Cass. civ. Sez. VI, Sent., 14-02-2012, n. 2135 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

che la Corte d’appello di Genova, con decreto in data 22 gennaio 2010, ha respinto la domanda di equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, proposta da N.R. – sia quale erede di I.G. sia in proprio – nei confronti del Ministero della giustizia per violazione dei termini di ragionevole durata del procedimento relativo al fallimento della Capital Italia s.r.l. svoltosi avanti al Tribunale di Lucca e nell’ambito del quale vi era stata presentazione, da parte della de cuius, della domanda di ammissione al passivo;

che la Corte territoriale ha rilevato che il decesso dell’istante sopravvenne a circa sei anni dalla data in cui la I. aveva presentato richiesta di ammissione al passivo, sicchè – non essendovi ancora stata violazione della durata ragionevole della procedura – nulla spetta al ricorrente nella sua qualità di erede;

che inoltre, quanto alla richiesta avanzata dal N. in proprio, non risulta – ha proseguito la Corte territoriale – che egli abbia preso parte personalmente alla procedura fallimentare, con personale posizione di autonomo creditore ammesso al passivo;

che la Corte territoriale ha pertanto escluso di poter ravvisare nella situazione del ricorrente, avuto riguardo alla domanda da lui svolta in proprio, alcun connotato di disagio psicologico o di ansia riconducibile all’incertezza sui tempi e sull’esito del procedimento ancora in corso;

che per la cassazione del decreto della Corte d’appello il N. ha proposto ricorso, con atto notificato il 13 aprile 2010, sulla base di otto motivi;

che il Ministero della giustizia ha resistito con controricorso;

che in prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

Motivi della decisione

che il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata;

che con i primi cinque motivi si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della CEDU e dei parametri fissati in materia di ragionevole durata, nonchè violazione della L. n. 89 del 2001 e dell’art. 2697 cod. civ., lamentandosi che la Corte territoriale non abbia ravvisato la durata irragionevole della procedura de qua;

che le censure – da esaminare unitariamente, data la loro stretta connessione – sono infondate;

che, in tema di ragionevole durata del procedimento fallimentare e tenendo conto della sua peculiarità, il termine è stato ritenuto elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti particolarmente complesso: ipotesi, questa, che è ravvisatile in presenza di un numero particolarmente elevato dei creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare, di proliferazione di giudizi connessi nella procedura ma autonomi (e quindi a loro volta di durata vincolata alla complessità del caso), di pluralità di procedure concorsuali indipendenti;

che, poichè la procedura in questione – come già riconosciuto da questa Corte in fattispecie identica (Sez. 1^, 14 novembre 2011, n. 23831) – si presenta senz’altro di particolare complessità, è conforme al richiamato principio il decreto impugnato, che ha ritenuto di poter escludere la configurabilità di un patema d’animo da irragionevole durata in capo alla de cuius, essendo la morte di costei sopraggiunta prima del settennio dall’istanza di ammissione al passivo;

che il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 167 cod. proc. civ. e del principio di non contestazione, censurando che la Corte d’appello – pur in mancanza di una contestazione da parte dell’Amministrazione convenuta sulla qualità di successore a titolo universale del N. e di un’acquisizione da parte dell’Ufficio degli atti del processo presupposto – abbia escluso la qualità di parte del N. nella procedura fallimentare;

che il motivo è inammissibile, per mancato rispetto del principio di autosufficienza;

che, infatti, con riguardo alla richiesta di equa riparazione avanzata dal N. in proprio, a fronte di una statuizione della Corte territoriale (non viziata da extrapetizione, rientrando nei poteri del giudice del merito verificare i presupposti di azionabilità del diritto all’equa riparazione) secondo cui non risulta che egli abbia preso parte personalmente alla procedura fallimentare, il motivo di ricorso – in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, – non indica dove ed in che modo l’odierno ricorrente avesse dedotto, dinanzi alla Corte territoriale, di avere svolto attività processuale nel giudizio presupposto, limitandosi a fare generico riferimento ad una "istanza in proprio";

che, in mancanza di esatta indicazione della veste processuale assunta dal N. nel giudizio a quo (non surrogabile con la richiesta di acquisizione della documentazione del procedimento in cui si assume essersi verificata la violazione della ragionevole durata), neppure può esservi spazio per verificare l’operatività del principio di non contestazione;

che il settimo e l’ottavo motivo riguardano la condanna alle spese del N. e la misura della relativa liquidazione;

che anche questi motivi sono infondati: perchè la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio di soccombenza e perchè il quantum liquidato a titolo di spese (Euro 400,00 per onorari ed Euro 350,00 per diritti) non supera affatto i massimi tariffare, considerato che, ai fini della liquidazione delle spese processuali, il processo camerale per l’equa riparazione del diritto alla ragionevole durata del processo va considerato quale procedimento avente natura contenziosa, non rientrando tra quelli speciali di cui alla tabelle A) e B) allegate al D.M. 8 aprile 2004, n. 127 (rispettivamente voce 50, paragrafo 7 e voce 75, paragrafo 3), per tali dovendo intendersi, ai sensi dell’art. 11 della tariffa allegata al D.M. n. 127 cit., i procedimenti in camera di consiglio ed in genere i procedimenti non contenziosi (Cass., Sez. 1^, 17 ottobre 2008, n. 25352);

che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato;

che le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dall’Amministrazione controricorrente, che liquida in Euro 865,00 per onorari, oltre alle spese eventualmente prenotate a debito.

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