Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-02-2012, n. 2010

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado,respingeva la domanda proposta da C.C. e dalla Consigliera di Parità per la provincia di Verona Sig.a L. P. nei confronti della società Antonelli Impianti avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento intimatole dalla predetta società per mancato superamento del periodo di prova del quale la lavoratrice aveva dedotto la natura discriminatoria in quanto determinato dallo stato oggettivo della gravidanza.

La Corte territoriale rilevava, innanzitutto, che per espressa previsione legislativa il divieto di licenziamento in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza non operava, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3 in caso di esito negativo della prova.

Riteneva, poi, la predetta Corte che la lavoratrice, sulla quale incombeva il relativo onere -e tanto anche ai sensi delle Direttive 97/80 del 15 dicembre 1997 e n. 54 del 5 luglio 2006 nonchè del D.Lgs. n. 198 del 2006 e della L. 6 giugno 2008, n. 101, non aveva fornito elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di discriminazione non essendo risultata dimostrata l’assunta conoscenza da parte del datore di lavoro, alla data del licenziamento, dello stato di gravidanza, il prospettato superamento della prova e l’allegata esiguità del periodo di prova.

Avverso questa sentenza C.C. e la Consigliera di Parità per la provincia di Verona Sig.a P.L. propongono ricorso per cassazione sostenuto da tre censure.

Parte intimata resiste con controricorso, illustrato da memoria, eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo le ricorrenti, deducendo violazione della direttiva CE 97/80 e violazione degli artt. 11, 117, 234 e 267 Cost., pongono il seguente quesito di diritto: "se i requisiti della precisione e concordanza richiesti dalla L. n. 125 del 1981, art. 4 ma non dalle direttive europee in materia di discriminazione di genere, costituiscano violazione della normativa comunitaria, in quanto introducono un aggravamento altrimenti non previsto dell’onere della prova incombente sul ricorrente".

Con la seconda censura le ricorrenti, denunciando violazione della L. n. 903 del 1977, art. 1 ed applicazione discriminatoria della L. n. 125 del 1991, art. 4, comma 5 formulano i seguenti quesiti di diritto: 1."dica la Corte se, ai fini dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, l’indagine sullo stato di gravidanza della lavoratrice sia o meno consentita dalla normativa in materia di discriminazione di genere"; 2. "se tra gli elementi, di fatto richiesti dalla L. n. 125 del 1991, art. 4, comma 5 ai fini dell’inversione dell’onere della prova della lamentata discriminazione, nel caso di lavoratrice in gravidanza, tra questi vi debba necessariamente essere la conoscenza da parte del datore di lavoro dello stato di gravidanza della dipendente".

Con la terza critica le ricorrenti, prospettando violazione della L. n. 125 del 1991, art. 4, comma 5 ed insufficiente ed errata motivazione circa la non sussistenza degli elementi di fatto idonei a fondare la presunzione di discriminazione prevista dalla L. n. 125 del 1991 e la conseguente inversione dell’onere della prova, articolano i seguenti quesiti: 1."se il giudice ai fini dell’applicazione dell’inversione dell’onere della prova stabilita dalla L. n. 125 del 1991, art. 4, comma 5 nel valutare la presenza degli elementi di fatto di cui alla medesima norma, possa tener conto della prova contraria fornita dal convenuto o se invece, detta prova contraria possa venire esaminata solo in un secondo momento ai fini della valutazione dell’esistenza o meno della lamentata discriminazione"; 2. "se nel caso di assunzione in prova di lavoratore per le medesime mansioni dallo stesso eserciate durante uno stage presso la medesima azienda, detto patto di prova sia illegittimo ai sensi dell’art. 2096 c.c., mancando la necessità di accertare le capacità professionali del lavoratore"; 3. "se, nel caso di assunzione e assegnazione al lavoratore di mansioni dallo stesso esercitate in precedenza, possa considerarsi sufficiente, ai sensi dell’art. 2096 c.c. (all’acquisizione della nuova professionalità e alla conseguente valutazione della capacità del prestatore d’opera un periodo di prova pari ad un terzo rispetto a quella pattuita".

Rileva la Corte che i motivi sono inammissibili perchè formulati in violazione dell’art. 366 bis c.p.c., così come eccepito nel controricorso dalla società resistente.

La giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha chiarito che il quesito di diritto, previsto dalla richiamata norma di rito, ha lo scopo precipuo di porre in condizione la Cassazione, sulla base della lettura del solo quesito, di valutare immediatamente il fondamento della dedotta violazione (Cass. 8 marzo 2007 n. 5353) ed a tal fine è imposto al ricorrente di indicare, nel quesito, anche l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759), in modo tale che dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in maniera univoca l’accoglimento od il rigetto del ricorso (Cass. S.U. 28 settembre 2007 n. 20360).

In tale prospettiva questa Corte ha affermato che, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420); ovvero quando, essendo la formulazione generica e limitata alla riproduzione del contenuto del precetto di legge, è inidoneo ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo, mentre la norma impone al ricorrente di indicare nel quesito l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759 cit.).

Pertanto questa Corte ha rimarcato che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo con la conseguenza che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (Cass. SU 30 settembre 2008 n. 24339 e Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044).

Nella specie rileva la Corte che, relativamente alla dedotta violazione di legge, la formulazione dei relativi quesiti di diritto o dei principi di cui si chiede l’applicazione, prescinde del tutto dall’indicazione, come si desume dalle su riportata trascrizione degli stessi, sia della diversa regola iuris posta a base della sentenza impugnata, sia del tipo di controversia e della sua riconducibilità alla fattispecie in esame, sicchè non è consentito a questa Corte di valutare, sulla base dei soli quesiti, se dall’accoglimento dei motivi possa o meno derivare l’annullamento della sentenza impugnata.

L’affermazione di un principio di diritto da parte di questa Corte, del resto, non è fine a sè stessa, ma è necessariamente strumentale, pur nella funzione nomofilattica, alla idoneità o meno del principio da asserire a determinare la cassazione della sentenza impugnata.

Relativamente al denunciato vizio di motivazione, poi, difetta la indicazione del fatto controverso, intesa quale sintesi riassuntiva, simile al quesito di diritto, delle ragioni che rendono, in caso d’insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (cfr. Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. S.U. 18 giugno 2008 n. 16528 e Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 2063).

Nè con la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, può chiedersi a questa Corte, come nella specie, un accertamento di fatto atteso che nel nostro ordinamento processuale la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce a, giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito al quale spetta, in via esclusiva, il compito di valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) (in tal senso per tutte Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e Cass. 27 luglio 2008 n. 2049).

A conforto di quanto fin’ora osservato va rilevato che la sentenza impugnata ha sottolineato, correttamente, come l’ordinamento comunitario e quello nazionale richiedono che chi si ritenga discriminato debba fornire fatti dai quali possa presumersi la denunziata discriminazione. La stessa sentenza al fine dell’inversione della prova della lamentata discriminazione ha, poi, evidenziato la necessità che vi sia da parte del datore conoscenza dello stato di gravidanza ed ha, infine rimarcato come nel caso di specie le risultanze istruttorie attestavano l’esito negativo della prova espletata.

Orbene a fronte dell’iter argomentativo corretto sul piano logico- giuridico le censure mosse nel ricorso per essere prive del requisito della specificità, non possono anche sotto tale versante, trovare ingresso in questa sede.

Sulla base delle esposte considerazioni, pertanto, il ricorso va rigettato per inammissibilità dei motivi.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese di legittimità liquidate in Euro 60,00 per esborsi ed oltre Euro 3500,00 per onorario oltre IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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