Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 13-04-2011) 28-09-2011, n. 35099

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 28 maggio 2010, depositata il successivo 2 agosto, la Corte di assise di appello di Palermo ha confermato la sentenza della Corte di assise di Agrigento emessa il 27 maggio 2009, con la quale C.F. è stato condannato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno per due delitti: l’omicidio premeditato di P.G., ucciso a colpi di pistola, come accertato in contrada "(OMISSIS)" di (OMISSIS), nei pressi della casa natale di Pi.Lu., il (OMISSIS) capo A) della rubrica; e il delitto di concorso in tentato omicidio pluriaggravato dei fratelli G.L. e G.S., commesso con premeditazione e durante la latitanza dell’autore, in (OMISSIS) capo C).

Il C. è stato, invece, prosciolto dai reati di detenzione e porto abusivo delle armi utilizzate per commettere i predetti delitti capi B), D) ed E), perchè estinti in virtù di prescrizione.

La vicenda processuale di interesse è scandita in due tempi.

L’originario procedimento penale instaurato nei confronti del C. immediatamente dopo il casuale ritrovamento del cadavere di P.G., avvenuto alle ore 18 circa del 20 novembre 1985, si chiuse con la sentenza del Giudice istruttore di Agrigento, in data 21 agosto 1987, di proscioglimento del C. per insufficienza di prove ai sensi dell’art. 378 c.p.p. previgente.

L’imputato produsse un biglietto ferroviario a conforto del suo assunto difensivo secondo il quale, fin dal mattino del 18 novembre 1985 (due giorni prima del ritrovamento del cadavere), egli sarebbe partito con il treno delle ore 10,07 dalla stazione di Agrigento bassa con destinazione Francoforte, per raggiungere alcuni congiunti residenti in Germania. Il dato era incompatibile con l’esito della consulenza medico-legale, depositata il 9 maggio 1986, che collocò la morte del Po. in un tempo oscillante tra i tre ed i quattro giorni prima dell’esame autoptico, svoltosi a partire dalle ore 13 del 22 novembre 1985.

Gli elementi che spinsero gli inquirenti, fin dall’inizio delle indagini, ad indiziare il C. (colpito da ordine di cattura del 19.3.1986 e da mandato di cattura del 4.4.1986, rimasto latitante fino al 26.9.1986, allorchè fu arrestato, al valico di Chiasso, a bordo di un’autovettura appartenente a tale Ca.Ca.) furono: a) le dichiarazioni dei congiunti della vittima, il fratello Po.Ge. e il nipote P.A., testimoni di un concitato alterco tra P.G. e C.F., verificatosi nel pomeriggio di domenica 17 novembre 1985, nei pressi del centro commerciale ubicato in Villaseta di Agrigento; b) i contenuti delle comunicazioni telefoniche intercettate dal 6 dicembre 1985 al febbraio 1986 su alcune utenze in uso a congiunti del C. e ad una vicina di casa, da cui emergevano le preoccupazioni e i dubbi dei conversanti in merito al fatto che l’imputato potesse essere stato l’autore dell’omicidio e per tale ragione avesse lasciato la sua residenza in Villaseta subito dopo il fatto.

Il secondo tempo della vicenda processuale è segnato dalla revoca della predetta sentenza di proscioglimento, su richiesta del Pubblico ministero distrettuale, giusta ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo in data 1 marzo 2006, con la riapertura delle indagini per l’omicidio di P.G. nei confronti del C., indagato altresì per concorso nel tentato omicidio pluriaggravato dei fratelli, G.L. e G.S..

Le nuove fonti di prova, sopravvenute al proscioglimento, furono le collaborazioni con la giustizia intraprese tra l’anno 2000 e l’anno 2006 da A.G., D.G.M., D.G.B. e Pu.Lu., esponenti di spicco dell’associazione di tipo mafioso, denominata "Cosa Nostra", operante nella provincia di Agrigento e nei territori di Porto Empedocle e Racalmuto, i quali fecero luce sull’appartenenza del C., fin dalla prima metà degli anni ottanta, al medesimo sodalizio criminoso, all’epoca in guerra contro la cosca emergente della "Stidda" di cui erano componenti di vertice i predetti fratelli G..

I dichiaranti rivelarono, in particolare, la diretta partecipazione del C. al tentativo di omicidio di G.L. e G.S., attuato il 14 giugno 1986, insieme ad A.G., Pu.Gi. (fratello del collaboratore L.) e V.S. (nel frattempo deceduto), armati di un mitra (il C.), di un fucile (l’ A.) e di una pistola (il Pu.), mentre il V. era alla guida dell’autovettura A 112, di provenienza furtiva e successivamente bruciata, a bordo della quale si mosse il gruppo di fuoco, senza che l’evento si compisse a causa dell’Inceppamento del mitra e del fucile, cosicchè a sparare fu il solo Pu. e le vittime, immediatamente datesi alla fuga, riuscirono a schivare i colpi.

Con specifico riguardo all’omicidio del Po., A.G. riferì che il C., colpito da mandato di cattura come indiziato del medesimo delitto, era stato ospitato, durante la latitanza, nella masseria di M.G., in contrada Parrini di Porto Empedocle, e si era reso disponibile alle azioni criminose di interesse del gruppo di appartenenza, tra cui il programmato omicidio dei G. e una sollecitazione al pagamento del "pizzo" rivolta dallo stesso A. al capo di un cantiere aperto nel vicino comune di Santa Elisabetta, dove il dichiarante si recò insieme al C., il quale rimase a bordo dell’autovettura.

Proprio nel corso del detto spostamento, l’ A. rivelò di avere appreso dal C. che, prima di partecipare al tentativo di omicidio dei fratelli G., aveva ucciso P.G. perchè autore di molestie verso una sua nipote, e che disponeva di un biglietto ferroviario procuratogli da Ca.Ca.

(inteso Sa.), altra persona legata al clan dei Messina, di cui si sarebbe avvalso come alibi per garantirsi l’impunità dal medesimo delitto.

Pu.Lu. riferì, a sua volta, di avere appreso dal fratello Gi. la partecipazione dell’imputato al tentativo di uccidere i G. e dallo stesso C., col quale era in rapporti di assidua frequentazione al tempo dei fatti, la commissione dell’omicidio del Po., giustificata col fatto che la vittima aveva commesso alcuni furti in appartamento in contrasto con la disciplina criminale imposta dal capo mafia dell’epoca, tale D.C. G., donde la decisione di quest’ultimo di procedere all’omicidio del trasgressore di cui fu incaricato il C..

Il Pu. dichiarò, altresì, di essere stato testimone diretto, pochi giorni dopo l’uccisione del Po., del recupero da parte del C. dell’arma utilizzata per il delitto, una pistola calibro 32 come tale accertata dalla perizia balistica successivamente eseguita (e non calibro 7,65 come originariamente ritenuto sulla base dei proiettili rinvenuti in loco), la quale era stata nascosta nei pressi di un tunnel, in contrada Caos, e, dopo il prelievo, gettata in mare dallo stesso Ca..

Anche D.G.M., uomo d’onore della famiglia di Racalmuto e capo mafia della Provincia di Agrigento dal 1999 al 2002, divenuto collaboratore di giustizia dal 1 dicembre 2006, riferì di avere appreso direttamente dal C., da lui incontrato una sola volta nel corso del 2001, che era stato l’autore dell’omicidio del Po. in relazione al quale era riuscito a procurarsi un efficace alibi. Nell’occasione, il C. si sarebbe fregiato della sua capacità delinquenziale al fine di conquistare una posizione di rilievo nell’organigramma mafioso agrigentino, ciò che di fatto era avvenuto, come attestato dalla sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo in data 12 luglio 2006, divenuta irrevocabile il 17 maggio 2007, con la quale lo stesso C. fu condannato per i delitti di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, estorsione e violazioni della legge sulle armi, all’esito di processo – denominato "Operazione Ombra" – in cui era emersa la sua caratura criminale quale reggente, in anni più recenti rispetto a quello del delitto Po., della famiglia "Cosa Nostra" di Agrigento.

Ulteriori elementi confortanti la prova a carico del C. sono stati tratti dalle dichiarazioni di D.G.B., come il fratello M. appartenente alla famiglia mafiosa di Racalmuto, collaboratore di giustizia dall’11 dicembre 2006, il quale riferì delle preoccupazioni del C., a lui esternate nel corso di una comune detenzione nell’anno 2002, circa le dichiarazioni che A.G., il quale aveva già intrapreso la sua collaborazione con la giustizia, avrebbe potuto fare sul suo conto con riguardo al tentato omicidio dei fratelli G., all’omicidio del Po. e al falso alibi utilizzato per assicurarsi l’impunità.

In sintesi, secondo la Corte territoriale, le chiamate in reità formulate nei confronti del prevenuto da A.G., Pu.

L., D.G.M. e D.G.B., unitamente al contenuto delle conversazioni telefoniche captate e alle testimonianze di Po.Ge. (costituitosi parte civile) e di P.A., provavano la responsabilità del C. in ordine all’omicidio di P.G.; mentre il biglietto ferroviario, prodotto come prova d’alibi dopo l’arresto, non dimostrava inequivocabilmente l’assenza dell’imputato nel tempo e luogo del delitto, vuoi perchè avrebbe potuto essere stato utilizzato da altri e poi passato al C., vuoi perchè il medico-legale che aveva eseguito l’autopsia della vittima, esaminato in dibattimento, non aveva escluso che la morte del Po. potesse risalire a quattro – cinque giorni prima dell’inizio dell’esame autoptico e, quindi, ad un tempo compatibile anche con l’immediata partenza dell’imputato, dopo il delitto, per la Germania.

Alla stessa conclusione di conferma della responsabilità del C., con riguardo alla sua partecipazione al tentato omicidio pluriaggravato dei fratelli G., la Corte territoriale è pervenuta sulla base della ritenuta attendibile chiamata in correità di A.G., coerentemente integrata dalla chiamata de retato di Pu.Lu., informato dal fratello, Gi., già condannato insieme all’ A. per concorso nel medesimo delitto in forza di sentenza irrevocabile, con l’ulteriore supporto derivante dalle dichiarazioni di D.G.M. circa la partecipazione del C. al fatto, come a lui riferito dallo stesso imputato.

2. Avverso la predetta sentenza il C. ha proposto, tramite i suoi difensori, avvocato Enrico Quattrocchi del foro di Agrigento e avvocato Giuseppe Gianzi del foro di Roma, due distinti ricorsi.

L’avvocato Enrico Quattrocchi ha formulato plurimi motivi di ricorso non numerati.

L’avvocato Giuseppe Gianzi ha dedotto quattro motivi di ricorso.

L’avvocato Enrico Quattrocchi ha formulato motivi nuovi, ai sensi dell’art. 585 cod. proc. pen., pervenuti il 30 marzo 2011. 2.1. Con un primo motivo l’avvocato Enrico Quattrocchi ripropone, in via pregiudiziale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all’art. 434 c.p.p., l’eccezione di nullità dell’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo in data 1 marzo 2006, con la quale è stata revocata la sentenza di non doversi procedere per insufficienza di prove, emessa dal Giudice istruttore del Tribunale di Agrigento il 21 agosto 1987, e disposta la riapertura delle indagini nei confronti del C. con riguardo all’omicidio di P.G., accertato in Agrigento il 20 novembre 1985.

A ragione il ricorrente adduce l’Illegittimità del provvedimento per la già compiutasi prescrizione del delitto di omicidio volontario, non aggravato, al tempo della revoca della sentenza di non doversi procedere, disposta con la suddetta ordinanza del 1 marzo 2006, successiva di oltre un ventennio la data di consumazione del delitto nel novembre 1985, così come già prescritto, all’epoca, sarebbe stato anche il delitto di tentato omicidio dei fratelli G..

Sostiene, inoltre, il ricorrente che la richiesta del Pubblico ministero di essere autorizzato alla riapertura delle indagini contrasta con la disposizione di cui all’art. 649 cod. proc. pen., a termini della quale l’imputato prosciolto non può essere sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze.

Aggiunge l’inutilizzabilità delle nuove fonti di prova indicate dal Pubblico ministero a sostegno della richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere, a norma dell’art. 435 c.p.p., commi 1 e 2, poichè acquisite prima che fosse autorizzata dal Giudice per le indagini preliminari la riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 436 c.p.p., commi 2 e 3, e, pertanto, non utili a fondare la modifica dell’ipotesi di reato a carico del C. da omicidio volontario semplice, soggetto a termine di prescrizione ventennale in base alla previgente normativa, ad omicidio premeditato sanzionato con la pena dell’ergastolo, come tale imprescrittibile.

Ad ulteriore conforto della eccepita inutilizzabilità, il ricorrente adduce che a fronte della prova certa dell’assenza del C. dal luogo del delitto al tempo in cui fu commesso, e della verificata mancanza di un’idonea causale omicidiaria riferibile all’imputato, il Giudice per le indagini preliminari non avrebbe dovuto accogliere la richiesta del Pubblico ministero, non essendogli consentito di ritenere come già provata la riqualificazione del reato di omicidio semplice in omicidio aggravato dalla premeditazione, tanto più che le nuove fonti di prova non erano attinenti a fatti coevi al delitto, ma alla qualità di associato mafioso riconosciuta al C. con sentenza di condanna, in diverso processo, intervenuta ben diciotto anni dopo il fatto.

2.2, Con un altro articolato motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c), d) ed e), l’erronea applicazione delle disposizioni di cui all’art. 192 c.p.p., commi 1, 2, 3 e 4; artt. 526 e 546 cod. proc. pen., con riguardo al delitto di omicidio di cui al capo A); l’erronea applicazione dell’art. 575 c.p., art. 577 c.p., n. 3, artt. 49, 56 e 575 cod. pen. e il travisamento dei fatti con riguardo al delitto di cui al capo B) rectius: C).

I giudici di merito, incorrendo in un palese vizio della motivazione, avrebbero obliterato elementi probatori certi e precisi e valorizzato, invece, mezzi di prova generici e contraddittori.

La prova cardine dell’estraneità del C. all’omicidio del Po., costituita dalla sua partenza per la Germania nel mattino del 18 novembre 1985, alle ore 10.07, in tempo incompatibile con la commissione del delitto, resiste, ad avviso del ricorrente, a tutte le altre prove assunte nel corso del processo.

Essa non è smentita dal contenuto della comunicazione telefonica, intercettata il 7 gennaio 1986, tra il fratello maggiore dell’imputato, C.S. e la sorella C.R., dalla quale, contrariamente alla travisata interpretazione della Corte territoriale, emergerebbe la reale partenza di C. F. da Agrigento per la Germania, nel mattino del 18 novembre 1985, e, quindi, la sua estraneità al delitto, commesso nel pomeriggio di quello stesso giorno, come riferito dallo stesso C.F. alla sorella e da questa riportato al fratello S., suo interlocutore nella medesima conversazione, per rassicurarlo sul comportamento del congiunto.

La circostanza che t’imputato sapesse, fin da allora, il presumibile orario dell’uccisione del Po., pur non essendo stata ancora depositata la perizia medico-legale (ciò che avvenne il successivo 9 maggio 1986), si spiega agevolmente, secondo il ricorrente, con il fatto, riferito dal C. nel corso del suo interrogatorio, che egli dalla Germania seguì la stampa siciliana la quale diede ampia notizia del delitto e si tenne in stretto contatto con amici e conoscenti, informati del fatto, apprendendo la circostanza riferita e confermata, anche in sede dibattimentale, da Po.Sa., cugino della vittima, circa il suo incontro con P.G. nel mattino del 18 novembre, col quale si trattenne dalle ore 10,30 circa fino alle ore 12,00 recandosi, insieme, a vedere una casa che intendeva prendere in locazione.

I giudici di merito, mentre non avrebbero dimostrato l’infondatezza della predetta prova d’alibi, avrebbero invece illegittimamente riconosciuto piena attendibilità alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia con una motivazione che il ricorrente sottopone a censura per le seguenti ragioni.

1) Nessuno dei chiamanti in reità il C. per l’omicidio di P.G. partecipò ad esso o, comunque, ebbe conoscenza diretta del fatto: tutti ( A.G., Pu.Lu., D. G.M. e D.G.B.) indicano il C. come autore del delitto "de relato" dallo stesso imputato o da altre fonti non verificabili, donde la necessità di riscontri che sarebbero del tutto mancati.

2) I testimoni, Ca.Pa., comandante nel 1985 dei vigili urbani di Cattolica Eraclea, e A.M., all’epoca fidanzata con l’imputato dal quale ha avuto due figli, hanno confermato la prova d’alibi del C., senza che i giudici del merito abbiano dato il giusto rilievo alle loro dichiarazioni: in particolare, Ca.Pa. ha riferito che, nel mattino del 18 settembre 1985, incontrò presso la stazione di Agrigento il C., il quale si offrì di aiutarlo a trasportare fino all’ufficio spedizioni un sacco di iuta contenente frutta secca, destinato ai suoi parenti residenti a Milano; A.M., ritenuta inattendibile dai giudici di merito senza un’adeguata motivazione, ha dichiarato, già nelle iniziali indagini, che incontrò il C. in Germania, a Siegen, presso la casa di sua sorella, coniugata con un germano dell’imputato residente in quel paese, precisando, in dibattimento, che l’incontro avvenne il 20 novembre 1985 e, poco dopo, ella cominciò a convivere con il C., stabilendosi nella città di Pescara, dove, insieme, lavorarono come venditori ambulanti. Quest’ultima circostanza escluderebbe la presenza dell’imputato in Sicilia anche al tempo del tentato omicidio dei fratelli G., smentendo le dichiarazioni dei collaboratori, i quali hanno riferito sulla permanenza del C., durante la latitanza, presso la masseria di M.G., in contrada Parrini di Porto Empedocle.

3) La Corte territoriale avrebbe omesso, inoltre, alcun controllo sulla credibilità intrinseca, soggettiva e oggettiva, dei chiamanti:

essi sarebbero stati animati da risentimento nei confronti del C., il quale, a loro giudizio, aveva approfittato del fatto che i principali esponenti mafiosi della zona e, in particolare, i capi dei gruppi criminali di Porto Empedocle, Agrigento, Favara e Santa Elisabetta erano stati uccisi o tratti in arresto, per acquisire una posizione di rilievo in seno a Cosa Nostra agrigentina.

D.G.M., in particolare, non avrebbe fatto mistero di avere addirittura progettato, insieme a tale F.F., di uccidere il C. tendendogli un tranello nel quale quest’ultimo non era caduto, avendo intuito il pericolo. L’ostilità del D.G. nei confronti dell’imputato renderebbe, dunque, altamente inverosimile che il C. abbia fatto al primo delle confidenze circa la commissione dell’omicidio del Po. e il falso alibi procuratogli dall’amico, Ca.Ca. (inteso S.), per sfuggire alla condanna grazie a un biglietto di viaggio confusamente indicato dallo stesso D.G. come aereo o ferroviario.

4) Completamente inattendibile avrebbe dovuto ritenersi anche A.G., il quale ha attribuito alle confidenze del C. quanto appreso, invece, dai discorsi sentiti in giro e dalle notizie apparse sulla stampa locale, seguite dall’arresto dell’imputato il 26 settembre 1986: l’inverosimiglianza del racconto dell’ A., immotivatamente trascurata dai giudici di merito, sarebbe palese laddove lo stesso ha riferito di essersi recato a Santa Elisabetta, per minacciare un capo cantiere che ritardava il pagamento del "pizzo", insieme al C., all’epoca latitante, in spregio delle più elementari esigenze di salvaguardia di se stesso e del compagno, ricevendo lungo il tragitto, compreso in zona sottoposta a frequenti controlli di polizia, la confidenza del C. che gli avrebbe rivelato di avere ucciso il Po..

5) Del tutto omessa sarebbe la motivazione del giudice di merito con riguardo alla contraddizione sulla causale dell’omicidio confidato dal C. all’ A. e all’altro collaboratore, P. L.: al primo, infatti, l’imputato avrebbe riferito di avere ucciso il Po. perchè importunava una sua nipote, indicando dunque un movente privato; mentre al secondo avrebbe dichiarato di avere ammazzato il Po. perchè non rispettava la disciplina criminale vigente nel territorio, commettendo furti negli appartamenti.

6) Clamorosa e, ancora una volta, trascurata nella carente motivazione della sentenza, sarebbe l’inattendibilità di quanto riferito da Pu.Lu. circa il suo incontro con il C. pochi giorni dopo l’omicidio del Po., mentre è documentato e testimoniato che l’imputato si trovava in Germania:

nell’occasione il C., oltre a confidargli di essere stato l’autore del delitto, avrebbe in sua presenza recuperato la pistola utilizzata per l’omicidio, una calibro 32, nascosta a margine della strada, e gettato l’arma nel mare, facendogli ulteriori confidenze circa il trascinamento del cadavere ed altri particolari, dei quali avevano parlato anche i giornali locali. Il dato è in contrasto con quanto dichiarato dai parenti dello stesso Po., i quali hanno riferito di non avere più visto il C. in Sicilia dopo il 17 novembre 1985 e di avere avuto notizia del suo ritorno nell’isola in occasione della Pasqua nel successivo anno 1986. Anche il calibro dell’arma, indicato come 32, è in contraddizione con quello dei bossoli dei proiettili di calibro 7.65, che colpirono a morte il Po. alla testa, sul volto e nel tronco, e il verbalizzante, Mo.Bi., ispettore della polizia scientifica di Palermo, non avrebbe sostenuto la compatibilità tra l’indicata pistola calibro 32 e i proiettili calibro 7.65, come erroneamente indicato in sentenza.

7) I giudici di merito avrebbero omesso di dare il dovuto rilievo alle dichiarazioni di un altro collaboratore, F.A., capo della consorteria mafiosa di Porto Empedocle, il quale ha riferito di non essere a conoscenza di omicidi commessi dal C. e di avere ricevuto notizie sullo stesso da F.S. e Ca.Ca. (inteso S.); mentre, in contrasto con la prova documentale della partenza del C. per la Germania e della successiva sistemazione dello stesso con la convivente, A.M., in Pescara, le Corti territoriali avrebbero contraddittoriamente valorizzato le dichiarazioni del collaboratore, S.P., il quale ha dichiarato di avere visto il C. a Porto Empedocle presso la masseria di M. G., all’epoca capo del gruppo mafioso di Cosa Nostra in quel territorio.

2.3. Con un altro gruppo di motivi è censurata la motivazione addotta a sostegno della condanna del C. come concorrente nel tentato omicidio di G.L. e G. S., commesso il 14 giugno 1986, quando, secondo le dichiarazioni dei collaboratori, l’imputato, già latitante, si nascondeva nella masseria del M..

Solo A.G. in via diretta e Pu.Lu., de relato dal fratello Gi., hanno indicato il C. come concorrente nel predetto delitto insieme allo stesso A., a Pu.Gi. e a V.S.; mentre S.P. ha dichiarato che autori del fatto furono l’ A., il Pu. e il V., e F.A., oltre ai predetti, ha menzionato come concorrente nel delitto M.G..

L’elevata caratura criminale del F. e del S., entrambi ai vertici di Cosa Nostra agrigentina, rende altamente attendibili le loro dichiarazioni; mentre la partecipazione del C. all’agguato omicidiario contro i G., appartenenti alla contrapposta consorteria della "Stidda", è smentita anche dalle dichiarazioni di S.D., collaboratore di giustizia, già sodale dei G., il quale ha riferito che gli aggrediti riconobbero i loro attentatori nell’ A., nel Pu. e nel V. ma non anche nel C., e si vendicarono da lì a poco con l’omicidio di M.G., consumato l’8 luglio 1986, che precedette la strage di Porto Empedocle del 21 settembre 1986, nella quale fu ucciso G.L. insieme ad altre cinque persone.

Non sarebbe, inoltre, configurabile il contestato delitto di tentato omicidio per essere stato il tentativo impossibile, posto che il mitra di cui sarebbe stato armato il C. e il fucile imbracciato dall’ A. erano inceppati, e, pertanto, del tutto inidonei ab origine alla commissione del reato.

2.4. Nei nuovi motivi l’avvocato Enrico Quattrocchi ribadisce quanto già enunciato con riguardo alla prescrizione di entrambi i reati, alla nullità dell’ordinanza di revoca della sentenza di non doversi procedere, all’omessa verifica dell’attendibilità dei collaboratori, alla contraddittorietà e mancanza di motivazione circa la ritenuta attendibilità della prova dichiarativa proveniente dai collaboratori, e all’illogica svalutazione invece di quella che riscontra la prova d’alibi tempestivamente offerta dal C..

3. L’avvocato Giuseppe Gianzi propone quattro motivi di gravame.

3.1. Con il primo, come già dedotto dall’avvocato Enrico Quattrocchi, denuncia, sulla base dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione agli artt. 434 e ss., 648 e 649 cod. proc. pen., violazione di legge, mancanza e illogicità della motivazione, con riguardo all’ordinanza di revoca della sentenza di non doversi procedere emessa ai sensi dell’art. 378 c.p.p. previgente, con la conseguente inutilizzabilità degli atti di indagini espletate dopo la medesima revoca e la nullità delle sentenze di primo e secondo grado.

A sostegno, oltre agli argomenti già addotti dal primo ricorrente e qui non ripetuti per ovvie esigenze di economia, adduce la differenza esistente tra le sentenze di non doversi procedere emesse dal Giudice istruttore secondo l’art. 378 c.p.p. abrogato e quelle di non luogo a procedere emesse dal Giudice per le indagini preliminari ex art. 425 c.p.p. vigente: le prime sarebbero suscettibili di diventare irrevocabili, contenendo una vera e propria decisione nel merito, qualora le impugnazioni non siano state proposte o siano state dichiarate inammissibili o rigettate; le seconde, invece, sarebbero insuscettibili di diventare irrevocabili.

Diversi sarebbero anche i presupposti per la riapertura dell’istruzione e delle indagini ai sensi, rispettivamente, dell’art. 402 c.p.p. abrogato e dell’art. 434 e ss. c.p.p.: la prima disposizione, infatti, postula la possibilità di riapertura dell’istruzione quando sopravvengano nuove prove a carico del prosciolto sempre che "non sia intervenuta una causa di estinzione del reato", mentre tale limite non è previsto per la riapertura delle indagini ai sensi dei predetti artt. 434 e ss. c.p.p..

Conseguentemente, nel caso in esame, non sarebbe stato possibile disporre la revoca della sentenza istruttoria di non doversi procedere, pronunciata nel lontano 21 agosto 1987 e mai impugnata, poichè i delitti di cui ai capi A) (omicidio) e B) (violazione della legge sulle armi) erano ormai già estinti per intervenuta prescrizione.

La disposta revoca sarebbe, inoltre, in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui i nuovi elementi di prova acquisiti dal Pubblico ministero successivamente alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere possono essere utilizzati ai fini della revoca della sentenza, a condizione che essi siano stati acquisiti aliunde nel corso di indagini estranee al procedimento già definito o siano provenienti da altri procedimenti, ovvero reperiti in modo casuale o spontaneamente offerti, e comunque non siano il risultato di indagini finalizzate alla verifica ed all’approfondimento degli elementi già emersi (Sez. unite, n. 8 del 23/02/2000, dep. 9/03/2000, Romeo, Rv. 215412), come invece sarebbe avvenuto nel caso in esame con riguardo alle tardive dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sollecitate dal Pubblico ministero per acquisire nuovi elementi di prova a carico del C..

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione all’art. 577 c.p.p., n. 3, la mancanza e l’illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante della premeditazione e all’ulteriore aggravante di essersi l’imputato avvalso delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen..

Quest’ultima circostanza, di cui peraltro non si è tenuto conto nella sentenza impugnata, è stata infatti introdotta dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito in L. n. 203 del 1991, e, quindi, in tempo successivo a quello di commissione dell’omicidio qui contestato; mentre della circostanza aggravante della premeditazione non sussisterebbero le condizioni temporali ed ideologiche, posto che, nella stessa motivazione della sentenza, si legge che l’omicidio fu commesso poche ore dopo la lite tra il C. e il Po. avvenuta nel tardo pomeriggio del 17 novembre 1985 presso il centro commerciale di Villa Seta, e, comunque, non esisterebbe alcuna prova delle ragioni per cui la vittima e il suo assassino convennero nella località in cui fu commesso il delitto, nè potrebbe equipararsi la mera organizzazione dell’esecuzione di un omicidio alla sua premeditazione.

Analoghe censure sono mosse anche alla ritenuta premeditazione del tentato omicidio dei fratelli G., posto che, come riferito dagli stessi collaboratori di giustizia che assumono la partecipazione del C. al delitto, l’imputato fu chiamato a concorrervi all’ultimo momento per sostituire M.G., del quale era stata prevista la partecipazione, non ancora rientrato presso la masseria.

3.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in relazione all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, per mancanza ed illogicità della motivazione in ordine al giudizio di attendibilità delle dichiarazioni dirette e, soprattutto, de relato dei collaboratori di giustizia, sottolineando le contraddizioni tra le propalazioni dei chiamanti già evidenziate dal primo ricorrente, non risolvibili, come aberrantemente ritenuto dalla Corte di merito, riconoscendo, da un lato, i contrastanti moventi dell’omicidio del Po., riferiti dal C. all’ A. e al Pu. ( Lu.), e pretendendo, dall’altro lato, che fosse lo stesso imputato a sciogliere le medesime contraddizioni.

Ulteriori vistose aporie denunciate dal ricorrente come irrisolte nella sentenza impugnata riguardano le dichiarazioni di Pu.

L. circa l’accompagnamento del C., pochi giorni dopo l’omicidio del Po., presso il luogo in cui l’imputato avrebbe nascosto l’arma utilizzata per il delitto, mentre è provato che, all’epoca, l’imputato già si trovava in Germania presso i suoi parenti; e le chiamate in correità e reità del C., come concorrente nel tentativo di omicidio dei fratelli G., da parte, rispettivamente, dell’ A. in via diretta e di P. L. de relato, smentite dalle diverse dichiarazioni dei collaboratori F., S. e S.D., quest’ultimo già sodale dei G., dichiarante che le mancate vittime riconobbero alcuni dei loro aggressori, tra i quali non indicarono il C..

Mancherebbero, in ogni caso, riscontri oggettivi e individualizzanti delle predette chiamate.

3.4. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente denuncia omissione ed illogicità della motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con riguardo alla prova d’alibi fornita dall’imputato.

Il biglietto ferroviario relativo al viaggio compiuto il 18 novembre 1985, a partire dalle ore 10.07, regolarmente punzonato per i controlli eseguiti lungo il tragitto, avrebbe trovato riscontro, quanto alla riferibilità del viaggio proprio alla persona del C., nelle testimonianze dell’ A. e del Ca., illogicamente svalutate dai giudici di merito senza valide argomentazioni contrarie a quelle puntualmente indicate nella sentenza istruttoria di non doversi procedere, finendo illogicamente con l’attribuire maggiore valore, rispetto alla prova d’alibi documentale e testimoniale, alle tardive, contraddittorie, imprecise ed equivoche dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Motivi della decisione

4. I motivi comuni ai due ricorsi saranno esaminati congiuntamente.

4.1. Un primo gruppo di censure, proposte da entrambi i ricorrenti (primo motivo del ricorso dell’avvocato E. Quattrocchi e primo motivo del ricorso dell’avvocato G. Gianzi), attiene alla denunciata nullità dell’ordinanza, in data 1 marzo 2006, del Giudice distrettuale per le indagini preliminari di Palermo, con la quale, a norma dell’art. 436 cod. proc. pen., è stata revocata la sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove, emessa dal Giudice istruttore del Tribunale di Agrigento in data 21 agosto 1987.

I prospettati profili di nullità per la già compiutasi prescrizione dei delitti oggetto della sentenza di proscioglimento al tempo della revoca di essa e, più preliminarmente, per la ritenuta irrevocabilità della pronuncia di proscioglimento emessa nel vigore del precedente codice di procedura penale, sono infondati.

L’art. 232 disp. coord. del vigente codice di procedura penale espressamente equipara le sentenze istruttorie di non doversi procedere, emesse ai sensi dell’art. 378 codice abrogato, alle sentenze di non luogo a procedere previste dall’art. 425 codice in vigore.

Queste ultime, non essendo pronunciate in giudizio, non sono suscettibili di diventare irrevocabili, come previsto dall’art. 648 attuale codice di rito, donde l’infondatezza della denunciata nullità dell’ordinanza di revoca della sentenza di proscioglimento non più passibile di impugnazione, prevedendo, peraltro, anche l’art. 402 del codice di procedura penale abrogato la possibilità di riapertura dell’istruzione con disposizione analoga a quella di cui all’art. 434 codice in vigore.

L’art. 243 disp. trans. estende, poi, a tutte le sentenze istruttorie di proscioglimento emesse nel vigore del codice abrogato, comprese quelle adottate nei procedimenti in fase istruttoria che proseguono con le norme anteriormente vigenti ai sensi del precedente art. 242 disp. trans., comma 1, la disciplina dei casi e delle forme di revoca previste dal titolo 10 del libro 5 del codice in vigore (artt. da 434 a 437).

Non v’è dubbio, quindi, nel caso in esame, che la sentenza istruttoria di proscioglimento emessa il 21 agosto 1987, a norma dell’art. 378 cod. proc. pen. abrogato, benchè non più passibile di impugnazione, sia stata correttamente revocata con l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo in data 1 marzo 2006, ai sensi dell’art. 434 e ss. c.p.p. vigente.

L’assunto trova conforto nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in materia di giudicato penale, il principio "ne bis in idem" è posto dal legislatore con esclusivo riferimento alle decisioni giurisdizionali adottate a carico dell’imputato che siano connotate dal requisito della irrevocabilità, requisito da ritenersi assente per la sentenza di non luogo a procedere per quanto dettato dall’art. 434 cod. proc. pen. che ne disciplina la revoca, senza che rilevi, in senso contrario, la giurisprudenza elaborata nella vigenza delle norme processuali abrogate, la quale aveva prevalentemente attribuito il carattere di definitività anche alle sentenze di proscioglimento non più soggette ad impugnazione pronunciate dal giudice istruttore, pur essendo anche per esse prevista la possibilità della riapertura delle indagini a carico dello stesso soggetto per il medesimo fatto: e, invero, nell’ordinamento processuale vigente, la sentenza di "non luogo a procedere", sconosciuta in quello abrogato, è concettualmente distinta da quella di proscioglimento alla quale esclusivamente, oltre che a quella di condanna, fa riferimento l’art. 649 che pone il divieto di un secondo giudizio a carico della stessa persona per il medesimo fatto (conforme: Sez. 3, n. 3513 del 18/01/1994, dep. 23/03/1994, Bignami, Rv. 197101).

Parimenti infondata è pure la denunciata nullità dell’ordinanza di riapertura delle indagini e delle conseguenti sentenze di condanna del C. in primo e secondo grado, per essersi già compiuto il tempo di prescrizione del delitto di omicidio volontario non aggravato, accertato il 20 novembre 1985, alla data del 1 marzo 2006 di revoca della sentenza istruttoria di proscioglimento risalente al 21 agosto 1987, e per essere già decorso anche il termine di prescrizione del delitto di tentato omicidio, commesso il 14 giugno 1986.

Va, subito, esclusa la compiutasi prescrizione per quest’ultimo reato, essendo esso aggravato dalla premeditazione e, quindi, punito con la pena della reclusione non inferiore a dodici anni fino al massimo edittale previsto di anni ventiquattro, in forza del combinato disposto dell’art. 577 c.p., comma 1, n. 3, art. 56 c.p., comma 2 e art. 23 c.p., comma 1, donde il termine prescrizionale di venti anni, ex art. 157 c.p., comma 1, nel testo più favorevole vigente alla data del 14 giugno 1986 di commissione del fatto, termine non ancora scaduto il 1 marzo 2006, allorchè fu emessa l’ordinanza di riapertura delle indagini.

Riguardo al delitto di omicidio consumato, accertato il 20 novembre 1985 e già contestato nella forma semplice nella sentenza istruttoria di non doversi procedere, va osservato, in adesione alla giurisprudenza di legittimità in materia, che, ai fini dell’accertamento dell’avvenuta prescrizione, la configurazione terminale della fattispecie criminosa, di cui alla pronuncia del giudice di merito, opera "ex tunc" ed è pertanto irrilevante, al medesimo fine, la configurazione della fattispecie ipotizzata nel momento iniziale dell’esperimento dell’azione volta ad accertarla (conformi: Sez. 5, n. 3144 del 15/10/1993, dep. 24/11/1993 Cicchi, Rv. 195880; Sez. 6, n. 25680 del 09/01/2003, dep. 12/06/2003, Pisciceli, Rv. 226420).

La prescrizione, invero, costituisce un’ipotesi di rinuncia dello Stato alla pretesa punitiva e la sua operatività va verificata con riferimento all’azione penale esercitata per il reato che – nelle sue componenti essenziali ed accessorie – abbia ricevuto la qualifica definitiva; non, quindi – ove intervengano statuizioni innovative dell’accusa genetica, rilevanti ai fini del tempo necessario al maturarsi della prescrizione – con riguardo al fatto storico che ha determinato la formulazione dell’Imputazione (Sez. 6, n. 5333 del 07/04/1993,dep. 26/05/1993, Marrazzo, Rv. 194039).

Correttamente, dunque, nella fattispecie in esame, i giudici di merito hanno considerato, ai fini della determinazione dei termini di prescrizione, il delitto di omicidio premeditato nella qualificazione giuridica emersa all’esito delle indagini riaperte e dell’espletato giudizio, come tale imprescrittibile, secondo il codice penale previgente e attuale.

Va aggiunto che, nell’ambito dell’originario procedimento definito con la sentenza istruttoria di proscioglimento del 21 agosto 1987, era stato emesso il 19 marzo 1986 un ordine di cattura e il 4 aprile dello stesso anno un mandato di cattura nei confronti dell’attuale ricorrente per l’omicidio di P.G., con la conseguente interruzione della prescrizione ventennale, all’epoca prevista per l’omicidio volontario non aggravato dall’art. 157 c.p., comma 1, n. 1, e il nuovo decorso di essa a partire dall’ultimo atto interruttivo, ai sensi dell’art. 160 c.p., commi 2 e 3, nel testo all’epoca vigente.

Pertanto, alla data del 1 marzo 2006 di emissione dell’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Palermo che revocava la sentenza di proscioglimento, non si era neppure compiuto il ventennio a decorrere dal 4 aprile 1986, data del mandato di cattura spiccato dal Giudice istruttore del Tribunale di Agrigento nei confronti dello stesso C., poichè gravemente indiziato dell’omicidio di P.G..

Gli altri profili di nullità denunciati con riguardo al medesimo tema – dedotta inutilizzabilità delle fonti di prova, poste a fondamento della richiesta di riapertura delle indagini, prima dell’accoglimento della medesima richiesta, e inidoneità di esse a giustificare il nuovo inizio del procedimento per non essere state acquisite aliunde, come postulato dalla giurisprudenza di questa Corte (citata sentenza, a sezioni unite, n. 8 del 2000) – sono manifestamente infondati per la loro inconsistenza e genericità, posto che le nuove fonti di prova sulla base delle quali, a norma dell’art. 434 cod. proc. pen., il pubblico ministero richiede la revoca della sentenza di non luogo a procedere, cui è equiparata dall’art. 232 disp. coord., come si è detto, la sentenza di non doversi procedere emessa ai sensi dell’art. 378 codice abrogato, sono evidentemente diverse dalle prove assunte nel corso del giudizio e, comunque, nel contraddittorio tra le parti, alle quali soltanto si addice la categoria della inutilizzabilltà prevista dall’art. 191 cod. proc. pen., attinente appunto alle prove e non alle fonti di esse e, perciò, male evocata dai ricorrenti con riguardo a quest’ultime; nella fattispecie, inoltre, le nuove fonti di prova derivavano dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, A.G., D.G.M., D.G.B. e Pu.Lu., raccolte nei diversi procedimenti instaurati con riguardo alle cosche mafiose operanti in Agrigento e provincia, e alla guerra apertasi tra la tradizionale propaggine di "Cosa nostra", attiva nel medesimo territorio, e la cosca emergente della "Stidda", nell’ambito di un contesto criminale più ampio e indipendente da quello in cui fu eseguito lo specifico omicidio del Po., oggetto di un procedimento già definito in sede istruttoria da oltre un decennio al tempo di avvio delle suddette collaborazioni con la giustizia.

Da tutto quanto precede consegue il rigetto dei motivi, proposti in entrambi i ricorsi, che denunciano la violazione di norme processuali.

4.2. Un altro gruppo di censure (secondo e terzo motivo del ricorso dell’avvocato E. Quattrocchi; terzo e quarto motivo del ricorso dell’avvocato G. Gianzi) attiene alla ritenuta violazione delle regole di giudizio di cui all’art. 192 c.p.p., commi 1, 2, 3 e 4, in tema di valutazione delle prove e, in particolare, delle dichiarazioni rese dai chiamanti in reità, A.G., Pu.Lu., D.G.M. e D.G.B., con riguardo all’omicidio di P.G.; e dal chiamante in correità, A.G., nonchè dal chiamante in reità, Pu.Lu., con riguardo al tentato omicidio dei fratelli G..

4.2.1. In ordine al primo delitto, assumono i difensori, nei rispettivi ricorsi, che la penale responsabilità del C. sarebbe stata ancorata dai giudici di merito esclusivamente alle chiamate in reità de relato, posto che nessuno dei dichiaranti partecipò al medesimo delitto, con omissione della previa valutazione di attendibilità intrinseca – soggettiva ed oggettiva – dei chiamanti e con illogica svalutazione delle prove di segno contrario, costituite dal biglietto ferroviario prodotto dall’imputato a conforto della sua assenza dal territorio siciliano al tempo del commesso omicidio e dalle coerenti testimonianze rese, al riguardo, da Ca.Pa. e A.M..

Le doglianze sono fondate su errati postulati.

Esse suppongono, da un lato, che la dichiarata responsabilità penale del C. per l’omicidio di P.G. proceda esclusivamente dalle chiamate in reità de relato, che troverebbero riscontro le une nelle altre secondo un criterio indiretto di verifica già ritenuto insufficiente da questa Corte (c.f.r., tra le altre, Sez. 5, n. 37239 del 09/07/2010, dep. 19/10/2010, Canale, Rv.

248648); e, dall’altro lato, che il biglietto ferroviario prodotto dal C., dopo l’arresto del 26 settembre 1986 che pose fine alla sua latitanza, sia da assimilare ad una riuscita prova d’alibi, unitamente alle dichiarazioni testimoniali dei predetti Ca. e A., con esiti quindi alternativi e inconciliabili con quelli discendenti dalle dichiarazioni accusatorie dei collaboranti.

In realtà, come si desume dalla lettura delle motivazioni delle conformi sentenze di merito, le chiamate in reità de relato non costituiscono il fondamento probatorio esclusivo della riconosciuta responsabilità del C. per l’omicidio del Po., e il biglietto ferroviario prodotto dall’imputato, insieme alle dichiarazioni testimoniali che ne conforterebbero l’efficacia probatoria, non integra una prova d’alibi riuscita, come supposto dai difensori ricorrenti, in contrasto con le dichiarazioni eteroaccusatorie dei collaboratori di giustizia, la quale sarebbe stata illogicamente svalutata rispetto a quest’ultime nel costrutto motivazionale della decisione impugnata.

Con chiare e coerenti argomentazioni, invero, entrambe le Corti di merito escludono che il biglietto ferroviario in possesso del C., non essendo un documento nominativo, sia idoneo a documentare che il viaggio in data 18 novembre 1985, con partenza da Agrigento alle ore 10,07 e arrivo a Milano alle ore 10,29 del successivo 19 novembre, sia stato compiuto proprio dal C. e non da altri, e leggono il medesimo dato, di per sè neutro, insieme ai contenuti delle conversazioni telefoniche captate sulle utenze in uso ai familiari dell’imputato, sottolineando, in particolare, la comunicazione del 7 gennaio 1986, tra C.S. e C.R., rispettivamente fratello e sorella del prevenuto, residenti il primo a Rovato (provincia di Brescia) e la seconda a Siegen (in Germania), da cui emergono le perplessità dei conversanti sul comportamento del congiunto con riguardo al suo eventuale coinvolgimento nell’omicidio del Po., e la conoscenza riferita dallo stesso imputato alla sorella, R., e da quest’ultima comunicata al fratello S., circa il tempo preciso in cui era stato commesso l’assassinio del Po., nel pomeriggio di lunedì, 18 novembre 1985, insieme al suo dichiarato possesso di un "foglio" (evidente allusione al biglietto ferroviario) che avrebbe provato la partenza di C.F. da Agrigento al mattino di quello stesso giorno.

Quest’ultima circostanza, tenuto conto che il cadavere del Po. fu casualmente scoperto da un contadino, in contrada Caos di Agrigento, alle ore 16,30 circa del 20 novembre 1985 e che, prima del deposito della consulenza autoptica, avvenuto il 9 maggio 1986, non fu formulata alcuna puntuale ipotesi circa la data di uccisione del Po., è stata correttamente valutata dai giudici di merito come elemento indiziario a carico del C., unitamente alle dichiarazioni dei congiunti della vittima, il fratello Po.

G. e il nipote, P.A., entrambi testimoni di un acceso litigio tra lo stesso C. e la futura vittima, P. G., avvenuto nel pomeriggio di domenica, 17 novembre 1985, presso il centro commerciale di Villaseta, frazione di Agrigento, luogo di residenza di entrambi i litiganti.

Anche le testimonianze di Ca.Pa. e di A.M. sono state coerentemente apprezzate dai giudici di merito come non decisive al fine di ritenere riuscita la prova d’alibi offerta dal C.: il Ca. ha, infatti, riferito di essere stato spontaneamente aiutato dal C., il quale si trovava alla stazione di Agrigento alle ore 9,30 circa del 18 novembre 1985, nel trasporto di un sacco di frutta secca fino all’ufficio di spedizione, senza peraltro notare alcun bagaglio in possesso dello stesso C., il quale non gli disse che sarebbe partito da lì a poco, nè fu da lui visto mentre saliva su un treno; l’ A., già convivente del C. e madre dei suoi due figli, sentita dal Giudice istruttore di Agrigento, il 6 novembre 1986, nell’ambito del primo procedimento, dichiarò di avere incontrato il C. in Germania nel mese di novembre 1985, senza indicare una data precisa, che invece ha precisato, oltre venti anni dopo, esaminata nel dibattimento del riaperto procedimento, il 4 dicembre 2008, con una postuma precisione di memoria ragionevolmente ritenuta inattendibile dalle Corti di merito.

In sintesi, già all’esito del primo procedimento, conclusosi con una sentenza istruttoria di proscioglimento per insufficienza di prove, ai sensi dell’art. 378 c.p.p. abrogato, la prova d’alibi fornita dal C. non era stata considerata come riuscita, in presenza di indizi di prova specifica a carico dello stesso imputato ritenuti, tuttavia, non sufficienti a determinarne il rinvio a giudizio.

Nel descritto contesto, le sopravvenute propalazioni dei chiamanti in reità, indicanti il C. come autore dell’omicidio del Po., non si pongono, quindi, come fonti originarie di prova a carico, ma piuttosto, come ben sottolineato nelle sentenze delle Corti di merito, come elementi corroboranti un quadro indiziario già emerso e tali da sciogliere i residui dubbi sull’artificiosità della prova allegata dall’imputato per dimostrare la sua estraneità al delitto.

Le decisioni delle Corti territoriali vanno, pertanto, lette in una prospettiva speculare e rovesciata rispetto a quella ad esse erroneamente attribuita dai difensori ricorrenti, atteso che non sono le plurime e convergenti chiamate in reità a postulare riscontri, peraltro pur ritenuti sussistenti e indicati dai decidenti, ma sono esse stesse che rafforzano gli elementi indiziari già emersi a carico del C. e così riassumigli: a) antagonismo nei confronti del Po., manifestato poco prima del delitto ( Po.

G., fratello della vittima, costituitosi come parte civile e testimone diretto dello scontro tra il congiunto e l’imputato, ha riferito che il germano fu destinatario di un "richiamo" da parte del C., e analoghe dichiarazioni ha reso l’altro testimone oculare dell’alterco, Pi.Al., che, insieme a P. G., si adoperò per allontanare P.G. dal C.); b) contenuti delle conversazioni telefoniche tra i congiunti dell’imputato, oggetto di intercettazioni nel periodo dal 6 dicembre 1985 al 2 febbraio 1986, rivelanti la conoscenza, da parte del C., del giorno e della parte di esso (pomeriggio di lunedì 18 novembre 1985) del commesso delitto prima ancora che esso fosse accertato dagli inquirenti, con la sicurezza esternata dall’imputato alla sorella, R., di poter dimostrare la propria estraneità, essendo in possesso di un "foglio" comprovante la sua partenza dalla Sicilia prima dell’omicidio; c) sparizione del C. dal territorio di Agrigento contemporaneamente alla scomparsa del Po., seguita da oltre sei mesi di latitanza, protrattasi dal marzo al settembre del 1986.

Quanto alle pur lamentate lacune nella verifica dell’attendibilità intrinseca dei chiamanti in reità, osserva la Corte la genericità del rilievo. La lettura delle conformi sentenze di merito rivela, tuttavia, che la valutazione intrinseca – soggettiva ed oggetti va – di attendibilità, è stata rigorosamente compiuta (c.f.r. le pagine da 121 a 129 e da 131 a 135 della sentenza di primo grado, cui rimanda la sentenza d’appello, nelle quali si evidenzia t’accertata appartenenza dei chiamanti – anche in forza di decisioni irrevocabili prodotte in giudizio dal pubblico ministero e riconoscenti ai collaboranti la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui D.L. n. 152 del 1991, art. 8, convertito in L. n. 203 del 1991 – alle associazioni mafiose che si contrapponevano, all’epoca, nella provincia di Agrigento: quella tradizionale, "Cosa Nostra", con le sue fitte articolazioni territoriali e familiari, e quella emergente, denominata "Stidda"). Ne è derivata la ragionevole convinzione della solidità delle conoscenze dei contesti e attività criminali, sul territorio, da parte di tutti i dichiaranti, insieme alla mancanza di motivi personali di rancore o di astio nei confronti del C., non offuscata dal pur emerso progetto di uccisione dell’imputato, manifestato dal solo collaboratore, D.G. M., già reggente della provincia mafiosa di Agrigento in epoca successiva all’omicidio in esame, per esigenze disciplinari interne al sodalizio, a causa delle intemperanze dello stesso C., il quale, dopo aver acquisito, a sua volta, un ruolo di rango nell’organigramma mafioso alla fine degli anni novanta, aveva osato procedere ad un’estorsione in danno di un’impresa protetta dallo stesso D.G., a lui gerarchicamente sovraordinato.

Quanto alle denunciate contraddizioni emerse tra alcuni contenuti delle chiamate in reità, rilevanti nella ricostruzione dell’omicidio di P.G., anch’esse sono state esaminate e superate, con motivazione adeguata e coerente, dai giudici di merito.

Si tratta, innanzitutto, del contrasto emerso, nell’indicazione della causale del medesimo omicidio, tra le dichiarazioni di A. G. e quelle di Pu.Lu., atteso che il primo ha indicato una matrice per così dire privata (o familiare) del delitto, riferendo che il C. gli confidò di aver commesso il fatto perchè il Po. insidiava una sua giovanissima nipote; mentre il secondo ha dichiarato di avere appreso che l’omicidio ebbe una causale associativa e fu commesso, col consenso del capo, all’epoca, della provincia mafiosa agrigentina, tale D.C.G., poichè il Po. commetteva furti in appartamento e ciò non rispondeva alla strategia criminale del gruppo dominante.

La Corte d’appello, sul punto, ritiene attendibili e compatibili entrambe le causali (c.f.r. pag. 53, in fine, della sentenza), senza omettere di rilevare, con adeguata e coerente motivazione, che il non breve periodo di latitanza trascorso dal C., nella primavera – estate del 1986, presso la masseria della famiglia mafiosa dei Messina, imperante in Porto Empedocle, come concordemente riferito dai collaboratori di giustizia (e, segnatamente, dall’ A., da Pu.Lu. e da S.P.), e la posizione eminente acquisita dallo stesso C. nell’organigramma mafioso, essendo divenuto reggente, in tempi più recenti, dell’articolazione di "Cosa Nostra" insediata in Agrigento, secondo quanto definitivamente accertato con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo in data 12 luglio 2006 (irrevocabile il 17 maggio 2007), emessa all’esito di altro procedimento denominato "Operazione ombra", depongono a favore del pur riferito avvicinamento dell’imputato alla medesima associazione criminale già al tempo dell’omicidio in esame e avvalorano, pertanto, la matrice mafiosa di esso, confortata anche dalla preordinata impunità attraverso il biglietto ferroviario che, secondo le propalazioni convergenti dei dichiaranti, i quali appresero la circostanza dallo stesso C., fu fornito all’imputato da Ca.Ca. (inteso Salvatore), altro componente di Cosa Nostra agrigentina, e, significativamente, pure proprietario dell’autovettura a bordo della quale il C. fu sorpreso, in data 26 settembre 1986, mentre tentava di attraversare il valico di Chiasso e, quindi, arrestato dopo oltre sei mesi di latitanza (sul contesto mafioso di inserimento dell’imputato fin dal tempo del delitto in esame: c.f.r. le pagine da 35, in fine, a 38 della sentenza d’appello).

L’ulteriore contraddizione denunciata, sempre con riferimento all’omicidio del Po., riguarda, da un lato, le dichiarazioni di Pu.Lu. circa il recupero, pochi giorni dopo il fatto, dell’arma utilizzata per il delitto da parte del C., accompagnato dallo stesso Pu. sul luogo di occultamento, nei pressi di una galleria stradale in contrada Caos, per disfarsene immediatamente dopo gettandola in mare, e, dall’altro lato, la provata partenza e soggiorno dell’imputato, in quello stesso periodo, presso i congiunti, in Germania.

Il contrasto, come annotato dalla Corte territoriale, non sussiste, poichè, a fronte della certezza dell’allontanamento del C. dalla Sicilia e del suo viaggio in Germania, è incerto il tempo in cui esso fu attuato (c.f.r. pag. 58 della sentenza impugnata), e ciò per la mancata prova del viaggio in treno attuato proprio dall’imputato, il 18 novembre 1985, come adeguatamente argomentato in sentenza (ibidem, pagg. 58-60); altrettanto certo, inoltre, è il ritorno del C. in Sicilia, comprovato dai contenuti di alcune conversazioni captate tra i suoi congiunti (ibidem, pp.55-58).

Ne discende la motivata attendibilità riconosciuta in sentenza al racconto del Pu., il quale colloca il prelievo e la dispersione della pistola da parte del C. alcuni giorni dopo la diffusione della notizia del ritrovamento del cadavere del Po., senza con ciò contraddire i predetti spostamenti dell’imputato tra la Sicilia e la Germania, in andata e ritorno, dei quali si ignorano i tempi precisi, e trova poderoso riscontro nell’accertato calibro 32 S&W special della pistola impiegata nel delitto, secondo quanto riferito dallo stesso Pu. e confermato dagli esiti degli espletati accertamenti balistici, nonchè nell’analogo calibro del proiettile rinvenuto, in sede autoptica, all’interno di una manica del giubbotto indossato dalla vittima, e, infine, nella riconosciuta compatibilità del suddetto calibro della pistola impiegata con i proiettili che colpirono a morte il Po. alla testa, al tronco e sul volto (c.f.r. pp. 21-22 della sentenza di primo grado col richiamo della testimonianza, sul punto, dell’ispettore capo della polizia scientifica di Palermo, Manetto, e pag. 51 della sentenza di appello).

Adeguata e coerente risposta riceve, infine, dalla Corte territoriale anche l’obiezione difensiva circa l’inverosimiglianza del racconto di un altro collaboratore, A.G., in merito all’attività estorsiva da lui compiuta in danno di un imprenditore di Santa Elisabetta, presso il quale fu accompagnato dal latitante, all’epoca, C.F., ospite nella masseria di A.G., col rischio per l’imputato di essere riconosciuto e tratto in arresto.

La Corte distrettuale ha perspicuamente osservato, al riguardo, che "il rischio costituisce il leit motiv che scandisce, ora per ora, minuto per minuto, la vita del latitante, specie quando si tratti di latitante che tragga dalla consumazione dei delitti l’unica fonte di sopravvivenza", e che, nel caso del C., "costituiva già una grossa fortuna poter beneficiare dell’ospitalità di M. G. e chiaramente non poteva rifiutarsi di fornire il proprio contributo ogniqualvolta veniva richiesto di prendere parte ad una attività criminosa" (c.f.r., testualmente, la pag. 46 della sentenza impugnata).

Alla luce di tutto quanto precede va, dunque, ribadita l’infondatezza del motivo di gravame che, attraverso la pretesa violazione delle regole di giudizio di cui all’art. 192 cod. proc. pen., denuncia la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione della prova della ritenuta responsabilità del C. quale autore dell’omicidio di P. G..

4.2.2. Passando, ora, all’ulteriore denuncia di contraddizione motivazionale in punto di ritenuta prova del concorso dell’imputato nel tentato omicidio dei fratelli G., che il C. avrebbe commesso, con premeditazione, nel corso della sua latitanza, il 14 giugno 1986, essa riguarda le dichiarazioni dei collaboratori A.G. e Pu.Lu., da un lato, e quelle di F.A., S.P. e S.D., dall’altro.

I primi hanno riferito la partecipazione del C. al tentativo di omicidio, e, in particolare, l’ A., condannato con sentenza irrevocabile per il medesimo reato, ha deposto come chiamante in correità, e Pu.Lu. come chiamante de relato, per averlo appreso dal fratello, Pu.Gi., quest’ultimo a sua volta condannato con sentenza irrevocabile come concorrente nel medesimo delitto sulla base della chiamata in correità dello stesso A.; F.A. e S.P., membri della famiglia di Porto Empedocle affiliata a "Cosa Nostra", non hanno indicato tra i componenti del gruppo di fuoco il C., pur avendo il S. riferito di aver visto l’imputato presso la masseria dei Messina in contrada Parrini di Porto Empedocle nell’estate del 1986;

lo S., infine, appartenente al contrapposto gruppo della "Stidda", ha a sua volta dichiarato di avere appreso dai fratelli G. che a partecipare all’attentato furono il V., l’ A. e Pu.Gi., senza menzionare il C..

Ciò posto, il motivo è infondato.

La sentenza impugnata, alle pagine da 60 a 69, con adeguata e logica motivazione, esamina approfonditamente gli elementi di prova a carico dell’imputato con riguardo al tentativo di omicidio in esame, costituiti, oltre che dalle dichiarazioni dell’ A. e di Pu.Lu., anche dalle chiamate in reità dei fratelli, D. G.M. e D.G.B., i quali appresero dallo stesso C. la sua partecipazione al predetto fatto.

Quanto alla mancata indicazione dell’imputato come concorrente nel medesimo delitto da parte di S.P., F.A. e S.D., essa è coerentemente giustificata dal decidente con la circostanza che i tre collaboranti, tutti dichiaranti "de relato", versavano in particolari situazioni giustificanti le loro informazioni parziali o imprecise sui componenti del gruppo di fuoco che attentò alla vita dei fratelli G. il 14 giugno 1986:

il S., all’epoca, era appena entrato a far parte della famiglia di Porto Empedocle, e le frammentarie informazioni che ricevette da V.S. (successivamente deceduto) e da Pu.Gi., concorrenti nel tentativo omicidiario, furono plausibilmente focalizzate sulla partecipazione al fatto dei soli membri della famiglia mafiosa di Porto Empedocle e, pertanto, non considerarono il C., all’epoca "avvicinato" della contigua famiglia di Agrigento e solo temporaneamente ospite della masseria di M. G.; il F., a sua volta, fu ammesso come "avvicinato" della famiglia di Porto Empedocle solo nel 1990 e conobbe il C., a lui presentato da Ca.Ca., nel 1991, donde l’informazione – da lui ricevuta prima di conoscere l’imputato – comprensibilmente limitata ai componenti del commando di Porto Empedocle che, alcuni anni prima, avevano attentato alla vita dei fratelli G., e l’Indicazione "de relato" tra essi di M.G., il quale, in effetti, avrebbe dovuto partecipare all’azione e solo all’ultimo momento fu sostituito dal C., secondo la più puntuale versione dell’ A. fondata sulla conoscenza diretta del fatto; lo S., infine, appartenente alla contrapposta consorteria della Stidda, ha riferito di avere appreso da G.L. che quest’ultimo aveva riconosciuto tra i suoi attentatori il solo V., alla guida dell’autovettura A112, pur essendo convinto che del commando facesse parte anche Pu.Gi., donde l’irrilevanza della sua dichiarazione al fine di escludere la partecipazione del C. al delitto.

Del tutto generica, infine, è la doglianza di mancati riscontri estrinseci, oggettivi e individualizzanti, delle chiamate in correità e reità dell’imputato, considerato che essi sono individuati, quanto all’omicidio del Po., nei riferiti gravi indizi aliunde emersi a carico del C., e, quanto al tentato omicidio dei fratelli G., nelle convergenti indicazioni dell’imputato come membro del gruppo di fuoco provenienti dai predetti collaboranti, A. (in via diretta) Pu.Lu. e i fratelli D.G. (in via indiretta), oltre che nella presenza, all’epoca, del latitante C. presso la masseria di M. G., riferita pure da S.P..

Ne discende che anche la confermata responsabilità penale del C. come concorrente nel tentativo di omicidio dei fratelli G. è oggetto, nella sentenza impugnata, di motivazione adeguata, coerente e logica, e, pertanto, resta immune dalle censure ad essa mosse nei ricorsi in esame.

5. L’avvocato E. Quattrocchi, nell’ultima parte del suo terzo motivo di gravame, ripropone la tesi del tentativo omicidiario impossibile, già respinta dalla Corte territoriale, per essere il mitra che avrebbe imbracciato il C. nel corso dell’aggressione contro i fratelli G., e il fucile di cui era armato l’ A., nel medesimo contesto, inidonei a sparare come rivelato dal loro inceppamento al momento del fatto.

La tesi, come correttamente ritenuto dai giudici di merito, è del tutto infondata, posto che, in fatto, la pistola di cui era armato Pu.Gi. sparò alcuni proiettili che colpirono ad un piede G.L., come da rilievi eseguiti e da rivelazioni dello Sciabica, e dovendo, in diritto, con la costante giurisprudenza di questa Corte, riaffermarsi il principio secondo cui il reato impossibile è determinato soltanto dall’assoluta e originaria inidoneità strutturale e strumentale del mezzo usato, tale da non consentire neppure in via eccezionale l’attuazione del proposito criminoso (c.f.r., tra le molte, Sez. 2, n. 7630 del 14/01/2004, dep. 23/02/2004, Argenta, Rv. 228557), ciò che è palesemente da escludere nel caso in esame.

6. Resta da esaminare la censura mossa dall’avvocato G. Gianzi, con il secondo motivo di gravame, circa la ritenuta circostanza aggravante della premeditazione con riguardo ad entrambi i delitti dei quali il C. è stato dichiarato responsabile.

La Corte territoriale avrebbe erroneamente affermato la sussistenza della predetta aggravante nell’omicidio del Po., sebbene esso fu commesso, nella stessa prospettazione accusatola, poco dopo la lite tra l’imputato e la vittima e nella concitazione da essa determinata;

altrettanto erroneamente avrebbe ravvisato la medesima aggravante nel tentativo di omicidio dei fratelli G., nonostante la circostanza, ritenuta provata dalla Corte, che il C. fu aggregato al gruppo di fuoco all’ultimo momento, in sostituzione dell’assente, M.G., che avrebbe dovuto partecipare all’azione criminosa insieme agli altri correi.

La censura è infondata.

Quanto all’omicidio del Po., i giudici di merito hanno adeguatamente affermato la sussistenza della premeditazione sulla base della individuata sussistenza di entrambi gli elementi costitutivi della medesima aggravante (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 09/01/2009, Antonucci, Rv. 241575): apprezzabile lasso di tempo (componente cronologica) tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso (il delitto avvenne in tempo e luogo diversi e distanti da quelli in cui si verificò la lite) e ferma risoluzione criminosa (componente ideologica) perdurante nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine, come attestato dalla predisposizione dei mezzi per uccidere (pistola) e dalle modalità dell’azione (attrazione con inganno della vittima in luogo isolato), senza trascurare il contesto e il riconosciuto movente anche mafioso del fatto omicidiario.

Quanto al tentativo di omicidio dei fratelli G., la circostanza che il C. fu reclutato all’ultimo momento come componente del gruppo di fuoco, in sostituzione di M. G., non esclude, secondo la corretta valutazione dei giudici di merito, la sua adesione alle ponderate motivazioni del progetto omicidiario, maturato in pieno contesto mafioso, con ampia predisposizione di uomini e mezzi (tre armati e un autista), e inteso a stroncare la pretesa del gruppo antagonista di affermare il proprio predominio sul medesimo territorio.

E ciò è, senz’altro, sufficiente per ritenere sussistente anche nel C. l’aggravante della premeditazione, in adesione alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la circostanza aggravante della premeditazione si estende al concorrente nel reato quando risulti provata la conoscenza effettiva e la volontà adesiva al progetto da parte di costui, cosicchè egli faccia propria la particolare intensità dell’altrui dolo (c.f.r., tra tutte, Sez. 5, n. 4977 del 08/10/2009, dep. 08/02/2010, Finocchiaro, Rv. 245581).

7. In conclusione, l’infondatezza di tutti i motivi dei distinti ricorsi proposti dai difensori dell’imputato determina il loro rigetto e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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