Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-02-2012, n. 2059 Alimenti e mantenimento Fedeltà coniugale Separazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La controversia ha ad oggetto la separazione personale dei coniugi P.R. e T.G., pronunciata sul ricorso proposto dal primo al Tribunale di Foggia nel 2002. La Corte d’appello di Bari, con sentenza in data 2 febbraio 2010, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva addebitato la separazione al marito, per aver questi abbandonato la casa coniugale e instaurato una convivenza more uxorio con altra donna; ha attribuito alla moglie un assegno per il suo mantenimento, e un assegno per il mantenimento della figlia V., maggiorenne ma non economicamente autosufficiente.

2. Per la cassazione della sentenza, ricorre l’avvocato P. per quattro motivi.

Resiste l’avvocato T.G. con controricorso e con memoria.

Motivi della decisione

3. La controricorrente eccepisce la tardività del ricorso, notificatole il 28 aprile 2010, dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, avvenuta il 19 febbraio 2010, sebbene la notificazione fosse stata richiesta dalla controparte prima della scadenza del termine. Sostiene che la giurisprudenza affermatasi con le sentenze Corte cost. n. 477/2002 e n. 28 del 2004, della scissione degli effetti della notificazione riguardo al notificante (dalla consegna all’ufficiale giudiziario o alla posta) e al notificatario (dal ricevimento dell’atto) non potrebbe trovare applicazione se non quando per il destinatario sia ininfluente il momento della consegna, e non anche quando il destinatario ne riceva danno sotto il profilo della certezza dei suoi diritti derivanti dalla sentenza già pronunciata, e della rimozione dell’impedimento – scaduto il termine d’impugnazione – all’esercizio di essi, o di altre facoltà processuali e poteri sostanziali nascenti dal giudicato. La scissione degli effetti della notificazione produrrebbe la conseguenza che non v’è più un termine entro il quale il destinatario possa ricevere la comunicazione, stante l’impossibilità di prevedere la durata dell’eventuale ritardo del servizio postale o dello stesso ufficiale giudiziario nella consegna del plico. Il termine decadenziale d’impugnazione sarebbe in tal modo vanificato.

3.1. La serrata argomentazione svolta nel controricorso dimostra senza dubbio che il sistema vigente presenta alcuni inconvenienti.

Esso è il risultato di un bilanciamento di interessi contrapposti.

Da un lato v’è quello del notificante a conoscere con esattezza il termine al quale è sottoposto, a pena di decadenza, l’esercizio del suo potere garantito dall’art. 24 Cost., nonchè quello dello stesso notificatario a disporre del tempo stabilito dalla legge per apprestare le sue difese, anch’esso garantito dalla medesima disposizione costituzionale; dall’altro v’è l’ulteriore interesse del destinatario della notificazione a conoscere in tempo reale la sua situazione giuridica, e questo interesse rimane subordinato ai primi. Ora, la Corte costituzionale, alla quale è riservato il compito di scrutinare la legittimità costituzionale delle norme di legge, sintetizzando le ragioni della sua decisione, ha affermato che gli artt. 3 e 24 Cost. impongono che le garanzie di conoscibilità dell’atto, da parte del destinatario, si coordinino con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso. Richiamando poi un suo precedente (sentenza n. 69 del 1994) la medesima corte ha individuato come soluzione costituzionalmente obbligata della questione sottoposta al suo esame quella desumibile dal principio della sufficienza del compimento delle sole formalità che non sfuggono alla disponibilità del notificante (Corte cost. sentenza n. 477 del 2002). A fronte di questi argomenti non vale opporre che la soluzione adottata pregiudica altri interessi – qual è in particolare quello della parte destinataria della notificazione di un’impugnazione, sottoposta a termine decadenziale, di conoscere in tempo reale l’avvenuto passaggio della sentenza in cosa giudicata – che non sono presidiati da garanzie di pari valore.

4. Con il primo motivo, per violazione o falsa applicazione degli artt. 143 e 151 c.c., il ricorrente si duole che la separazione sia stata a lui addebitata per violazione dell’obbligo di fedeltà, avendo egli intrapreso una convivenza more uxorio con altra donna dal marzo 1999, qualche anno prima dell’inizio della causa di separazione. Richiama, a questo proposito, la giurisprudenza di questa corte, che ha affermato la necessità, per la pronuncia di addebito, di un accertamento non limitato ai comportamenti tenuti in violazione dei doveri che derivano dal matrimonio, ma esteso all’incidenza di questi sulla crisi del matrimonio. Sostiene la necessità che alla prova dell’infedeltà si accompagni la rigorosa prova del nesso causale sulla rottura dell’unione coniugale.

Il ricorrente propone da ultimo, con riferimento al vizio di motivazione, una personale interpretazione di un documento di causa in contrasto con quella del giudice di merito, e lamenta l’omessa considerazione di un elemento di fatto che dalla sentenza non emerge, e che non precisa quando e in quale atto del processo sarebbe stato fatto valere. Questioni, entrambe, estranee al sindacato di questa corte di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e come tali inammissibili.

La censura di violazione di norme di diritto è infondata, richiamandosi ad una giurisprudenza di questa corte che, laddove non lo contraddice, non è pertinente alla fattispecie di causa.

4.1. E’ opportuno premettere che, nonostante qualche imprecisione rinvenibile occasionalmente in giurisprudenza (Cass. 27 giugno 2006 n. 14840, influenzata dall’inesatta massimazione di Cass. 11 giugno 2005 n. 12383), il fondamento della separazione personale dei coniugi è costituito dall’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c., comma 1), e non già dalla "irreversibile" crisi della comunione spirituale e materiale dei coniugi (presupposto invece della pronuncia di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio: L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 1). Ora, l’art. 151 cpv. c.c. stabilisce che il giudice, pronunciando sulla separazione, dichiara, ove ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (o il grave pregiudizio che questa comporta all’educazione della prole), in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri del matrimonio.

Occupandosi di fattispecie simili a quella oggetto del presente ricorso, questa corte ha ripetutamente affermato che, in tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile (Cass. 12 aprile 2006 n. 8512; 12 giugno 2006 n. 13592; 19 settembre 2006 n. 20256; 7 dicembre 2007 n. 25618; Cass. 8512/2006 e 25618/2007 sono espressamente richiamate – nella parte in cui affermano che la violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, particolarmente grave in quanto di regola rende intollerabile la prosecuzione della convivenza, giustifica ex se l’addebito della separazione al coniuge responsabile – in motivazione dalla più recente e conforme Cass. 14 ottobre 2010 n. 21245, non massimata).

Da queste premesse deriva che sulla parte, la quale richieda l’addebito della separazione all’altro coniuge, grava l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento di questi ai doveri che derivano dal matrimonio, e sia l’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (su queste affermazioni di principio, in genere, cfr.

Cass. 27 giugno 2006 n. 14840; 11 giugno 2005 n. 12383); ma che, laddove la ragione dell’addebito sia costituita dall’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile, sicchè, da un lato, la parte che lo ha allegato ha interamente assolto l’onere della prova per la parte su di lei gravante, e dall’altro la sentenza che su tale premessa fonda la pronuncia di addebito è sufficientemente motivata.

E’ poi altrettanto vero che questa corte ha costantemente chiarito (v., oltre alle sentenze già citate, Cass. 20 aprile 2011 n. 9074) che la regola appena ricordata viene meno quando si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. In tal caso trovano peraltro applicazione le comuni regole in tema di onere della prova, per cui (art. 2967 cpv.) chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda (nella specie, dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza) deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà. E’ di conseguenza contraria ai principi generali in tema di onere della prova, oltre che alla logica e al comune buon senso, la tesi che sulla parte che allega un fatto del quale sia riconosciuta, in via generale, l’idoneità a determinare l’intollerabilità della convivenza gravi l’onere ulteriore, di dimostrare che la prosecuzione della convivenza non fosse già in precedenza intollerabile; e ciò perchè le prove non possono avere ad oggetto delle valutazioni giuridiche (qual è la precedente "non intollerabilità" della convivenza), ma solo dei fatti, e perchè questi fatti, se contrari a quelli posti a fondamento della domanda di addebito, devono essere allegati e provati da chi resista alla domanda medesima, non occorrendo al riguardo neppure richiamare la vecchia tesi dell’inammissibilità della prova negativa.

Non costituiscono precedenti contrari alle conclusioni appena esposte le sentenze di questa corte 11 giugno 2005 n. 12383 e 27 giugno 2006 n. 14840, le quali affermano che la dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che la crisi coniugale sia ricollegabile "esclusivamente" al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, ovverosia, coitì è del resto contestualmente precisato, che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della ulteriore convivenza. Nel primo caso, il giudice di merito aveva svolto un esame di tutti gli elementi della fattispecie emersi nel corso del giudizio, pervenendo ad escludere che nel caso concreto i comportamenti contrari ai doveri del matrimonio tenuti dal marito fossero stati la causa della crisi familiare, con una motivazione in fatto che la ricorrente – per aver confuso il piano della valutazione dei comportamenti con quello della loro efficienza causale – non aveva adeguatamente censurato. Nel secondo caso il giudice di merito aveva escluso, anche qui con accertamento in fatto giudicato dalla corte di legittimità esente da vizi, che fossero stati provati dei comportamenti contrari ai doveri derivanti dal matrimonio che avessero determinato la disgregazione familiare, affermando che dalla lettura degli atti di causa si coglieva solo una diversità morfologica, intellettuale, sensibile delle diverse nature dei coniugi (dal ricorrente erano state allegate, in particolare, turbe psichiche e caratteriali della moglie, le quali peraltro potrebbero in astratto rilevare soltanto per i comportamenti ai quali abbiano dato luogo, nonchè comportamenti quali il rifiuto di liberarsi della convivenza con la famiglia di origine o infamanti denunce contro il marito ed il suocero). Nella fattispecie in esame, invece, la corte non ha accertato elementi idonei a retrodatare la crisi a data anteriore all’infedeltà del marito.

La denunciata violazione degli artt. 143 e 151 c.c., nell’impugnata sentenza, deve dunque essere esclusa in base al principio che, in tema di addebito della separazione personale, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, mentre i fatti che escludono il nesso di causalità tra la violazione accertata e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, ove non emergano dagli atti del processo, devono essere allegati, e occorrendo provati dalla parte che resiste alla domanda di addebito della separazione.

4.2. Nella fattispecie accertata dai giudici di merito v’è, tuttavia, un ulteriore elemento che merita distinta considerazione, convalidando in modo ancor più radicale la correttezza della decisione. E’ stato accertato, infatti, ed è anzi pacifico in causa, che il marito aveva abbandonato il domicilio coniugale già anni prima dell’inizio della causa di separazione, per instaurare una relazione more uxorio con altra donna. Non può sfuggire che nella valutazione delle cause della crisi della famiglia l’abbandono del domicilio coniugale, se volontario, unilaterale e definitivo come nella fattispecie, presenta un profilo del tutto speciale in relazione all’art. 151 cpv. c.c..

La violazione dell’obbligo di coabitazione (art. 143 cpv. c.c.) non si connota, infatti, soltanto per la sua particolare gravità, comportando la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuti di tornarvi (art. 146 c.c., comma 1: il dovere di assistenza ha un ruolo centrale nell’economia della solidarietà matrimoniale). Essa, piuttosto, non si lascia ridurre al rango delle altre violazioni cui fa riferimento l’art. 151 cpv. c.c., non essendo predicabile per essa, come conseguenza, l’intollerabilità della prosecuzione di una convivenza, alla quale essa pone invece direttamente fine, in forza di una decisione unilaterale. Per questa ragione, l’abbandono del domicilio coniugale ha sempre ricevuto, nel codice civile e nella giurisprudenza, una considerazione speciale nell’accertamento delle condizioni della separazione personale.

Vero è che, anche fuori dell’ipotesi di separazione consensuale di fatto, la decisione unilaterale di interrompere la coabitazione può avere gravi giustificazioni, non sempre facili da dimostrare. La Novella del 9 maggio 1975 n. 171 ha affrontato anche questo tema, integrando la disciplina dell’art. 146 c.c. con l’espressa previsione che la proposizione della domanda di separazione costituisce giusta causa dell’allontanamento dalla residenza familiare. La norma legittima in tal modo un comportamento in precedenza giudicato di regola illecito, perchè in violazione dell’art. 143 c.c., e consente al coniuge che giudichi anche solo soggettivamente intollerabile la prosecuzione della convivenza di sottrarsi ad essa con decisione unilaterale, all’unica condizione di proporre la domanda di separazione. Ma tale agevolazione comporta, con riferimento al tema che qui interessa, conseguenze di rilievo nel caso in cui, immotivatamente, quella condizione non sia stata soddisfatta.

La norma citata comporta, infatti, il principio di diritto, anche da solo idoneo a definire la controversia in esame, in forza del quale il coniuge, il quale provi che l’altro ha volontariamente e definitivamente abbandonato la residenza familiare senza aver proposto domanda di separazione personale, non deve ulteriormente provare l’incidenza causale di quel comportamento illecito sulla crisi del matrimonio, implicando esso la cessazione della convivenza e degli obblighi ad essa connaturati, e gravando sull’altra parte l’onere di offrire la prova contraria, che quel comportamento fosse giustificato dalla preesistenza di una situazione d’intollerabilità della coabitazione, nonostante l’assenza della giusta causa prevista dall’art. 146 cpv. c.c..

5. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 156 c.c. perchè, quantificando l’assegno, la corte territoriale avrebbe omesso di considerare e dare il giusto rilievo al quadro probatorio, dal quale sarebbe emerso che il patrimonio della T. è cospicuo almeno quanto quello del P..

Il motivo, anche formalmente svolto come censura alla valutazione delle prove raccolte in corso di causa, verte sul merito della decisione ed è inammissibile nel presente giudizio di legittimità. 6. Con il terzo motivo si censura la violazione dell’art. 155 c.c. nella determinazione dell’importo dell’assegno per la figlia V., che avrebbe posto a carico del ricorrente l’intero mantenimento della figlia, senza considerare il concorrente dovere della madre, in relazione ai suoi mezzi.

Il motivo è generico ed inammissibile. Il ricorrente non indica gli elementi sui quali poggerebbe l’assunto di fatto, che la corte di merito avrebbe interamente dispensato la madre dall’onere di contribuire al mantenimento della figlia con lei convivente.

Un’affermazione di questo tipo, idonea a giustificare la censura di violazione della norma invocata, non si rinviene nel corpo della motivazione.

7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., dolendosi di essere stato condannato, nel doppio grado di giudizio, al pagamento delle spese di lite, sebbene anche le domande della controparte fossero state in larga parte rigettate, e sostiene che, in presenza di soccombenza reciproca, le spese dovevano essere compensate.

Il motivo è infondato. La reciproca soccombenza consente al giudice di disporre la compensazione, totale o parziale, delle spese del giudizio nell’esercizio di un potere che ha natura essenzialmente discrezionale, e il cui mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità. Nella fattispecie il mancato esercizio di tale potere discrezionale è agevolmente ricavabile dalla lettura integrale della sentenza, ed è in manifesta relazione con la ritenuta prevalente soccombenza dell’odierno ricorrente, specialmente sul punto dell’addebito della separazione.

8. In conclusione il ricorso deve essere respinto. Le spese del giudizio sono a carico della parte soccombente, e sono liquidate come in dispositivo.

Non si ravvisano i presupposti – proposizione del ricorso anche solo con colpa grave – per l’applicazione dell’art. 385 c.p.c., comma 4, nel testo applicabile ratione temporis, come richiesto dal Procuratore generale in udienza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.500,00, di cui Euro 2.300,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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