Cass. pen., sez. III 21-06-2006 (21-03-2006), n. 21488 SANITÀ PUBBLICA – Gestione dei rifiuti – Materiali di dragaggio portuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto e diritto

Il G.I.P. del Tribunale di Chiavari, con ordinanza del 12.12.2005, disponeva il sequestro preventivo di un’area, sita a sud della locale piazza dell’Umanità ed a dieci metri di distanza dalla scogliera frangiflutti, interessata dallo stoccaggio in due grandi vasche di fanghi e materiali varii derivanti dal dragaggio del fondale del porto turistico marittimo.

La misura di cautela reale veniva adottata in relazione ai reati di cui all’art. 51 del D.Lgs, n. 22/1997 ed all’art. 181 del D. Lgs. n. 42/2004, ipotizzati nei confronti anche di P? S?, sindaco pro-tempore.

Veniva contestato all’indagato, nella qualità, di avere, senza le prescritte relative autorizzazioni:

– gestito e stoccato rifiuti costituiti da materiale di risulta di opere di dragaggio del porto (oltre a fanghi, rifiuti disomogenei quali catene, cavi di acciaio e di nylon, reti da pesca, legno, plastica, copertoni di auto, batterie, accumulatori etc.)

– effettuato, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, il deposito di tali materiali (circa 10.000 mc. derivanti dal dragaggio dell’imbocco del porto e circa 7.500 mc. derivanti dal dragaggio all’interno di esso) in due grandi vasche.

Il G.I.P., quanto alla violazione della normativa sui rifiuti, rilevava che:

– alle sabbie dragate, nella specie, erano mischiati rifiuti disomogenei e non riutilizzabili neppure previo trattamento, i quali, in ogni caso, previa un’operazione di cernita, dovevano essere inviati in discarica;

– era stato previsto l’utilizzo dei fanghi per creare un piazzale sopraelevato da adibire a parcheggio; detto riutilizzo, però, costituiva il frutto di una scelta amministrativa che non si riconnetteva alla qualità intrinseca del materiale e non lo privava della qualifica di rifiuto;

– l’ARPAL aveva effettuato alcune campionature in sede di caratterizzazione del materiale da dragare (allorquando questo si trovava ancora nel fondo marino) in seguito alle quali aveva concluso [con missiva del 10.3.2003] che "i valori riscontrati, con particolare riferimento a L.P.A., P.C.B., pesticidi e fitofarmaci, granulometria (fraz. fini), fanno ritenere doversi esprimere giudizio negativo circa l’ipotesi di un eventuale riutilizzo per ripascimenti", ed aveva poi ribadito [con missiva del 17.5.2004) che le risultanze delle analisi non potevano di per sé legittimare un riutilizzo alternativo del materiale per sottofondi e/o rilevati in aree a terra.

Il Tribunale di Genova, con ordinanza del 9.1.2006, rigettava l’istanza di riesame proposta nell’interesse del sindaco indagato.

Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il P?, il quale – sotto il profilo della violazione di legge – ha eccepito che:

– "le sabbie dragate dal fondo marino non sono ex se qualificabili come rifiuto (tanto da non essere così indicate nel Catalogo europeo dei rifiuti e negli allegati del decreto Ronchi) e possono venire riutilizzate, in ossequio all’art. 6 del decreto Ronchi come autenticamente interpretato dalla legge n. 178/2002, a seguito di semplice trattamento preventivo non rientrante tra quelli finalizzati al recupero";

– un materiale non costituisce "rifiuto" se manca la decisione di disfarsene. Nella specie, con espressa delibera di Giunta e presentazione di variante progettuale, era stato previsto che le sabbie provenienti dal dragaggio del porto venissero destinate al riempimento di un’area destinata a parcheggio, previo mero dilavamento con acqua dolce da realizzarsi in due vasche precarie create a margine dell’area da ricolmare: detto dilavamento integra appunto mero "trattamento preventivo" e non operazione di recupero, mentre l’acqua di lavaggio, che può contenere residui argillosi, era stata smaltita come rifiuto da una ditta autorizzata;

– la presenza di materiali diversi da quello sabbioso e la necessità di provvedere alla loro separazione dalla sabbia dragata non potrebbe mai, anche qualora detta separazione non fosse autorizzata, trasformare la sabbia in rifiuto;

– la destinazione del materiale dragato, prevista dal Comune, deve considerarsi "certa ed attuale", pur non essendo stata ancora approvata il relativo progetto di variante: la "certezza" del riutilizzo, infatti, è collegata non all’effettività fattuale di questo, bensì all’esistenza di segni esteriori in equivoci che portino ad individuare con un grado di sufficiente certezza quale sarà la destinazione del prodotto;

– esiste un protocollo ARPAL che fissa i limiti di inquinamento nelle sabbie ma solo per il successivo ripascimento delle spiagge. Le sabbie dragate, invece, anche in relazione alle analisi effettuate dall’ARPAL sul fondale da cui sono state prelevate, sono nei limiti, diminuiti prudenzialmente del 10%, dei parametri stabiliti dal D.M. n. 471/1999 per il riutilizzo a scopi industriali e tale deve considerarsi il riempimento di un’area destinata a parcheggio.

Il ricorso deve essere rigettato, poiché infondato.

1. Il reato di cui all’art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004.

Sussiste ad evidenza – ed in proposito non vi è contestazione alcuna dell’indagato – il "fumus" della contravvenzione di cui all’art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004.

Il primo comma di tale articolo (che, nella sua formulazione complessiva, ha subito rilevanti modifiche ad opera della legge 15.12.2004, n. 308) punisce come reato contravvenzionale la condotta di "chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici".

Viene imposto così un generale di divieto di alterare lo stato dei beni vincolati, apportandovi modificazioni suscettibili di recare pregiudizio a quell’aspetto esteriore ed a quel pregio estetico che costituisce l’oggetto e la ragione della tutela.

Ogni intervento deve essere autorizzato dall’autorità competente, secondo le procedure previste dalla normativa di dettaglio, con le sole deroghe previste dall’art. 149 dello stesso D.Lgs.

La condotta vietata consiste, dunque, nell’effettuazione di opere o lavori di qualsiasi genere, non necessariamente afferenti all’edilizia, ma potenzialmente modificativi dell’assetto del territorio assoggettato a vincolo paesaggistico.

L’eventuale carattere temporaneo delle opere realizzate non esclude la sussistenza del reato, poiché anche una modificazione temporanea dei luoghi può concretizzare un danno ambientale e perché soltanto il controllo preventivo dell’autorità preposta alla tutela del vincolo consente di accertare la natura realmente temporanea dell’intervento ed eventualmente di prescrivere le cautele necessarie alla realizzazione dello stesso ed alla rimozione successiva dei suoi effetti (vedi Cass., Sez. III, 15.10.1999, Di Tommaso).

La ravvisabilità del "fumus" del reato in oggetto già dà sola giustifica la misura di cautela reale adottata.

2. La disciplina dei "rifiuti" ed i materiali insistenti nell’area sequestrata.

2.1 Le caratteristiche principali della nozione di "rifiuto", in ambito europeo, sono individuate dall’art. 1 della direttiva del Consiglio 15.7.1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 18.3.1991, n. 91/156/CEE [sostituita, nelle more della redazione della presente sentenza, dalla direttiva del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea 5.4.2006, n. 2006/12/CE] e dall’art. 1 della direttiva del Consiglio 20.3.1978, n. 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), modificata dalla direttiva 12.12.1991, n. 91/689/CEE.

Secondo tali direttive "per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od oggetto [che attualmente rientri nelle categorie riportate nell’Allegato I alla direttiva n. 2006/12/CE] di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi".

La nozione medesima è stata altresì recepita dall’art. 2, lett. a), del Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo Corte Cost. n. 170/1984).

2.2 Nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano la nozione di "rifiuto", sono state riprodotte nell’art. 6, comma 1 – lett. a), del D.Lgs. n. 22/1997 [ed attualmente nell’art. 183, lett. a), del D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, pubblicato nella G. U. n. 96/L del 14.4.2006] secondo cui "è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A (attualmente alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006) e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi".

Tale normativa – attraverso il rinvio all’Allegato A), che riproduce l’Allegato I della direttiva n. 75/442/CEE e della direttiva n. 2006/12/CE – riporta l’elenco delle 16 categorie di rifiuti individuate in sede comunitaria.

Il primo elemento essenziale della nozione di "rifiuto", nel nostro ordinamento, è costituito, pertanto, dall’appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A), ma l’elenco delle 16 categorie di rifiuti in esso contenuto non è esaustivo ed ha un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato "A) comprende due voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti:

– la voce Q1, che riguarda "i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati";

– la voce Q16, che riguarda "qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate".

ÿ necessario tenere essenzialmente conto, pertanto, delle ulteriori condizioni imposte dalla legge, e verificare cioè, anche e soprattutto, che il detentore della sostanza o del materiale:

– se ne disfi;

– o abbia deciso di disfarsene;

– o abbia l’obbligo di disfarsene.

2.3 Le tre diverse previsioni del concetto di "disfarsi" avevano trovato "interpretazione autentica" nell’art. 14 del D.L. 8.7.2002, n. 138, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale e convertito nella legge 8.8.2002, n. 178.

Secondo quella interpretazione:

a) "si disfi" doveva intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;

b) "abbia deciso di disfarsi" doveva intendersi: la volontà di destinare sostanze, materiali o beni ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;

c) "abbia l’obbligo di disfarsi" doveva intendersi: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’ elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce la lista di rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono classificati come pericolosi).

Le fattispecie di cui alle lettere b) e c) [cioè le ipotesi in cui il detentore della sostanza o del materiale "abbia deciso" ovvero "abbia l’obbligo di disfarsi" e non anche l’ipotesi in cui esso "si disfi"] non ricorrevano – per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo – ove sussistesse una delle seguenti condizioni:

1) gli stessi potessero essere e fossero effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;

2) gli stessi potessero essere e fossero effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’Allegato C) del D.lgs. n. 22/1997.

Era stata cosi introdotta una doppia deroga alla nozione generale di "rifiuto", in relazione alla quale la Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione (ex art. 169/226 del Trattato) nei confronti del Governo italiano, per mancato rispetto della direttiva n. 75/442/CEE come modificata dalla direttiva n. 91/156/CEE, conclusasi con un invito di conformazione rivolto al nostro Paese, essendo stata ravvisata "un’indebita limitazione del campo di applicazione dello nozione di rifiuto", nozione che "non può essere commisurata allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento che viene effettuata".

2.4 La Corte Europea di giustizia – con la sentenza 11.11.2004, Niselli – ha affermato che:

a) "La direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario ? Dal fatto che su una sostanza venga eseguita un’operazione menzionata negli allegati II a o II B della direttiva 75/442 non discende necessariamente che l’operazione consista nel disfarsene e che, quindi, tale sostanza vada considerata rifiuto". Ne consegue che "la definizione di rifiuto contenuta nell’art. 1, lett. a) – l° comma, della direttiva 75/442, non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionate negli allegati II a e II B di detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia l’intenzione o l’obbligo di destinarli a siffatte operazioni". La qual cosa equivale ad escludere che la nozione di rifiuto possa dipendere, in definitiva, da un’elencazione chiusa di comportamenti e sostanze.

b) "La definizione di rifiuto, contenuta nell’art. 1, lett. a) – 1° comma, della direttiva 75/442, non deve essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l’insieme dei residui di produzione di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B di tale direttiva".

ÿ ammissibile e non contrasta con le finalità della direttiva 75/442 "un’analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non é principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell’art. 1, lett. a) – 1° comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari".

Ne è derivata la affermazione della illegittimità comunitaria dell’art. 14 del D.L. n. 138/4102, perché i materiali che non sono riutilizzati in maniera certa e richiedono una previa trasformazione sono semplici sostanze di cui i detentori si sono voluti disfare, che "devono tuttavia conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati [? ], finché cioè non costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati. Nelle fasi precedenti essi non possono ancora, infatti, essere considerati riciclati, poiché il detto procedimento di trasformazione non è terminato. Viceversa, fatto salvo il caso in cui i prodotti ottenuti siano a loro volta abbandonati, il momento in cui i materiali in questione perdono la qualifica di rifiuto non può essere fissato ad uno stadio industriale o commerciale successivo alla loro trasformazione [?], poiché, a partire da tale momento, essi non possono più essere distinti da altri prodotti scaturiti da materie prime primarie".

2.5 La sentenza interpretativa della Corte di Giustizia ha costituito il presupposto di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 del D.L. n. 130/2002 (convertito nella legge n. 178/2002), per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., sollevata da questa Corte Suprema con ordinanza n. 1414 del 16.1.2006, Rubino (ud. pubbl. del 14.12.2005).

Tutta la questione dovrà essere riesaminata, comunque, alla stregua delle nuove previsioni contenute, al riguardo, nel D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, pubblicato nella G. U. n. 96/L del 14.4.2006, attuativo della delega di cui alla legge n. 308/2004, che ha abrogato l’art. 14 del D.L. n. 138/2002 (art. 264, 1° comma, lett. l).

2.6 Nella fattispecie in esame, però – al di là di ogni questione riferita ai campionamenti ed alle analisi effettuati dell’ARPAL e dalla difesa, con particolare riguardo alla presenza nei fanghi di diossine, fisrani e fosforo ed alla configurabilità di pericolo di pregiudizio per l’ambiente – è l’oggettività del fatto a conferire ai materiali depositati nelle due vasche la qualificazione di "rifiuti". Ed infatti:

– in tali vasche, assoggettate a sequestro, erano depositati anche materiali (residuali non di produzione ma di consumo) compresi nell’ elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 [attualmente Allegato D) della parte IV del D.Lgs. n. 152/2006] per i quali sussisteva e sussiste "l’obbligo di disfarsi"’;

– i materiali da dragaggio portuale dovevano subire, nella specie, una preliminare attività di separazione e di cernita [attività la cui qualificazione come "trattamento preventivo", piuttosto che come "recupero", non era pacifica anteriormente al D.Lgs. n. 152/2006] e si ricollegano comunque ad una operazione di recupero (R14) ricompresa tra quelle individuate nell’Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997;

– il successivo lavaggio con acqua dolce non costituisce mero "trattamento preventivo", bensì vera e propria operazione di recupero, implicante trasformazione merceologica del materiale attraverso la separazione di residui argillosi (che, secondo le ammissioni dello stesso ricorrente, venivano smaltiti come rifiuto da una ditta autorizzata);

– prima della cernita e del dilavamento, dunque, i materiali dragati conservavano la qualifica di rifiuti.

La situazione è ancora più chiara alla stregua della normativa introdotta [nelle more della redazione della presente sentenza) dal D.Lgs. n. 152/2006, in quanto:

– l’art. 185, 1° comma, lett. 1), del D.Lgs. n. 152/2006 esclude dal campo di applicazione della parte IV dello stesso testo normativo non il materiale da dragaggio dei porti marittimi, bensì esclusivamente il "materiale litoide estratto da corsi d’acqua, bacini idrici ed alvei, a seguito di manutenzione disposta dalle autorità competenti"’;

– il materiale da dragaggio ricavato nella fattispecie non può qualificarsi – allo stato – "materia prima secondaria", ai sensi dell’art. 181, commi 6 e 13, del D.Lgs. n. 152/2006, anche in mancanza del decreto ministeriale di attuazione previsto dal 6° comma;

– a norma dell’art. 181, comma 12, del D.Lgs. n. 152/2006, "la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero, che si realizza quando non sono necessari ulteriori trattamenti perché le sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria, combustibile o come prodotto da collocare, a condizione che il detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l’obbligo, di disfarsene";

– tra le operazioni di "recupero", ex art. 183, lett. h), del D.Lgs. n. 152/2006, sono espressamente "incluse la cernita o la selezione".

2.7 Nella specie è ravvisabile, pertanto, il "fumus" anche della ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 51, 1° comma, lett. a) e b), del D. Lgs. n. 22/1997 [attualmente art. 256, 1° comma, del D.Lgs. n. 152/2006].

Né allo stato – tenuto anche conto che il deposito del materiale dragato è in corso dal 2004 – sussistono elementi che rendano applicabile, ad evidenza, il disposto dell’art. 6, comma 1, lett. m), del D. Lgs. n. 22/1997 (con le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 389/1997) ed attualmente dell’art. 183, lett. m), del D.Lgs. n. 152/2006, al fine di argomentare che non si verterebbe in tema di "gestione di rifiuti", bensì sarebbe configurabile soltanto una legittima operazione preliminare all’attività di gestione, preparatoria al recupero.

Tali norme definiscono il deposito temporaneo dei rifiuti quale "raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti" nel rispetto di specifiche condizioni riferite: ai limiti della presenza di determinate sostanze; alle cadenze temporali di raccolta e di avviamento alle operazioni di recupero o di smaltimento; ai termini massimi di durata; alle modalità del deposito stesso.

Non risulta, nella specie, che dette condizioni siano state rispettate.

3 I limiti dell’accertamento incidentale demandato al Tribunale dei riesame.

Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema, nei procedimenti incidentali aventi ad oggetto il riesame di provvedimenti di sequestro:

– la verifica delle condizioni di legittimità della misura da parte del Tribunale non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità dell’indagato in ordine al reato o ai reati oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria ed attenta della antigiuridicità penale del fatto (Cass., Sez. Un., 7.11.1992, ric. Midolini);

– "l’accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati cosi come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica. Il Tribunale, dunque, non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l’indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l’integralità dei presupposti che legittimano il sequestro" (Cass., Sez. Un., 29.1.1997, n. 23, ric. P.M. in proc. Bassi e altri).

Alla stregua di tali principi e di tutte le considerazioni dianzi svolte, deve allora rilevarsi che, nella fattispecie in esame – spettando ai giudici del merito l’ulteriore approfondimento e la compiuta verifica – allo stato, a fronte dei prospettati elementi, della cui sufficienza in sedi cautelare non può dubitarsi, le argomentazioni difensive non valgono certo ad escludere la legittimità della misura adottata.

4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 127 e 325 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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