Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-09-2011) 29-09-2011, n. 35393

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

R.V.A. è indagato insieme ad A.A. M. e G.P. per il delitto di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies e sette della L. n. 203 del 1991, per avere attribuito fittiziamente la titolarità delle quote di partecipazione del A., relative alle società AGROSI’ Sas e GR LOGISTIC SRL esclusivamente in capo a R.V.A. e al G.; ciò al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali e di agevolare la commissione di delitti di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p., con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’associazione per delinquere di stampo mafioso contestata al capo A dell’imputazione. Fatti commessi in (OMISSIS).

Il gip presso il tribunale di Catania, con ordinanza in data 22 ottobre 2010, ha applicato al ricorrente la misura della custodia cautelare in carcere; contro la predetta ordinanza ha proposto impugnazione il R.V.A. svolgendo quattro motivi di ricorso:

con il primo motivo si deduce manifesta illogicità, contraddittorietà e mancanza della motivazione in ordine alla sussistenza della fattispecie di reato contestata, nonchè l’errata interpretazione della L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la mancanza di motivazione e l’errata interpretazione della norma contenuta nell’articolo sette della L. n. 203 del 1991, posto che l’aggravante in questione non è configurabile quando non venga offerto un contributo alla consorteria criminale nel suo complesso, ma solo ad un singolo ipotetico associato. Il ricorrente si duole poi del fatto che il motivazione non è indicato alcun elemento dal quale possa desumersi il dolo specifico, rappresentato dall’aver agito al fine preciso di favorire l’attività di un’associazione di tipo mafioso riconducibile in qualche maniera al coindagato A.; ne sarebbe stata provata la consapevolezza del R. circa l’esistenza di cointeressenze fra l’ A.A. ed il fratello V. ed altri affiliati appartenente le diverse consorterie mafiose.

Con il terzo motivo di ricorso, si censura l’attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia D.F.U., la cui natura di teste de relato avrebbe comportato una verifica puntuale e rigorosa delle sue dichiarazioni.

Con l’ultimo motivo di ricorso si eccepisce l’omessa motivazione in relazione alla perdurante attualità dell’esigenza di mantenere la custodia cautelare su cui, secondo ricorrente i giudici del riesame non avrebbero speso alcuna parola. Secondo il ricorrente, poichè le quote societarie sono sottoposte a sequestro non è possibile per l’indagato reiterare i reati di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, unica ipotesi di reato contestata al ricorrente; inoltre, poichè il tribunale del riesame di Catania ha riconosciuto all’ A. la figura di socio paritario con il R., attribuendo ai coindagati la proprietà di un terzo delle quote, ne risulterebbe, secondo la difesa, una minore pericolosità della condotta del R..

Per i motivi esposti il ricorrente chiede l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con le conseguenti statuizioni.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto la manifesta illogicità, contraddittorietà e mancanza della motivazione in ordine alla sussistenza della fattispecie di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies e la sua errata interpretazione; in particolare il tribunale non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che l’ A. ricopriva nelle società un ruolo dirigenziale, quale responsabile degli acquisti, con un elevato potere decisionale, dovuto alla comprovata esperienza nel settore e dal consolidato rapporto di amicizia e di fiducia con il R.. Il tribunale, poi, non avrebbe tenuto in alcun conto il fatto che gli importi necessari per comprare l’azienda del F. provenivano esclusivamente dal G. e dal R..

Contrariamente a quanto affermato nel ricorso, si rileva che nel provvedimento impugnato vi è ampia, logica e coerente motivazione sul punto; il tribunale del riesame ha preliminarmente ricostruito, in una visione d’insieme, il ruolo dell’ A. nell’ambito della consorteria mafiosa facente capo alla famiglia S., anche con riferimento alla motivazione e alle prove richiamate nell’ordinanza del gip di Catania, evidenziando che solo una valutazione unitaria degli atti d’indagine permette di comprendere compiutamente il valore ascritto alla condotta dell’indagato, anche con riferimento al dolo specifico del reato contestato e dell’aggravante di cui all’art. 7.

Dopo una lunga ed articolata premessa, il tribunale ha affrontato motivatamente le varie questioni ancora oggi prospettate dal ricorrente; con riferimento al primo motivo, attinente alla fattispecie di reato contestata, il tribunale di Catania, in conformità con la giurisprudenza di questa corte, ha precisato che il reato contestato costituisce una fattispecie a forma libera comprensiva di qualsiasi operazione che comporti in concreto una volontaria attribuzione fittizia di beni, caratterizzata dalla specifica finalizzazione fraudolenta normativamente tipizzata, senza che assuma particolare rilevanza che la fittizietà sia assoluta o anche solo partecipativa (che si ha nel caso in cui il mafioso partecipa, senza assumere un dominio assoluto, con altri all’attività economica di riferimento, dando luogo a società di fatto occulte schermate da finte imprese individuali). Pertanto, indipendentemente dalle categorie e del valore giuridico degli atti formali, il tribunale ha ritenuto determinante il riscontro di una sostanziale divaricazione tra il potere di fatto sul bene (impresa) e la titolarità formale dello stesso; sulla base di tali considerazioni, ha ritenuto la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico del R. sia in virtù dei rapporti tra costui e l’ A. (nonchè di quest’ultimo con il fratello V., affiliato con ruolo operativo determinante nell’ambito del clan Santapaola), sia per il potere di fatto che ha esercitato l’ A. in ambito societario, manifestato non solo dall’autonomia di gestione, dall’ingerenza negli atti di acquisizione dell’azienda e negli altri atti rilevanti per la vita della società (senza dimenticare il ruolo svolto dall’ A. in Primefuit, società che di fatto continuò nella nuova Agrosi Sas; si veda la pagina 11, ultimo capoverso, della sentenza, nonchè le conversazioni indicate alle pagine 13 e 14, con gli stralci riportati), ma anche per avere organizzato e gestito nei locali della società plurimi incontri tra soggetti di rilievo della consorteria mafiosa (il che – cfr. pag. 16 della sentenza – vale ad un tempo a qualificare la sua condotta i fini della sussistenza del reato contestato, nonchè per l’esistenza dell’aggravante associativa secondo motivo di ricorso, pur esso, dunque, infondato, essendo il comportamento tenuto dal R. indirettamente rivolto, per il tramite dell’ A., a favorire non quest’ultimo solamente ma l’intera consorteria criminale di cui egli fa parte, svolgendo un ruolo di collegamento tra il clan è il mondo imprenditoriale).

Anche sul pagamento della società vi è congrua motivazione, avendo il tribunale correttamente argomentato, sulla considerazione (non apodittica, ma fondata sugli elementi complessivamente emersi dall’inchiesta, in una visione generale dei fatti) che nella prassi si riscontrano spesso fenomeni partecipativi nei quali l’esponente mafioso non apporta all’ente comune consistenze suscettibili di immediata valutazione economica, ma si limita a garantire al consorzio vantaggi connessi alla riconducibilità della sua figura nel mondo criminale e associativo di tipo mafioso, nell’ottica dell’inserimento del mantenimento dell’impresa all’interno del mercato. Tale affermazione e poi rafforzata da una considerazione di ordine logico, assolutamente condivisibile, secondo cui in considerazione dell’evidente traccia abilità dei flussi finanziari, il socio o imprenditore occulto evidentemente non ricorre a trasferimenti diretti di denaro ma li mette a disposizione, con modalità non facilmente rintracciabili, del socio apparente, ovvero conferisce il suo apporto mediante utilità differenti da quelle ordinarie(sono le modalità di cui al periodo precedente).

Con il terzo motivo di ricorso viene censurata l’attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia D.F.U., ma si tratta di una valutazione di merito che, se correttamente effettuata, sfugge al controllo di questa corte; anche su questo punto il tribunale di Catania ha correttamente motivato, con valutazione non censurabile in questa sede, ritenendo che l’attendibilità del collaboratore, pur riferita a un periodo antecedente ai fatti per cui si procede e quindi privo di rilevanza diretta nel presente procedimento (cfr. pag. 5 della sentenza), è tuttavia confermata dalla coerenza con quanto esposto riguardo al ruolo dell’ A. emergente dal materiale di indagine (oggetto della lunga premessa in fatto della sentenza).

Con l’ultimo motivo di ricorso si eccepisce l’omessa motivazione in relazione alla perdurante attualità dell’esigenza di mantenere la custodia cautelare, ma ancora una volta si deve rilevare che la sentenza motiva in modo specifico sulla esistenza delle esigenze cautelari, richiamando l’operatività della doppia presunzione di legge in ordine non solo alla sussistenza delle esigenze cautelari, ma anche all’adeguatezza della misura adottata, secondo quanto previsto dall’art. 275 c.p.p., comma 3 e art. 51 c.p.p., comma 3 bis.

Per i motivi esposti, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente alle spese.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali; manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *