Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 22-06-2011) 28-09-2011, n. 35190 Custodia cautelare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.A. è stato attinto da ordinanza di custodia cautelare in carcere con provvedimento del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palermo del 30 giugno 2008.

Con sentenza del 21 gennaio 2010 il tribunale di Palermo ha condannato l’imputato alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione, oltre ad Euro 1600 di multa, per il reato di estorsione aggravata ai danni di D.G.G., quale titolare dell’omonima impresa di costruzioni.

Con ordinanza del 22 novembre 2010 il tribunale di Palermo respingeva la richiesta di revoca della misura custodiale; sosteneva il tribunale del riesame di Palermo che la presunzione di cui all’art. 275, comma 2, operasse anche in sede di richiesta di revoca o modifica della misura, e non soltanto nella fase genetica dell’originaria applicazione; inoltre, l’imputato non aveva evidenziato elementi sufficienti per ritenerla superata (non essendo tali il decorso del tempo e il comportamento dell’imputato).

Contro quest’ultima ordinanza proponeva appello la difesa; il tribunale del riesame di Palermo rigettava l’appello con ordinanza del 24 dicembre 2010. Contro l’ordinanza del riesame propone ricorso per cassazione il C.A.; premessi brevi cenni in ordine alla vicenda che aveva portato all’emissione dell’ordinanza cautelare, ed in particolare evidenziata la circostanza che il C.A. ammetteva sin da subito di essere intervenuto come mediatore dell’estorsione su esplicita richiesta dell’estorto, nonchè il fatto che la sentenza di condanna di primo grado era stata limitata alla predetta estorsione, mentre l’imputato era stato assolto dal reato di associazione mafiosa, con concessione ampia di attenuanti e determinazione della pena nel minimo, ciò premesso evidenzia i seguenti motivi di ricorso:

1. con il primo motivo lamenta che il tribunale del riesame non abbia adeguatamente valutato la situazione cautelare attuale, prendendo in esame la mutata situazione di fatto, anche con riferimento alla assoluzione del C.A. dal reato di associazione mafiosa e al lungo tempo trascorso dai fatti. In particolare evidenziava che il contegno processuale dell’imputato andava maggiormente valorizzato, non essendosi limitato ad un assoggettamento alla misura cautelare in corso, ma essendo consistito in una ben più pregnante ammissione dei fatti già apprezzata dal tribunale del merito; inoltre non si è dato il giusto peso al licenziamento del prevenuto, quale fatto nuovo e sopravvenuto, che esclude il C.A. da quel contestato e da quelle mansioni specifiche che ne avevano cagionato la condotta di reato;

ancora evidenziava come il C.A. fosse stato indicato solo dal collaboratore di giustizia N.. Sulla base delle predette affermazioni, la difesa lamenta l’inesistenza di un’adeguata motivazione e, non contestando che la disposizione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, operi un’inversione dell’onere della prova, ritiene comunque che il giudice sia tenuto a motivare sul mancato accoglimento delle considerazioni in fatto espresse dalla difesa;

2. con il secondo motivo di ricorso C.A. lamenta che il tribunale del riesame abbia aderito alla soluzione più restrittiva della cassazione, in ordine alla operatività della presunzione di cui all’art. 275, comma 3, mentre esiste un orientamento contrario secondo il quale il divieto di applicare una misura diversa rispetto alla custodia in carcere riguardi solo il provvedimento genetico e non la verificabilità in concreto richiesta in epoca successiva, al fine di accertare la sopravvenuta adeguatezza di altra misura meno afflittiva (25167/2010, 7).

Motivi della decisione

Le censure svolte nel ricorso possono essere trattate unitariamente, trattandosi di questioni strettamente collegate.

Va affrontata in primis la questione relativa all’operatività delle presunzioni di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 e, più in particolare, se essa sia limitata alla fase genetica dell’originaria emissione della misura, ovvero se persista anche con riferimento a successivo esame della situazione di fatto.

Non si sconosce l’indirizzo recentemente assunto da una sezione di questa corte (Cassazione penale sez. 6^ 20 ottobre 2010 n. 4424), secondo cui l’obbligatorietà della custodia in carcere ex art. 275 cod. proc. pen., comma 3, opera esclusivamente in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva, ma non riguarda le vicende successive della permanenza o meno delle esigenze cautelari, per le quali occorre sempre verificare la concreta sussistenza della pericolosità sociale dell’indagato e, qualora essa risulti affievolita, la legittima possibilità di applicare una misura meno gravosa; questa sezione, però, aderisce all’indirizzo prevalente e più rigoroso (assunto anche dalla medesima 6^ sezione; tra le più recenti si vedano Cass. 09 luglio 2010 n. 32222, n. 32223 e n. 32224), secondo il quale la presunzione di inadeguatezza di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere per i reati indicati dall’art. 275 c.p.p., comma 3, comporta l’impossibilità di sostituzione con misura meno afflittiva, imponendo al giudice di indicare di volta in volta gli elementi specifici dai quali risulti che, pur configurandosi un fondamento probatorio per imputazioni così gravi, non sussistono in concreto esigenze cautelari che giustifichino la custodia in carcere (Cassazione penale sez. 5^, 08 giugno 2010, n. 27146, est. Nappi;

conformi Cass. pen., sez. 6^, 26 gennaio 2005 n. 20447, Cass. pen., sez. 6^, 26 gennaio 2005 n. 9249, Cass. pen. n. 23924 del 2004, Cass. pen. n. 2711 del 2000).

Tale orientamento si basa su un argomento sistematico, laddove l’art. 299 c.p.p., comma 2, consente la sostituzione della misura quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, ma con espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall’art. 275, comma 3.

Ne consegue che è del tutto irrilevante un eventuale affievolimento delle esigenze cautelari, perchè solo il totale venir meno delle stesse potrebbe comportare la revoca della misura (cfr. Cassazione penale sez. 6^, 26 gennaio 2005 n. 9249, secondo cui In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, l’attenuazione delle esigenze cautelari presunte, ex art. 275 c.p.p., comma 3, comporta, purchè continuino a sussistere i gravi indizi di colpevolezza, il mantenimento della originaria e più grave misura coercitiva, come previsto dall’art. 299 c.p.p., comma 2, con la conseguenza che la revoca della misura può avere luogo solo se le dette esigenze vengano a mancare completamente); e sul punto si deve richiamare la pronuncia della 5^ sezione (8 giugno 2010, n. 27146), la quale ricorda che il giudice che ritiene siano venute meno in concreto le esigenze cautelari, pur configurandosi un fondamento probatorio per imputazioni così gravi (nel caso di specie è subentrata una sentenza di condanna in primo grado), deve indicare di volta in volta gli elementi specifici dai quali ciò risulti. Nel caso di specie, si deve rilevare innanzitutto che non sono elementi sufficienti per ritenere completamente superate le esigenze cautelari nè il decorso del tempo, nè il comportamento dell’imputato, come più volte affermato da questa Corte (cfr. Cassaz. 16425/2010).

Quanto all’assoluzione del C.A. dal reato di associazione mafiosa, sia sufficiente rilevare che il pericolo di reiterazione, che giustifica la permanenza delle esigenze cautelari, è stato ritenuto con riferimento all’estorsione (per la quale egli è stato condannato in primo grado) e non all’associazione mafiosa (cfr. pag. 4 ordinanza). Quanto al licenziamento del C. da parte della Cava srl, non solo vi è specifica e logica motivazione sul punto da parte del riesame, che mette il provvedimento al riparo da censure in sede di legittimità, ma deve altresì rilevarsi come non sia stato illustrato in modo adeguato il motivo per cui tale licenziamento dovrebbe influire in modo determinante sulla prognosi comportamentale del ricorrente, dato che la predetta società era stata non più che l’occasione che aveva spinto l’estorto a rivolgersi al C., ritenendo che lavorando costui in un’impresa di escavazioni gli fosse già capitato di essere oggetto di richieste estorsive. Quanto al fatto che il C. sia stato indicato solo dal collaboratore di giustizia N., trattasi di circostanza che, come già correttamente evidenziato dal tribunale del riesame, è priva di rilevanza, nè può essere oggetto di sindacato in questa sede, essendo specificamente motivata.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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