre il passaggio della carica detenuta dal T. in capo al F., e ciò a prescindere dalla confusione tra gli appellativi di " t." attribuito al F. e " t." attribuito al F.. Quanto alla seconda conversazione auto-accusatoria, anch’essa risultava manchevole di rilevanza indiziaria, risolvendosi in un intervento parlato della durata meno di un minuto da parte dell’indagato, visto scendere nel seminterrato del centro commerciale del C., in cui l’indagato si era scusato con quest’ultimo di non potersi trattenere, anche se poi si era appartato con lui, senza che fosse stato accertato l’oggetto della discussione; nè poteva assurgere ad elemento gravemente indiziante l’appellativo di " Ma." rivolto al C., giacchè se veramente il C. fosse stato "suo mastro" il F. non avrebbe mai osato declinare l’invito ad una supposta riunione indetta da costui.

Il ricorso è inammissibile, giacchè le censure proposte sono dirette a ottenere una rilettura delle risultanze processuali e una rivalutazione della consistenza indiziaria e delle circostanze poste dal giudice della cautela a fondamento della custodia cautelare in carcere, condivise e fatte proprie dal Tribunale, come sintetizzate in narrativa con specifico riferimento alle censure formulate dal ricorrente. Gli argomenti sviluppati dal giudice del riesame danno adeguatamente conto dell’esistenza dell’associazione di natura mafiosa, meglio nota come "’ndrangheta" della sua evoluzione storica e della sua propaggine nella "’ndrina" di Siderno, nonchè della partecipazione ad essa dell’indagato e del ruolo ricoperto dal predetto all’interno di tale sodalizio criminoso.

Infatti il percorso argomentativo, sebbene riproduca in parte le motivazioni del provvedimento cautelare e ne sintetizza i contenuti significativi e condivisi dal Tribunale, è completo, logicamente corretto e privo di aporie, laddove pone in risalto gli elementi per i quali il F. fosse da ritenersi partecipe dell’organizzazione criminosa e contribuisse consapevolmente alla sua operatività.

Va poi ricordato che il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze in tema di procedimenti incidentali, relativi alla libertà personale non può riguardare la verifica della rispondenza delle argomentazioni, poste a fondamento della decisione impugnata alle acquisizioni processuali, provvedendosi così ad una rilettura degli elementi di fatto, atteso che la relativa valutazione è riservata in via esclusiva al giudice del merito.

Principio quest’ultimo che non può non valere anche per l’asserito travisamento del fatto, riferito alla verifica della consistenza indiziaria e la significato di essa in relazione all’oggetto dell’accusa.

Questa Corte ha già più volte ribadito che il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, dopo le modifiche apportare dalla L. n. 46 del 2005, art. 8, non può consistere in una rilettura degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice del merito, senza che possa integrare il vizio di motivazione la prospettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione del quadro indiziario.

Del resto la valutazione della gravità indiziaria che – avvenendo nel contesto incidentale del procedimento de libertate, e, quindi, allo stato degli atti, cioè sulla base di materiale conoscitivo in itinere – deve essere orientata ad acquisire non la certezza, ma la elevata probabilità di colpevolezza dell’indagato.

Completezza e coerenza della motivazione, in tale contesto valutativo, rendono dunque inammissibile il sindacato richiesto a questa Corte di legittimità.

Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 c.p.p., di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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