Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 09-06-2011) 28-09-2011, n. 35091

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza dell’8.5.2008 il Tribunale di Vallo della Lucania dichiarava:

– D.F.G. e D.F.Michele colpevoli dei reati di usura aggravata in danno di D.R.P. (capo 1 della rubrica accusatoria) e in danno di B.L. (capo 4), limitatamente ai fatti commessi successivamente al mese di Novembre del 2000;

– D.F.G., inoltre, dei reati di usura in danno di tale " L.", non meglio identificato (capo 2), di Pi.

V. (capo 5), di tre soggetti non identificati (capi 6, 7 e 9) e del reato di esercizio abusivo del credito (capo 10), tutti in concorso con D.F.M., giudicato separatamente, – M.F., M.A. e M.B. dei reati di usura e tentata estorsione aggravata in danno di B.L. (capi 11 e 12);

– P.M. dei reati di usura e tentata estorsione in danno di B.L. (capi 13 e 14);

– D.G.M. del reato di riciclaggio continuato di cui al capo 15;

dichiarava non doversi procedere nei confronti di D.F.G. e M. per i fatti di usura commessi fino al mese di Novembre del 2000, e nei confronti di M.F. per il reato di intestazione fittizia di beni di cui al capo 16, perchè estinti per prescrizione;

condannava D.F.G. alla pena di anni cinque, mesi sette di reclusione ed Euro 15.000 di multa;

D.f.M., con la concessione delle attenuanti generiche, alla pena di anni tre, mesi uno di reclusione ed Euro 5.500 di multa;

i M. alla pena di anni sei di reclusione ed Euro 3000 di multa ciascuno;

il P. alla pena di anni due, mesi dieci di reclusione ed Euro 1000 di multa;

il D.G., con la concessione delle attenuanti generiche, alla pena di anni due di reclusione ed Euro 1100 di multa;

applicava le pene accessorie conseguenti alle condanne più gravi e adottava le statuizioni per spese e danni ritenute di giustizia a favore delle persone offese dei delitti di usura, costituitesi parti civili.

2. Con sentenza del 14.10.2009, la Corte di Appello di Salerno, investita del gravame degli imputati, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava la prescrizione dei reati di usura di cui al capo 1 anche per i fatti successivi al Novembre 2000, e tutti gli altri reati ascritti ai predetti D.F., e dei reati ascritti ai M., al P. e al D.G., limitatamente ai fatti commessi fino al 18.10.2002;

rideterminava la pena nei confronti di M.B., in conseguenza dell’applicazione della diminuente del rito abbreviato, in anni quattro di reclusione, con la conseguente esclusione dell’interdizione legale e la sostituzione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea; confermava nel resto.

Ricorrono tutti gli imputati per mezzo dei rispettivi difensori.

3. I difensori di D.F.G. eccepiscono, in sintesi:

a) preliminarmente il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. c) in relazione all’art. 270 c.p.p., e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), in ordine al mancato rilievo della inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche. L’inutilizzabilità sarebbe conseguente al mancato deposito dei decreti autorizzativi, peraltro adottati in procedimento diverso; l’eventuale esclusione dell’inutilizzabilità, poi, imporrebbe uno doverosa verifica della costituzionalità della normativa di riferimento. Nel ricorso a firma dell’avv. Orecchio si sottolinea inoltre che gli atti relativi alle intercettazioni avrebbero dovuto essere depositati al più tardi con la richiesta di rinvio a giudizio, mentre erano rimasti custoditi presso gli uffici del Gico. b) il vizio di violazione di legge della sentenza ai sensi dell’art. 606, lett. b) in relazione agli artt. 81 cpv e 133 c.p., e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), rilevando la mancata riduzione della pena nonostante la dichiarazione di prescrizione di numerosi fatti di reato. Le valutazioni della Corte di merito sarebbero peraltro carenti rispetto all’individuazione del tempus commissi delicti dei fatti successivi al 18.11.2002, dovendosi al riguardo considerare che l’usura sarebbe un reato istantaneo, cristallizzato nel momento della pattuizione degli interessi usurari, senza che l’ulteriore svolgimento del rapporto possa rilevare in alcun modo. c) la mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 6060 c.p.p., lett. e), in ordine al giudizio di attendibilità delle persone offese. La difesa sottolinea, quanto al D.R., la sua imprecisione nell’indicazione dell’importo degli interessi versati; la riduzione ad uno solo dei numerosi acquisti di autovetture che sarebbero stati simulati a "copertura" dei rapporti usurari; l’effettivo utilizzo dell’autovettura "residua", da parte del D.R.. Quanto al B., la circostanza che lo stesso non avrebbe mai affermato che il D.F. fosse il proprietario della vendita immobiliare presuntivamente simulata ancora un a volta a copertura di un sottostante rapporto usurario, avendo oltretutto escluso la presenza dell’imputato in occasione della vendita; le contraddizioni tra la persona offesa e la moglie su alcuni aspetti della negoziazione, e sulla sua data; la smentita di alcuni particolari del racconto del B. da parte della sua segretaria;

l’impossibilità di desumere l’esistenza di pattuizioni usurarie dall’intercettazione ambientale nr. 1045 del 12.2.2003, che peraltro non vedrebbe tra gli interlocutori la stessa persona offesa. d) l’arbitrarietà delle valutazioni dei giudici di merito sul calcolo degli interessi, non risultando da alcuna risultanza istruttoria che essi andrebbero riferiti ad una pluralità di rapporti usurari, come ritenuto dai giudici di merito, e non ad un solo rapporto;

e) il vizio di violazione dell’art. 192 c.p.p. e art. 110 c.p. e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’affermazione del concorso nel reato di D.F.M., con particolare riferimento alla capacità reddituale dell’imputato;

f) il vizio di violazione di legge e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 644 c.p., comma 4, n. 3, asseritamente configurabile solo quando il prestito usurario venga subito da chi debba far fronte ad esigenze primarie, dovendosi inoltre considerare, quanto al D.R., la capacità economica dallo stesso dimostrata nelle vicende che lo riguardano. g) il vizio di violazione di legge e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 132; la Corte di merito non avrebbe considerato che nel caso di specie i finanziamenti erano diretti ad numero determinato e ristretto di persone e avevano carattere occasionale, in contrasto con la professionalità dell’attività creditizia tutelata dalla norma incriminatrice;

h) il vizio di violazione di legge in relazione alla mancata dichiarazione di prescrizione di tutti i reati ascritti ai D. F.;

i) il vizio di violazione di legge e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti per la confisca D.L. n. 356 del 1992, ex art 12 sexies. La Corte di merito avrebbe omesso di considerare che la sproporzione tra redditi e cespiti era stata esclusa dalla consulenza tecnica in atti, dalla quale risulterebbe che tutte le acquisizioni patrimoniali dei fratelli D.F. sono il frutto della loro attività imprenditoriale, e avrebbe inoltre trascurato che i beni confiscati erano stati acquistati anteriormente alle condotte di reato in contestazione; in ogni caso, la confisca non avrebbe potuto essere mantenuta in relazione ai reati per i quali è stata dichiarata la prescrizione, dal momento che il D.L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies richiede il presupposto della condanna.

4. Il difensore comune di M.F., B. e A., avv. Giovanni Oricchio, eccepisce il vizio di violazione di legge della sentenza in ordine alla ritenuta utilizzabilità delle intercettazioni; il vizio di violazione di legge con riferimento al divieto di reformatio in peius per la mancata riduzione della pena in dipendenza dell’ampliamento della pronuncia di prescrizione; il vizio di violazione di legge in riferimento all’art. 192 c.p.p., e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione dell’attendibilità della persona offesa B.L., che sarebbe smentita sulla base di varie considerazioni. Il B., già inaffidabile a causa del suo vissuto personale, avrebbe infatti mentito sull’importo delle somme consegnategli da M.F. per il tramite di M.B. e le sue confuse dichiarazioni sul tasso di interesse praticatogli non consentirebbero di affermare la natura usuraria del prestito. L’ultimo motivo è diretto a denunciare a il vizio di violazione di legge in relazione al D.L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies, per la ingiustificata valutazione della sussistenza dei presupposi della confisca a norma della citata disposizione, rilevando al riguardo la difesa che tutti i beni colpiti dalla misura patrimoniale sarebbero stati acquisiti anteriormente all’epoca dei fatti in contestazione.

5. A favore di M.B. è stato proposto inoltre distinto ricorso a firma dell’avv. Giuseppe Della Monica, in cui si replica la censura relativa alla violazione del divieto di reformatio in peius;

e si rileva in termini più ampi la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e il travisamento della prova in ordine all’affermazione della responsabilità dell’imputato per i fatti di usura e tentata estorsione di cui ai capi 11 e 12; i giudici di merito avrebbero interpretato in modo manifestamente erroneo il contenuto delle conversazioni nr. 3388 del 6.6.2003; 4222 del 23.6.2003; 2496 del 2.6.2003 e nr. 3068 del 3.6.2003; la Corte di merito avrebbe fra l’altro interpretato il significato delle conversazioni prescindendo dalla loro successione temporale, e non avrebbe adeguatamente valutato i passaggi che dimostrerebbero l’assenza di ogni interesse personale dell’imputato nella vicenda, così come le dichiarazioni del B. nella parte in cui escluderebbero il coinvolgimento diretto dello stesso imputato nella pattuizione usuraria. In ordine alla tentata estorsione di cui al capo 12; anche in questo caso, dalle dichiarazioni del B. non emergerebbe un coinvolgimento diretto del M.B., accomunato genericamente al suo gruppo familiare, e la Corte di merito avrebbe inoltre erroneamente ravvisato gli estremi della minaccia estorsiva in farsi dal contenuto oggettivamente innocuo. Nè sarebbero rilevanti i due specifici episodi in cui l’imputato risulta coinvolto, cioè la sua iniziativa di accompagnare presso l’abitazione della persona offesa il fratello F., intenzionato a richiedere la restituzione del prestito, nè il controllo di polizia subito dal ricorrente in occasione del rinvenimento di una croce di legno presso l’abitazione del B.. Gli altri motivi concernono la dedotta insufficienza della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, che i giudici di appello avrebbero laconicamente giustificato con esclusivo riferimento ai precedenti penali dell’imputato, e l’inutilizzabilità delle intercettazioni.

6. Nell’interesse di P. viene eccepito il vizio di violazione del divieto di reformatio in peius conseguente al mantenimento della pena stabilita dal giudice di primo grado nonostante l’ampliamento della pronuncia di prescrizione; il difetto di motivazione sulle specifiche doglianze avanzate con l’atto di appello; l’insufficiente motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, per l’esclusiva considerazione dei precedenti penali dell’imputato;

l’inutilizzabilità delle intercettazioni.

7. Nel ricorso proposto a favore di D.G.M., si deduce anzitutto, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla quantificazione della pena. La difesa sottolinea l’erroneità della decisione della Corte di merito nella parte in cui ha dichiarato la prescrizione del reato di riciclaggio contestato al D.G. per i fatti commessi fino al 18.10.2002, considerato che l’accusa fa riferimento ad un solo fatto, commesso nel mese di Maggio del 2003. La confusione in cui sarebbero incorsi i giudici di appello lascerebbe trasparire una certa "leggerezza" nelle valutazioni riguardanti il ricorrente, ma per quanto erronea la dichiarazione di parziale prescrizione avrebbe dovuto riverberare i suoi effetti nella determinazione della pena, rimasta invece invariata.

Con il secondo motivo, la difesa censura la motivazione della sentenza impugnata sotto gli stessi profili di legittimità e sotto il profilo del travisamento della prova, anche in punto di responsabilità. Dalle intercettazioni analizzate dalla Corte territoriale non potrebbe in alcun modo desumersi la consapevolezza, da parte del D.G., della provenienza degli assegni a firma di traenza del B. dal reato di usura in ipotesi commesso da M.F.. L’imputato, dal "cambio" degli assegni, rimasti poi insoluti, avrebbe ricevuto soltanto un danno, rimanendo in sostanza raggirato dal M. e dal B..

Motivi della decisione

1. Va premesso, in via generale, che le censure difensive non possono considerarsi manifestamente infondate, cogliendo peraltro, come si vedrà, in ordine alle questioni sul trattamento sanzionatorio (in particolare con riferimento alla mancata riduzione delle pene in conseguenza dell’ampliamento del quadro delle prescrizioni), aspetti di effettiva illogicità o illegittimità della sentenza impugnata.

Ne consegue che va senz’altro dichiarata la prescrizione dei reati rispettivamente ascritti a D.F.G., D.F.M., M.B., M.F., M.A., P. M., ai capi 2, 5, 6, 7, 9, 10, 11 e 13, essendo il relativo termine maturato nelle more del giudizio di legittimità. Va soltanto puntualizzato, quanto al reato di esercizio abusivo del credito di cui al capo 10, che la relativa data finale di consumazione deve ritenersi coincidente con le attività usurarie oggetto delle intercettazioni telefoniche e ambientali alle quali fa riferimento il capo di imputazione per l’individuazione del tempus commissi delicti, attività "sottostanti" a quelle di "finanziamento professionale" e che non risultano mai protrattesi (e "intercettate") oltre il mese di Luglio del 2003. Pacifica è poi la maturazione del termine prescrizionale per i reati di usura di cui ai capi 2, 5, 6, 7, 9, 11 e 13 (contestati in forma non aggravata, al contrario del delitto di usura di cui al capo 4), essendo il calcolo relativo ancorato al limite massimo edittale di sei anni di reclusione introdotto dalla L. 7 marzo 1996 e inasprito solo dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, successiva ai fatti. Va, ancora, osservato, quanto ai fatti di usura di cui ai capi 11 e 13, che le valutazioni in punto di responsabilità della Corte territoriale andranno comunque sottoposte al necessario vaglio critico "globale" per il loro collegamento con i fatti di estorsione tentata di cui ai capi 12 e 14, non coperti dalla prescrizione.

2. La dichiarazione di prescrizione dei reati di usura comporta che nei confronti di M.B., F. e A., e nei confronti di P.M., debba essere revocata la confisca disposta dai giudici di merito D.L. n. 356 del 1992, ex art. 12 sexies. Ed invero, nell’ipotesi in cui il giudice dichiari estinto il reato per intervenuta prescrizione, la confisca può essere ordinata solo quando la sua applicazione non presupponga la condanna e possa avere luogo anche in seguito ad una declaratoria di proscioglimento.

(cfr Corte di Cassazione nr 12325 del 04/03/2010 sez. 2 Dragone e altri, proprio in una fattispecie relativa al reato di usura, avendo la Corte escluso l’applicabilità della confisca L. n. 356 del 1992, ex art. 12-sexies, in considerazione del tenore letterale della disposizione, che postula una sentenza di condanna o di "patteggiamento" e non il mero proscioglimento per estinzione del reato). La pronuncia citata in parentesi si adegua peraltro al fondamentale arresto in materia della giurisprudenza di legittimità espresso dalle sezioni unite di questa corte con la sentenza nr 38834 del 10/07/2008 in proc. De Maio.

I punti fondamentali della motivazione della suddetta sentenza sono i seguenti:

a) l’avverbio "sempre", all’inizio dell’art. 240 c.p., comma 2 ha inteso rendere obbligatoria, diversamente da quanto previsto dal comma 1, stesso art., una confisca che altrimenti sarebbe stata facoltativa;

b) solo nei casi indicati nell’art. 240 c.p., comma 2, n. 2 l’obbligatorietà è destinata ad operare "anche se non è stata pronunciata condanna";

c) non può trarsi contrario argomento dall’art. 236 c.p., comma 2, che rende inoperanti rispetto alla confisca le disposizioni dell’art. 210 c.p., che prevedono, tra l’altro, che "l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione", poichè tale previsione normativa "si limita ad indicare le disposizioni sulle misure di sicurezza personali che sono applicabili alle misure di sicurezza patrimoniali (contribuendo a delinearne la disciplina complessiva), ma non è diretto a stabilire i casi in cui queste misure possono essere disposte", dovendosi fare capo alle diverse disposizioni speciali, come quella dell’art. 240 c.p., per stabilire di volta in volta se la misura presuppone la condanna o può essere disposta anche in seguito al proscioglimento;

d) non si può d’altra parte affermare che questa interpretazione renderebbe inutile l’art. 236 c.p., comma 2, nella parte in cui ha reso inapplicabile alla confisca l’art. 210 c.p., sia perchè in mancanza della disposizione dell’art. 236 c.p., comma 2, si sarebbe potuto ravvisare nell’estinzione del reato (analogamente a quanto avviene per altre misure di sicurezza) un ostacolo alla confisca pure nei casi in cui ne è espressamente prevista l’applicazione in seguito al proscioglimento, sia perchè avrebbero inciso sulla confisca anche l’amnistia impropria e le cause di estinzione della pena, che invece cosi sono state rese inoperanti";

e) per disporre la confisca nel caso di estinzione del reato il giudice dovrebbe svolgere degli accertamenti che lo porterebbero a superare i limiti della cognizione connaturata alla particolare situazione processuale, e "sotto questo aspetto è evidente la differenza tra i casi dell’art. 240 c.p., comma 2, n. 2, e gli altri, perchè l’arr. 240 c.p., comma 2, n. 2, è focalizzato soprattutto sulle caratteristiche delle cose da confiscare, le quali in genere non richiedono accertamenti anomali rispetto all’obbligo dell’immediata declaratoria di estinzione del reato". f) l’avverbio "sempre" contenuto nel testo della norma in esame, è adoperato secondo una normale e diffusa tecnica legislativa, per indicare una preclusione alla valutazione discrezionale del giudice nel potere di disporre la confisca, non certo per porre un’eccezione alle condizioni previste per l’esercizio dello stesso potere nelle singole fattispecie, tanto che; anzi, spesso l’avverbio si accompagna e si collega, nella stessa proposizione, proprio al presupposto dell’esistenza di una sentenza di condanna (si vedano ad es. art. 270 bis c.p., comma 4, art. 322 ter c.p., comma 1, artt. 417, 538 e 544 sexies c.p., art. 600 septies c.p., comma 1, nonchè L. 14 dicembre 2000, n. 376, art. 9, comma 6, in materia di tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, comma 1, in materia di criminalità mafiosa, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 9 ter, comma 3, C.d.S.), in taluni casi è addirittura utilizzato come rafforzativo della obbligatorietà, sempre sul presupposto di una sentenza di condanna (art. 416 bis c.p., comma 7); negli stessi termini, come sinonimo dell’avverbio "sempre" è talvolta utilizzata la locuzione "in ogni caso" ( L. 11 febbraio 1992, n. 157, art. 28, comma 2, in materia di caccia). g) Deve, pertanto, ritenersi corretta l’interpretazione secondo la quale la formula normativa "è sempre ordinata" di cui all’art. 240 c.p., comma 2 si contrappone bensì a quella "può ordinare" di cui al comma 1, ma fermo rimanendo il presupposto "nel caso di condanna" fissato dallo stesso comma 1 ed esplicitamente derogato solo con riferimento alle cose di cui al n. 2, comma 2, essendo in altri termini, l’avverbio "sempre" finalizzato solo a contrapporre la confisca obbligatoria alla confisca facoltativa, ma non la confisca in presenza o in assenza di condanna, h) non può assolutamente condividersi la tesi secondo la quale l’inciso "anche se non è stata pronunciata condanna", contenuto nell’art. 240 c.p., comma 2, n. 2, debba essere riferito anche alla previsione di cui al n. 1, poichè in tal modo verrebbe a forzarsi il normale collegamento logico tra le singole proposizioni del testo della norma, per di più inserite in numeri ben distinti, essendo evidente che una normale, e non particolarmente specialistica, tecnica legislativa, se avesse voluto riferire l’inciso suddetto ad entrambi i numeri del comma l’avrebbe inserito all’inizio del capoverso, dopo l’altro "è sempre ordinata la confisca". i) la disposizione dell’art. 236 c.p., comma 2, che rende inapplicabili con riferimento specifico alla confisca le disposizioni dell’art. 210 c.p., che prevedono, tra l’altro, che "l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione", formula un principio di carattere generale, che lascia, poi, libero il legislatore di stabilire i casi in cui tale effetto impeditivo si produce anche con riferimento alla confisca, tanto è vero che è lo stesso art. 240 c.p., comma 1, oltre ad una serie di leggi speciali (si vedano quelle sopra citate), a prevedere, appunto, in quali casi è necessaria una condanna per ordinare la confisca, come deve ritenersi con specifico riferimento al caso di specie, dal momento che l’art. 12 sexies. Il citato articolo stabilisce infatti che è "sempre" e, quindi, obbligatoriamente, ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, ovvero, "quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo", sul presupposto espresso che vi sia stata condanna o applicazione di pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p..

2.1 Ma le sezioni unite notano altresì gli ampi poteri di accertamento del fatto riconosciuti al giudice nel caso in cui ciò sia necessario ai fini di un pronuncia sull’azione civile, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., puntualizzazione invero più che significativa considerando che in questo caso è data impugnazione alla parte civile contro tutte le sentenze di proscioglimento, indipendentemente dalla natura dell’accertamento giudiziale, e quindi sia nel caso di pronunce di merito che nel caso di pronunce che accertino cause di estinzione del reato, con la conseguenza che il giudice può pervenire all’affermazione della responsabilità risarcitoria dell’imputato per un fatto previsto dalla legge come reato, anche se il reato sia stato dichiarato estinto per prescrizione (Sez. Un., 29 marzo 2007, n. 27614, Lista, rv. 236537; Sez. Un., 11 luglio 2006 n. 25083, Negri, rv. 233918; Sez. 2A, 24 ottobre 2003 – 16 gennaio 2004, n. 897, Cantamessa). E si può al riguardo richiamare anche l’art. 578 c.p.p., che consente al giudice dell’impugnazione di decidere sull’azione civile quando il reato si estingua successivamente ad una prima sentenza di condanna, per rilevare, ancora una volta, che la legge si preoccupa invariabilmente di definire i casi, i limiti e le condizioni del potere del giudice di provvedere sul regolamento di specifici interessi coinvolti nel processo penale quando manchi l’accertamento "diretto" della responsabilità penale dell’imputato;

mentre nella previsione del D.L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies, la non esplicitata sopravvivenza della confisca all’estinzione del reato (in quanto ovviamente preclusiva della condanna, rimanendo altrimenti applicabile la clausola di esclusione dell’art. 236 c.p.p., comma 2), sarebbe interamente affidata ad un’incerta interpretazione pretoria.

Ciò, tanto più considerando quanto sia variegato e difficilmente riconducibile a sistema il regime normativo della confisca nelle numerose disposizioni di legge che introducono tale misura relativamente a singole ipotesi di reato.

2.2. E’ vero poi che nella giurisprudenza di questa corte è stata ritenuta l’applicabilità ai casi di estinzione del reato durante il giudizio, di specifiche ipotesi di confisca obbligatoria previste da leggi speciali, astrattamente riconducibili, in mancanza di deroga espressa, alla fattispecie generale della confisca facoltativa regolata dall’art. 240 c.p., comma 1 ma l’estensione appare giustificata dalla particolare tecnica di redazione delle norme di riferimento, che non contengono alcuna letterale indicazione limitativa dell’ambito di operatività della confisca in dipendenza di una determinata tipologia della sentenza che conclude l’accertamento giudiziale sulla responsabilità penale (vedi in tema di lottizzazione abusiva, il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 2, che stabilisce che il giudice penale dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, con la "sentenza definitiva" che "accerta che vi è stata lottizzazione abusiva", disposizione interpretata – e interpretabile – nel senso che essa prevede l’obbligatorietà della confisca indipendentemente da una pronuncia di condanna, in conseguenza all’accertamento giudiziale della sussistenza del reato di lottizzazione abusiva, salvo il caso di assoluzione per insussistenza del fatto; da ultimo: Sez. 3A, 21 novembre 2007 – 5 marzo 2008, n. 9982, Quattrone, rv. 238984; Sez. 3A, 7 luglio 2004, n. 37086, Perniciaro, rv. 230031; ancora, si può citare il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 301, sostituito dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 11, che, comma 1, dispone "nei casi di contrabbando è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto ovvero il prodotto o il profitto". 2.3. Il riferimento alle sentenza di condanna e a quelle di patteggiamento contenuto nel D.L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies, apparirebbe quindi ancora più incomprensibile, e frutto di una troppo approssimativa tecnica di redazione legislativa, se inteso in senso non "limitativo" (cioè non limitato alle specifiche tipologie delle pronunce richiamate), nel confronto con le disposizioni che attribuiscono o comunque consentono di attribuire al giudice poteri residuali di accertamento virtuale della responsabilità penale a determinati effetti anche nel caso di proscioglimento dell’imputato.

In conclusione, l’art. 236 c.p., comma 2 non si pone affatto in rapporto di apparente contrasto o di ardua conciliabilità con l’art. 240 c.p., comma 2, di modo che l’interprete sia autorizzato a privilegiare i contenuti normativi di una delle due disposizioni per interpretare l’altra, essendo piuttosto ravvisabile tra le due norme un rapporto di complementarietà tanto nel loro complessivo coordinamento logico che nella parte in cui, come notano le sezioni unite, l’art. 236 c.p., comma 2 consente di ritenere l’"ultrattività" della confisca disposta dal giudice con la sentenza di condanna in casi che altrimenti rimarrebbero attratti nell’orbita della disposizione generale dell’art. 210 c.p come nei casi di amnistia impropria o di estinzione della pena, ai quali si possono aggiungere le ipotesi in cui il reato si estingua successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna (cfr. ad es, l’art. 167 c.p., comma 1 e l’art. 445 c.p.p., comma 2).

2.4. La prescrizione del perdurare degli effetti della sentenza di condanna irrevocabile ai fini del mantenimento della confisca, sembra corrispondere peraltro non solo e non tanto ad una pregiudiziale valutazione normativa dell’opportunità di mantenere l’effetto dissuasivo della confisca al contrario che per tutte le altre misure di sicurezza patrimoniali e per la quasi generalità delle misure di sicurezza personali (la cui perdurante efficacia deterrente in molti casi sarebbe ben maggiore), ma alla normale definitività di qualunque provvedimento ablatorio disposto con pronuncia giudiziale irrevocabile, non fosse che per l’ovvia necessità di tutela dei nuovi assetti proprietari e delle nuove situazioni giuridiche conseguenti alla pronuncia. Ne consegue che l’accentuazione degli aspetti social preventivi alla confisca specificamente ricollegabili, come criterio interpretativo a favore della tesi dell’indiscriminata applicabilità dell’istituto anche nei casi di estinzione del reato, non appare nemmeno del tutto coerente con le ragioni del suo diverso trattamento normativo.

2.5 Nè la confisca potrebbe essere mantenuta nel caso di specie in relazione alla conferma della pronuncia di condanna per i fatti estorsivi di cui ai capi 12 e 14, ostandovi, in questo caso, il titolo dei reati, in quanto contestati nella forma del tentativo, mentre l’art. 12 sexies è espressamente applicabile solo al reato di estorsione consumata (cfr. Corte di Cassazione nr 36001 del 23/09/2010 Fasano, secondo cui non può essere disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ai sensi del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12-sexies, convertito nella L. 7 agosto 1992, n. 356 in relazione al delitto di tentata estorsione, stante l’espressa previsione della sequestrabilità esclusivamente per il reato consumato e l’autonomia, rispetto ad esso, del tentativo, che non consente estensioni "in malam partem").

3. Le questioni sull’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, proposte dalle difese sotto vari profili nell’interesse di quasi tutti gli imputati, con la sola eccezione di D.G. M., sono state già convenientemente affrontate e risolte dai giudici di merito. In particolare, la corte di appello osserva al riguardo che dalle risultanze processuali emerge documentalmente il deposito delle bobine contenenti la registrazione delle intercettazioni telefoniche, e correttamente rileva che ai fini della tutela del diritto di difesa è sufficiente che, pur mancando la disponibilità immediata di parte del materiale probatorio, sia comunque consentito alle parti private interessate di chiederne l’acquisizione. Altrettanto corretta è la precisazione che i supporti audiovisivi, per potersi considerare inseriti nel fascicolo del pubblico ministero, non devono di necessita esservi inclusi fisicamente, purchè vi figurino comunque gli atti che ne indicano l’esistenza e, anche sinteticamente, il contenuto (sulla questione, vedi già Corte di Cassazione 01079 16/01/1995 – 01/02/1995 SEZ. 1 Catti ed altri, dove anche il rilievo della natura non "fascicolatole" dei supporti audiovisivi; più di recente, Corte di Cassazione nr 03649 14/01/2010 SEZ. 1 Quaceci, esplicita nell’affermare che la mancata trasmissione al giudice per le indagini preliminari, con la richiesta di rinvio a giudizio, delle registrazioni di conversazioni intercettate, non determina alcuna nullità, nè l’inutilizzabilità del relativo contenuto, se nel fascicolo vi è comunque traccia di tutte le indagini espletate e, più specificamente, dell’attività di intercettazione, attraverso la trascrizione del contenuto delle relative comunicazioni, essendo ciò sufficiente a porre la parte interessata nella condizione di difendersi, anche contestando la fedeltà delle trascrizioni e richiedendo, se del caso, l’ascolto diretto dei nastri; per gli opportuni riferimenti normativi, vedi, ancora, Corte di Cassazione nr 14783 del 13/03/2009 SEZ. 5, Badescu dove la precisazione che nessuna sanzione di inutilizzabilità, è prevista dall’art. 270 cod. proc. pen., nè è desumibile dall’art. 271 cod. proc. pen. in relazione all’omesso deposito in un dato procedimento, degli atti relativi alle intercettazioni disposte in un procedimento diverso, ivi compresi i nastri di registrazione, atteso il carattere tassativo delle disposizioni citate; per le stesse considerazioni cass nr. 48161 del 18/11/2009 SEZ. 3 esclude che il mancato avviso al difensore del deposito nella segreteria del P.M. dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni sia causa di nullità o inutilizzabilità delle stesse e altrettanto può agevolmente rilevarsi a proposito del luogo di deposito, poichè nemmeno la disposizione dell’art. 268 c.p.p., comma 4, che prescrive di massima la custodia del materiale intercettativo presso la segreteria del PM, è presidiata dalla sanzione di inutilizzabilità nel caso della sua inosservanza.

3.1. La questione di legittimità costituzionale del regime normativo in discussione, è stata soltanto "adombrata" dalla difesa con il generico ed esclusivo riferimento alla presunta doverosità dello scrutinino di costituzionalità subordinatamente alla conferma dell’esclusione dell’inutilizzabilità in rapporto agli "inadempimenti" denunciati, e sotto questo profilo le censure sono senz’altro inammissibili (vedi, per la tecnica di proposizione degli incidenti di costituzionalità, la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, comma 1). In ogni caso, il giudice delle leggi è già intervenuto in materia, con la sentenza n. 336 del 2008, che ha dichiarato bensì l’illegittimità costituzionale, dell’art. 268 cod. proc. pen., in riferimento all’art. 3 Cost., art. 24 Cost., comma 2, art. 111 Cost., nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate ampliando così i diritti della difesa, ma senza incidere sul regime delle sanzioni processuali in materia di inutilizzabilità delle intercettazioni di cui all’art. 271 cod. proc. pen. (vedi Corte di Cassazione nr 14783 del 13/03/2009 SEZ. 5 Badescu, cit.).

3.2. Ma è poi vero che in sostanza nessuna concreta violazione del diritto di difesa viene segnalata nei ricorsi, che finiscono per essere esclusivamente incentrati sul rilievo formale dell’inosservanza delle norme in materia di intercettazioni senza alcuna reale indicazione circa eventuali ostacoli o impedimenti opposti all’accesso dei difensori agli atti relativi alle attività captative; dovunque gli atti fossero custoditi, infatti, i difensori avrebbero potuto comunque prenderne visione e gli imputati avrebbero potuto apprestare le proprie difese anche sul contenuto delle conversazioni intercettate.

3.3. Del pari infondate sono le questioni difensive sulla presunta nullità o inutilizzabilità della perizia di trascrizione delle intercettazioni disposta nel corso del dibattimento di primo grado.

In tesi, la perizia non sarebbe compresa tra gli atti per la rinnovazione dei quali i difensori avevano senz’altro prestato il consenso a seguito del mutamento della composizione del collegio giudicante, poichè l’elaborato peritale non era stato ancora depositato nel momento in cui erano stati formalizzati gli accordi processuali. Correttamente la Corte di merito rileva, al riguardo, che l’incarico peritale era stato comunque già affidato dal precedente collegio, con la conseguenza che le parti potevano rappresentarsi, in occasione dell’accordo sulla rinnovazione, lo svolgimento in fieri delle operazioni di trascrizione e avrebbero dovuto interloquire sul punto non per esprimere il proprio consenso ma piuttosto per opporsi all’esecuzione dell’incarico.

3.4. Ma soprattutto le deduzioni difensive trascurano di considerare la specificità della perizia di trascrizione nel sistema delle prove. Ed invero, le perizie di trascrizione anche quando sono eseguite davanti al gip sono inserite de piano nel fascicolo per il dibattimento e formano per ciò stesso parte del materiale probatorio sul quale deve essere fondata la decisione del giudice. L’art. 270 c.p.p., poi, prevede addirittura l’inserimento, nel fascicolo del dibattimento, a determinate condizioni, di perizie di trascrizioni eseguite in altri procedimenti, cioè anche senza la partecipazione delle parti del procedimento ad quem. La giurisprudenza di legittimità (Cass. 24/01/2002 RIC Kalil R e altri) ha ulteriormente sottolineato il diverso regime di utilizzàbilità delle trascrizioni rispetto alle altre perizie, la cui acquisizione in dibattimento è subordinata al previo esame del perito, affermando il principio che in tema di intercettazione delle conversazioni telefoniche, non sussiste inutilizzabilità della trascrizione a seguito del mancato preventivo esame nel dibattimento della persona che vi ha provveduto su incarico del giudice, dovendosi ritenere che il richiamo contenuto nell’art. 268 c.p.p., comma 7 a "forme, modi e garanzie" previste per la perizia operi limitatamente alla tutela del contraddittorio e dell’intervento della difesa rispetto all’attività trascrittiva.

Tali principi sono perfettamente coerenti con la considerazione che la trascrizione delle registrazioni, non soltanto non costituisce mezzo di prova, ma non può neppure identificarsi come una tipica attività di documentazione, fornita di una propria autonomia conoscitiva, rappresentando esclusivamente un’operazione di secondo grado diretta a trasporre con segni grafici il contenuto delle registrazioni. Ne consegue l’insussistenza ontologica, in relazione alle trascrizioni, di un problema di utilizzazione, potendosi semmai denunciare la mancata corrispondenza fra il contenuto delle registrazioni e quello risultante dalle trascrizioni effettuate (cfr.

Corte di Cassazione nr 09820 del 13/07/1995 SEZ. 1, imputati Pappalardo ed altri, in relazione ad un caso in cui era stata sollevata eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonchè dei brogliacci di trascrizione delle stesse intercettazioni, per essere avvenuto il loro deposito dopo il rinvio a giudizio).

4. Si può fin d’ora anticipare che la ribadita utilizzabilità delle intercettazioni finisce per l’indebolire significativamente le censure difensive nella parte in cui ritengono in larga misura di poter prescindere dalla completa analisi di merito del contenuto delle conversazioni intercettate (in alcuni ricorsi, al rilievo dell’inutilizzabilità delle attività captative si accompagna al più il commento di alcuni brani di conversazioni selezionate – e interpretate – secondo una spiccata ottica di parte). Risolte in via generale le questioni riguardanti le intercettazioni, si può quindi procedere all’esame dei motivi di ricorso specificamente articolati nell’interesse dei singoli imputati.

5. Il ricorso proposto nell’interesse di D.F.G. e D. F.M. è inammissibile riguardo al capo della sentenza impugnata concernente il reato di usura in danno di D.R. P.. La difesa non tiene conto, infatti, dei limiti di devoluzione al giudice di legittimità, di questioni attinenti a pronunce dichiarative della prescrizione del reato, indugiando su presunte carenze od omissioni argomentative del giudici di appello, ma senza denunciare la presenza in atti, nei necessari termini di evidenza, della prova dell’innocenza degli imputati. Orbene, censure attinenti al difetto di motivazione della sentenza del giudice di merito, sotto il profilo della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità quanto al ritenuto raggiungimento della prova di responsabilità, mai potrebbero essere dedotte nel giudizio di legittimità per far valere la violazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2, (cfr. Cassazione penale, sez. 6, 26 marzo 2007, n. 22205). Il rinvio al giudice del merito per il rilevato difetto di motivazione, tendente alla assoluzione ex art. 530 c.p.p., comma 2, sarebbe infatti incompatibile con l’obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione oltre che incompatibile con il principio in base al quale, in presenza di causa estintiva del reato, la prova incompleta in ordine alla responsabilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova e prevale la formula di proscioglimento per la causa di estinzione (Sez. 6A, 25 marzo 2004).

Al riguardo, si è ulteriormente precisato che la regola di giudizio di cui all’art. 530 c.p.p., comma 2, – cioè il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità – è dettata esclusivamente, per il normale esito del processo sfociante in una sentenza emessa dal giudice al compimento dell’attività dibattimentale con piena valutazione di tutto il complesso probatorio acquisitosi in atti. Tale regola non può trovare applicazione in presenza di causa estintiva di reato; in una situazione del genere vale la regola di cui all’art. 129 c.p.p. in base alla quale in presenza di causa estintiva del reato, l’inizio di prova ovvero la prova incompleta in ordine alla responsabilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova, ma, per pervenire a un proscioglimento nel merito, soccorre la diversa regola di giudizio, per la quale deve "positivamente" (".. risulta evidente.." art. 129 c.p.p., comma 2) emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato per quanto contestatogli (Sez. 1A, 30 giugno 1993, dep. 28 settembre 1993, n. 8859, rv. 197012; Sez. 5A, 2 dicembre 1997, dep. 6 febbraio 1998, n. 1460, rv. 209802).

5.1 In ogni caso, la sentenza impugnata coglie, sia pure incidentalmente, gli aspetti essenziali del tema della responsabilità penale degli imputati, con riferimento non solo alle dichiarazioni della persona offesa, ma anche alla utilizzazione dell’attività di copertura dell’autosalone Autofiore, intorno alla quale ruotavano anche le altre vicende usurarie oggetto del procedimento.

5.2. Per quanto riguarda il reato di usura di cui al capo 4, le deduzioni difensive sull’identificazione del tempus commissi delicti riguardo ai singoli fatti di usura, identificazione che sarebbe mancata nelle valutazioni dei giudici di merito, condizionando la congruità dell’accertamento della prescrizione, sono viziate in radice in punto di diritto, dalla palese erroneità della tesi diretta a focalizzare la data di consumazione del reato all’epoca dell’illecita pattuizione degli interessi usurari. Il reato di usura appartiene infatti al novero dei reati a condotta frazionata o a consumazione prolungata perchè i pagamenti effettuati dalla persona offesa in esecuzione del patto usurario compongono il fatto lesivo penalmente rilevante, di cui segnano il momento consumativo sostanziale, e non sono qualificabili come "post factum" non punibile della illecita pattuizione (ex plurimis, Corte di Cassazione nr 26553 12/06/2007 SEZ. 2, Garone; Nr. 34910 del 10/07/2008 SEZ. 2 De Carolis e altro dove la precisazione che il delitto di usura perdura nel tempo sino a quando non cessano le dazioni degli interessi). SENT. 29434 19/05/2004 SEZ. 2 Candiano ed altri.

5.3. Circa i motivi concernenti le valutazioni della Corte di merito in punto di responsabilità penale dei due D.F. per lo stesso reato, va premesso che in sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa e1 disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicchè, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione (cfr., anche, Corte di Cassazione 01307 26/09/2002, SEZ. 6 Delvai, dove la precisazione che la motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua se il giudice abbia confutato gli argomenti che costituiscono l’"ossatura" dello schema difensivo dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte). Nella specie, il percorso argomentativo dei giudici di appello è lineare e coerente con la valutazione delle risultanze istruttorie analizzate, mentre le deduzioni difensive indugiano in parte su aspetti secondari di valutazione dell’attendibilità delle persone offese (non soggetta, peraltro, al criterio di verifica di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3), spesso senza la precisa indicazione dei necessari riferimenti processuali e con la tecnica dell’estrapolazione di singoli incisi delle varie testimonianze, in parte sulla diversa ricostruzione dei rapporti finanziari tra gli imputati e le persone offese, come ad es. in ordine alla determinazione della base di calcolo per la stima degli interessi, alla stregua di un apprezzamento di merito alternativo a quello della Corte territoriale ma incapace di cogliere vizi logico-giuridici nella motivazione della sentenza di appello. Dove le censure difensive rivelano tutta la loro debolezza è però nella pressochè totale omissione di qualunque interlocuzione di merito sugli ampi contenuti delle intercettazioni telefoniche che sostengono le motivazioni dei giudici di merito, le attività captative essendo state "impugnate" nei ricorsi a favore dei D.F. quasi esclusivamente in punto di utilizzabilità. Fa eccezione, nel ricorso a firma dell’avv. Oricchio, il commento della conversazione nr. 1045 del 2003, che peraltro non solo esprime un’interlocuzione difensiva isolata e riduttiva riguardo al più ampio materiale intercettativo esaminato dai giudici di merito (vedi le pagg. da 59 a 85 della sentenza di primo grado, richiamate nella sentenza di appello), ma contiene evidenti forzature interpretative rispetto alla questione dell’identificazione del B. come uno degli interlocutori, non potendosi certo ritenere che la "verosimiglianza" del suo coinvolgimento diretto nella conversazione equivalga tout court all’esclusione della circostanza, implicando la contraddittorietà logica sul punto della sentenza impugnata rispetto al giudizio finale di identità. E’ piuttosto evidente, inoltre, che i giudici di appello formulano il contestato giudizio di "verosimiglianza" sulla base dell’inserimento della conversazione in un più ampio contesto logico probatorio (ma nella sentenza di primo grado si ricorda anche che uno degli interlocutori è appellato con il nome di "Luigi", corrispondente al nome di battesimo del B.).

5.4. Dall’analisi della conversazione 1045/2003 (ma anche ad es. della conversazione nr. 1653 del 18.2.2003, sulla quale non si registra alcuna interlocuzione difensiva), del tutto correttamente poi i giudici di merito traggono la deduzione della conferma del tasso usurario degli interessi praticati al B., al di là di qualunque comprensibile incertezza nei ricordi della persona offesa, inevitabilmente condizionati dai margini di errore impliciti nella ricostruzione mnemonica di qualunque fatto storico, tanto più nella rievocazione della "contabilità", spesso confusa e in continua evoluzione, di un rapporto usurario; e altrettanto correttamente rilevano la scomposizione dei rapporti finanziari tra le parti in numerosi prestiti, ciascuno autonomamente considerato come base di calcolo degli interessi (cfr. Cass. Sez. 2, n. 745 del 04/11/2005 Imputato: Rosadini, dove l’affermazione che per l’individuazione della natura usuraria degli interessi, nel caso in cui tra il soggetto agente e la vittima sussista una complessità di rapporti economici, occorre avere riguardo ai singoli episodi di finanziamento e quindi alle specifiche dazioni o promesse, non potendosi procedere al conteggio globale degli interessi dovuti in virtù della pluralità dei prestiti).

5.5 La valutazione del concorso nei fatti di D.F.M. è stata affermata dalla corte territoriale sulla base della rilevazione di specifiche condotte di contributo all’attività delittuosa del fratello, consistite nel sistematico prelevamento presso gli istituti di credito interessati, delle somme restituite dal B. in esecuzione degli accordi usurari a mezzo di assegni di conto corrente (cfr. Corte di Cassazione nr 03776 del 16/12/2008 De Luca, secondo cui risponde del delitto di concorso in usura il soggetto che, per conto altrui, procede alla riscossione dei pagamenti fatti dalla persona offesa nell’ambito di un rapporto usurario) e nella partecipazione ai contratti simulati diretti ad occultare i prestiti usurari. Le notazioni difensive sul punto sono poi largamente contaminate da inammissibili profili di merito e appaiono carenti anche sotto il profilo dei necessari riferimenti processuali.

5.6. Erronea in diritto è l’affermazione difensiva circa l’impossibilità di configurare l’aggravante dello stato di bisogno nei riguardi di prestiti usurari erogati per necessità imprenditoriali della persona offesa, tale esclusione non essendo rilevabile dalla disposizione dell’art. 644 c.p. (cfr. Cass. Sez. 2, n. 43713 del 11/11/2010 Galante, dove la precisazione lo stato di bisogno va inteso non come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito a condizioni usurarie, non assumendo alcuna rilevanza nè la causa di esso, nè l’utilizzazione del prestito usurario).

Sotto altro profilo, lo stato di bisogno della persona offesa del delitto di usura può essere provato anche in base alla sola misura degli interessi, qualora siano di entità tale da far ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto in stato di bisogno possa contrarre il prestito a condizioni talmente inique e onerose, l’esosità degli interessi implicando anche la prova della consapevolezza dello stato di bisogno da parte dell’agente(cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 44899 del 30/10/2008 Meluzio), senza dire che dalle intercettazioni analizzate dalla corte di merito si desumono le continue difficoltà "bancarie" della persona offesa.

5.7 Le aggravanti speciali dell’art. 644 c.p., nn. 3 e 4 escludono qualunque residua ipotesi di prescrizione quanto meno per i reati successivi all’Ottobre del 2002; la dichiarazione di prescrizione per i fatti precedenti non appare peraltro molto meditata dai giudici di appello, che però non esplicitano i criteri di calcolo seguiti per la determinazione del termine prescrizionale, senza quindi precludere diverse e autonome valutazioni rispetto ai fatti successivi; si è visto, in ogni caso, che le censure difensive sul tempus commissi delicti sono del tutto infondate, ed inidonee a sollecitare un approfondimento della questione.

5.8. Infondate sono anche le censure difensive attinenti alla congruità logica giuridica della conferma della confisca disposta nei confronti dei due D.F. D.L. n. 356 del 1992, ex art. 12 sexies. Sotto un primo profilo, va rilevata l’evidente debolezza delle tesi difensive dirette a dimostrare il rapporto di proporzionalità tra i redditi degli imputati e la loro situazione patrimoniale. La Corte di merito ha più che correttamente svalutato, al riguardo, le indicazioni difensive di imponenti redditi "in nero" percepiti dagli imputati grazie alla loro attività commerciale, ma che dovrebbero essere desumibili nella specie esclusivamente da scritture private carenti dei minimi requisiti di autenticità e di certezza anche relativamente all’epoca della loro formazione; e le argomentazioni dei giudici di appello tanto più appaiono condivisibili, considerata la ben più articolata documentazione che accompagna normalmente il commercio di autoveicoli.

5.9. Per il resto, si deve rilevare che secondo l’indirizzo di legittimità ormai consolidato a partire da Cass. sez. u sent. 00920 del 19/01/2004, cc. 17/12/2003, Montella, la confisca conseguente a condanna per uno dei reati indicati nel D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12-sexies, commi 1 e 2, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 1992, n. 356 (modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità maliosa) va senz’altro disposta allorchè sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attività economica e il valore dei beni da confiscare, e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi. A tal fine, è necessario, da un lato, che nella valutazione della "sproporzione", i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, siano fissati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti, e, dall’altro, che la "giustificazione" credibile consista nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna. A quest’ultimo riguardo la Suprema Corte ha più ampiamente osservato che il legislatore, nell’individuare i reati dalla cui condanna discende la confiscabilità dei beni, non ha presupposto il collegamento tra tali beni e l’episodio criminoso singolo oggetto dell’accertamento giudiziale, ma ha correlato la confisca proprio alla sola condanna del soggetto che di quei beni dispone, senza che necessiti l’ulteriore accertamento della derivazione dei beni confiscabili dal reato per cui è stata pronunziata condanna e nemmeno tra questi stessi beni e l’attività criminosa del condannato. Cosa che, sotto un profilo positivo, significa che, una volta intervenuta la condanna, la confisca va sempre ordinata quando sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose.

5.10 E’ evidente, peraltro, che in questo sistema normativo la condanna per uno dei reati indicati nel D.L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies, costituisca in sostanza l’"occasione" per l’indagine sulla situazione patrimoniale dell’imputato, che in quanto svincolata dal collegamento con lo specifico fatto di reato, non solo non soffre limitazioni corrispondenti all’ambito temporale della contestazione, ma non può essere parcellizzata o ridimensionata nei suoi effetti, nel caso di contestazione di più reati riconducibili alla stessa disposizione, dal mancato esito di condanna per taluni soltanto di essi.

5.11 Vanno invece accolti i motivi sul trattamento sanzionatorio relativi alla mancata riduzione delle pene in dipendenza dell’ampliamento della pronuncia di prescrizione. Per i fatti di reato di cui ai capi 1), 2), 5), 6), 7), 9), 10), trattandosi di reati satellite, possono senz’altro essere eliminati i relativi aumenti di pena. Non è invece possibile procedere allo stesso modo in ordine al reato di cui al capo 4, assunto a base di calcolo della pena, dichiarato prescritto soltanto per i fatti anteriori al 18.11.2002, dovendo il nuovo calcolo essere effettuato in sede di rinvio.

6. Per quel che riguarda le posizioni di M.F., B. e A., e di P.M., il ricorso a firma dell’avv. Oricchio nella parte relativa al tema della responsabilità penale per i reati di usura e tentata estorsione di cui ai capi 11, 12, 13 e 14, non va molto al di là di qualche rapsodica notazione su presunte incongruenze nelle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, peraltro evidenziate sulla base di singoli incisi di uno soltanto degli interrogatori del B.. La difficoltà della puntuale ricostruzione della "contabilità" dei rapporti usurari da parte della persona offesa, è poi del tutto comprensibile, per le ragioni già viste a proposito dell’analoga questione riguardante i rapporti del B. con i D.F.. Nel ricorso è inoltre sostanzialmente assente qualunque specifica deduzione sui fatti estorsivi e non vi è alcun cenno del contenuto delle conversazioni intercettate e delle dichiarazioni di P.C., adeguatamente valutate dai giudici di merito come elementi di riscontro delle accuse della persona offesa.

6.1. Per quanto più articolato, nemmeno il ricorso a firma dell’avv. Giuseppe della Monica a favore di M.B. contiene spunti critici realmente significativi al fine di insidiare la logicità delle argomentazioni dei giudici di appello sul pieno coinvolgimento anche dello stesso imputato nei fatti contestatigli. La linea difensiva si articola sulla selezione di alcune telefonate e sulla loro corretta lettura "cronologica". In sostanza però, le deduzioni difensive si risolvono in una diversa interpretazione di merito delle risultanze istruttorie, senza intaccare la sostanza logico-giuridica della motivazione della sentenza nella parte in cui sottolinea come dal contenuto complessivo delle telefonate in questione, si evince comunque come la figura di M.B. si collocasse fin dall’inizio come quella di uno dei protagonisti principali delle vicende usurarie in questione, emergendo i suoi rapporti finanziari diretti con il B.. Non è condivisibile poi, sul piano logico, l’importanza attribuita dalla difesa all’espressione "vorrei tutto indietro", che M.B. impiega nella conversazione con il B. del 2.6.2003. A prescindere dal rilievo della intrinseca inconcludenza della citazione di un inciso isolato del dialogo, che potrebbe diversamente essere interpretato già in riferimento al più ampio contesto comunicativo coinvolto, può rilevarsi infatti l’assenza di qualunque esplicita distinzione, nelle espressioni usate dall’imputato, tra sorte capitale e interessi. La difesa vorrebbe implicita la distinzione nel carattere "restitutorio" della richiesta dell’imputato, che potrebbe predicarsi solo con riferimento alle somme anticipate con il prestito, ma questa interpretazione postula una precisione terminologica francamente implausibile in contesti comunicativi non certo caratterizzati da una particolare accuratezza espressiva. E’ decisivo, in ogni caso, che l’eventuale ripiegamento dell’imputato sul "rientro" del capitale, non escluderebbe affatto precedenti pattuizioni usurarie. L’importanza attribuita dalla Corte territoriale a questa come alle altre conversazioni è quindi assolutamente condivisibile. Ancora una volta, poi, nessuna menzione vi è in ricorso delle dichiarazioni di P.C., mentre le dichiarazioni scagionanti di M.F. non appaiono meritevoli di particolare apprezzamento, e giustamente sono state trascurate dai giudici di merito, considerando la qualità della fonte dichiarativa e gli stretti rapporti di parentela del loquens con M.B..

6.2. In definitiva, correttamente i giudici di appello hanno escluso che il M.B. sia intervenuto in un rapporto usurario altrui solo successivamente alla conclusione del patto relativo, con il compito, non utilmente portato a termine, di recuperare le somme oggetto dell’accordo, ritenendolo invece ab origine il protagonista principale della vicenda, e sotto questo profilo sono anzi le deduzioni difensive ad apparire alquanto contraddittorie nella parziale sottolineatura del contenuto della telefonata del 2.6.2003, dal momento che l’inciso riportato fa riferimento a pretese avanzate dall’imputato "in prima persona". 6.3 La riferibilità delle minacce riportate nei capi 12 e 14 a pretese ingiuste, consente di ritenere ad un primo approccio l’astratta configurabilità dei delitti di tentata estorsione oggetto delle specifiche imputazioni. Al riguardo, non si deve indugiare particolarmente sulle posizioni di M.F. e A., perchè nel ricorso a firma dell’avv. Cricchio non si rinvengono significative notazioni a sostegno delle censure di legittimità rivolte alla sentenza impugnata in ordine ai relativi capi di condanna. Ma non meritano accoglimento neanche le più diffuse argomentazioni svolte dall’avv. Della Monica nell’interesse di M.B.. I giudici di merito (vedi la sentenza di appello, pagg. 18 e ss, ma soprattutto la più articolata ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza di primo grado, pagg. 134 e ss.), correttamente ritengono ad es., il coinvolgimento del ricorrente nell’episodio, di chiara connotazione intimidatoria, della collocazione di una croce di legno presso il negozio di fiori del cognato del B. sito in (OMISSIS), sulla base del controllo di polizia effettuato nei minuti immediatamente successivi, nei confronti di M.B. e F., proprio all’altezza dello svincolo autostradale posto in corrispondenza della stessa località, mentre il fatto che si trattasse dello svincolo da impegnare necessariamente per raggiungere anche l’abitazione del B., nulla toglie al rilievo delle coincidenze "topografiche" e temporali segnalate nelle sentenze di merito, tanto più avuto riguardo alla necessità, avvertita dai due imputati, di inventare un pretesto per giustificare la loro presenza sui luoghi (la vendita di un "pony";

vedi pag. 141 della sentenza di primo grado, dove il commento della telefonata nr. 3175 dell’1.6.2003); nè si comprende in base a quali circostanze i verbalizzanti autori del controllo di polizia avrebbero potuto stabilire in quel momento un collegamento tra la presenza dei due imputati in prossimità dello svincolo di (OMISSIS), e l’apposizione di un croce di legno presso l’esercizio commerciale di Bu.An.. Per il resto, i giudici di merito sottolineano opportunamente gli "avvicinamenti" anche di M.B. presso l’abitazione del B. (vedi l’episodio del 9.6.2003, in occasione del quale B. è notato da Bu.Lu. insieme al fratello F. nei pressi dell’abitazione del B.) e non si presta a censure nemmeno la valutazione di evidenti note di "aggressività" nell’atteggiamento dei due fratelli, nell’esprimere l’intenzione di continuare a cercare accanitamente la persona offesa, mentre il riflesso intimidatorio dell’incursione è giustamente sottolineato dai giudici di merito nell’analisi del contenuto della telefonata nr.

3608 del 9.6.2003 tra B.L. e M.F. (vedi la sentenza di primo grado, pag. 137), in cui compare l’esplicito riferimento a " B.", in un contesto comunicativo che accomuna chiaramente il ricorrente agli "zingari" e alla "parata" di persone e autovetture presentatesi davanti all’abitazione della persona offesa.

Tanto basta per evidenziare non solo e non tanto l’inadeguatezza di alcune notazioni difensive sulla sintomaticità dei vari episodi analizzati dai giudici di merito, ma, quel che più conta, la linearità del percorso argomentativo della sentenza di appello, in quanto sostenuta e integrata da quella di primo grado (nel senso che quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo, cfr. cass Sez. l, n. 8868 del 26/06/2000 Sangiorgi), potendosi per il resto senz’altro rinviare al corpo motivazionale delle due sentenze.

6.4 Quanto ai motivi sul trattamento sanzionatorio formulati a favore dei M. e del P., vanno accolti quelli relativi alla mancata riduzione della pena in conseguenza della dichiarazione di prescrizione dei reati di usura rispettivamente ascritti agli stessi imputati ai capi 11 e 13. L’annullamento della sentenza va pronunciato senza rinvio, con l’eliminazione degli aumenti di pena imputabili ai reati prescritti, cioè nella misura di anno uno di reclusione ed Euro 500 di multa ciascuno per i M., e di mesi quattro di reclusione ed Euro 400 di multa per il P..

Manifestamente infondati sono invece gli altri motivi in punto di determinazione della pena proposti nell’interesse di M.B. e di P.M.. Anche per quanto riguarda l’obbligo di motivazione relativo al trattamento sanzionatorio, va ribadito che è sufficiente che il giudice di merito giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative all’accoglimento delle richieste dell’imputato, senza che sia tenuto ad esaminare tutte le circostanza prospettate o prospettabili dalla difesa (Sez. 1A, 11/01-31/03/1994, n. 3772, Spallina, riv. 196880; Sez. 1A, 20/10/1994-26/01/1995, n. 866, Candela, riv. 200204; Sez. 4A, 20 dicembre 2001 – 28 febbraio 2002, n. 8167, Zahraoui, riv. 220885). Nel caso di specie, la sentenza impugnata si è attenuta a tale principio, in quanto ha fatto espresso riferimento alla gravità dei fatti e ai numerosi precedenti penali di entrambi gli imputati e non è in alcun modo censurabile, avendo fornito l’indicazione degli elementi reputati decisivi nella scelta compiuta, con l’implicita confutazione delle deduzioni difensive (sull’esercizio del potere discrezionale del giudice in ordine alla determinazione della pena, cfr. Cass. 27.2.1997, Zampilla;. Cassazione penale, sez. 3^, 05 novembre 2008, n. 46353;

con specifico riferimento alla connotazione negativa della personalità dell’imputato come indice della gravità soggettiva del fatto, suscettibile di acquisire carattere assorbente rispetto alle deduzioni specificamente esposte nei motivi di gravame cfr. Cass. Pen., sez. 1A n. 6200 del 3.3.1992).

6.5. D’altra parte, per quel che riguarda il P., le notazioni difensive o si risolvono nella generica deduzione della mancata risposta ai motivi di appello, per la quale valgono i rilievi più sopra formulati in ordine all’obbligo di motivazione del giudice sovraordinato, o puntano sulla censura della presunta insufficienza della motivazione in ordine alla valutazione dei criteri direttivi fissati dall’art. 133 c.p., soprattutto per la mancata considerazione della asserita, oggetti va marginalità della posizione dell’imputato, che non si comprende però rispetto a quale termine di paragone potrebbe essere affermata; per quel che riguarda il M. B., la difesa non va molto oltre alcune assertive e generiche considerazioni sul presunto carattere non ostativo delle condanne riportate dall’imputato rispetto alla concessione delle attenuanti generiche o sull’entità del danno patito dalla persona offesa. Si può poi osservare, in diritto, quanto alla "qualità" (nemmeno specificata in ricorso), dei precedenti dell’imputato, che le attenuanti innominate sono applicabili non sulla base dell’inesistenza di condizioni "negative", ma della positiva emergenza di circostanze particolannente favorevoli al reo, tali non potendo certo valutarsi le non meglio precisate "modalità dell’azione", nè la presunta inesistenza di concreti danni patrimoniali conseguenti al reato, a quest’ultimo riguardo essendo agevole rilevare che il momento consumativo del reato di usura, nella previsione dell’art. 644 c.p., è anticipato al momento della pattuizione usuraria ("si fa dare o promettere"), talchè sarebbe incongruo definire la (non) gravità del fatto in funzione dei concreti esborsi della persona offesa. Anche la posizione del M. è definita poi dalla difesa oggettivamente marginale, ma alla stregua di un apprezzamento al contrario assolutamente soggettivo.

7. Quanto al ricorso di D.G.M., va anzitutto riconosciuto l’evidente errore in cui è incorsa la Corte territoriale nel dichiarare anche nei suoi confronti la prescrizione dei reati commessi fino all’Ottobre del 2002, a fronte di una contestazione che abbraccia l’arco temporale dal Gennaio al Maggio del 2003; ma, per l’appunto, di mero errore materiale si tratta e la pronuncia sul punto deve considerarsi tamquam non esset, ed ininfluente anche ai fini del trattamento sanzionatorio, facendo riferimento a fatti inesistenti.

7.1. In punto di responsabilità le censure difensive propongono un’alternativa valutazione di merito delle risultanze istruttorie, facendo leva soprattutto su una diversa interpretazione del contenuto delle conversazioni telefoniche riguardanti l’imputato, peraltro secondo una lettura parziale di singoli brani selezionati in funzione dell’interesse di parte. Ben più ampia e completa è comunque l’analisi del contenuto delle intercettazioni da parte dei giudici di merito (vedi, soprattutto, la sentenza di primo grado, pagg. 151 e ss.), del tutto logicamente valorizzate come elemento di conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni del B., nella misura in cui rivelano la consapevolezza, da parte del D.G., della pesante situazione economica della persona offesa (normale scaturigine del ricorso a circuiti creditizi "alternativi"), e la significativa preoccupazione dell’imputato di non far formalmente figurare nella negoziazione dei titoli, il nome del M..

Quest’ultima circostanza, contrariamente a quanto sostiene la difesa, è particolarmente significativa, nè il suo rilievo è smentito dal "riversamento" degli assegni nel conto dell’imputato, in quanto suscettibile di inevitabili "evidenze" in occasione di futuri accertamenti bancari, che a prescindere dalla loro aleatorietà non avrebbero potuto certo rilevare coinvolgimenti soggettivi nella negoziazione degli assegni non risultanti cartolarmente. Quello che è certo, è che l’imputato, rinunciando alla firma di girata del M., indebolì significativamente (e inspiegabilmente, al di fuori della logica dell’accusa) le garanzie di recupero delle somme erogate a costui in caso di insolvenza, e tanto fece deliberatamente, non per superficialità o leggerezza. In questo senso depone inequivocabilmente il contenuto della conversazione oggetto dell’intercettazione n. 3281 del 14.6.2003, ampiamente riportato nella sentenza di primo grado, nel corso della quale più volte il D.G. rivela di avere di avere deciso lui stesso di rinunciare alla girata del primo prenditore dei titoli; "Io non l’ho fatto mettere la firma"….."perchè le firme sue non le volevo". Non si presta quindi a censure, sotto il profilo logico-giuridico, la valorizzazione delle predette risultanze istruttorie ad parte dei giudici di appello, non avendo alcun rilievo l’accidentale danno che l’imputato possa aver subito dal suo intervento nella vicenda rispetto alle iniziali aspettative, e ancor meno il contenuto dell’interrogatorio del M.F. del 15.11.2004, già per la natura della fonte dichiarativa e per la soltanto parziale riproduzione dell’atto. In ogni caso, l’intento truffaldino del M. e del B. non è nemmeno chiaramente rilevabile nelle poche frasi riportate in ricorso, e non esclude comunque che il D. G. avesse cambiato gli assegni nella consapevolezza della loro provenienza dai rapporti usurari tra i due presunti "truffatori", essendo inconsapevole soltanto di essere stato "truffato". Nemmeno la difesa contesta poi che l’occultamento del nominativo del M. tra i soggetti coinvolti nelle negoziazioni cartolari fosse idoneo a realizzare gli estremi del delitto di riciclaggio. Alla luce delle precedenti considerazioni la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di D.F.G., D.F. M., M.B., M.F., M.A., P.M., relativamente ai reati agli stessi rispettivamente ascritti ai capi 2, 5, 6, 7, 9, 10, 11 e 13 della rubrica perchè estinti per prescrizione, con la conseguente eliminazione degli aumenti per continuazione dipendenti dagli stessi reati e dal reato di cui al capo 1, nella misura di anni uno di reclusione ed Euro 7000 di multa per D.F.G., di mesi sette di reclusione ed Euro 1000 di multa per D.F.M., di anni uno di reclusione ed Euro 500 di multa ciascuno per M. B., F. e A., di mesi quattro di reclusione ed Euro 400 di multa per P.M., restando la pena inflitta ai M.F. e A. definitivamente determinata in anni cinque di reclusione ed Euro 2.500 di multa ciascuno, quella inflitta a M.B. in anni tre, mesi quattro di reclusione ed Euro 1666 di multa e la pena inflitta al P. in anni due, mesi sei di reclusione ed Euro 600 di multa; va revocata nei confronti dei M. e del P. la confisca disposta L. n. 356 del 1992, ex art. 12 sexies; la sentenza va altresì annullata nei confronti di D.F.G. e D.F.M. relativamente al reato di cui al capo 4 limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio alla Corte di Appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto;

i ricorsi vanno nel resto rigettati, con la condanna di D.G. M. al pagamento delle spese processuali di questo grado del giudizio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di D.F. G., D.F.M., M.B., M.F., M.A., P.M., relativamente ai reati agli stessi rispettivamente ascritti ai capi 2, 5, 6, 7, 9, 10, 11 e 13 della rubrica perchè estinti per prescrizione; annulla senza rinvio la sentenza in punto di determinazione della pena con riferimento agli aumenti per continuazione dipendenti dagli stessi reati e dal reato di cui al capo 1, aumenti che elimina nella misura di anni uno di reclusione ed Euro 7000 di multa per D.F.G., di mesi sette di reclusione ed Euro 1000 di multa per D.F.M., di anni uno di reclusione ed Euro 500 di multa ciascuno per M. B., F. e A., di mesi quattro di reclusione ed Euro 400 di multa per P.M., restando la pena inflitta ai M.F. e A. definitivamente determinata in anni cinque di reclusione ed Euro 2.500 di multa ciascuno, quella inflitta a M.B. in anni tre, mesi quattro di reclusione ed Euro 1666 di multa e la pena inflitta al P. in anni due, mesi sei di reclusione ed Euro 600 di multa; revoca nei confronti dei M. e del P. la confisca disposta L. n. 356 del 1992, ex art. 12 sexies;

annulla la sentenza nei confronti di D.F.G. e D.F. M. relativamente al reato di cui al capo 4 limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio alla Corte di Appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto;

rigetta nel resto i ricorsi dei predetti D.F.G., D. F.M., M.B., M.F., M.A., P.M.; rigetta il ricorso di D.G.M., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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