Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 20-07-2011) 29-09-2011, n. 35566

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. P.P. ricorre per cassazione avverso la decisione sopra indicata che ha confermato la sentenza emessa il 16 gennaio 2009, con cui il Tribunale di Salerno l’aveva condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e quattro mesi di reclusione, con interdizione dai pubblici uffici e dalla professione per pari periodo, per il reato di falsa perizia ( art. 373 cod. pen.).

2. I giudici di merito hanno accertato e ritenuto che l’imputata, in qualità di consulente tecnico d’ufficio nella causa civile tra il committente M.G. e il falegname S.A. (controversia avente ad oggetto l’esatto adempimento da parte del secondo nella realizzazione di lavori di falegnameria), affermò fatti non conformi al vero nella consulenza depositata il 4 febbraio 2004.

Motivi della decisione

1. La ricorrente deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), e art. 546 c.p.p., vizio di motivazione della sentenza, in relazione alle affermazioni usate nella relazione di consulenza tecnica d’ufficio ritenute mendaci.

2. I predetti motivi sono, per un verso, manifestamente infondati e, per altro verso, inammissibili perchè si concretano in censura di fatto agli apprezzamenti e alle valutazioni espresse dai giudici di merito.

2.1. E’ manifestamente infondata la doglianza con cui si lamenta che il giudice d’appello, adottando una motivazione per relationem, ha omesso di adempiere il suo obbligo motivazionale.

In proposito, è stato più volte affermato da questa Corte che, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo, sicchè è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado colmare eventuali lacune della sentenza di appello.

Sul punto si è precisato che l’ambito della necessaria, autonoma motivazione del giudice d’appello risulta segnato dalla qualità e dalla consistenza delle censure rivolte dall’appellante. Se questi si limita, come nel caso in esame, alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte da primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati (v., tra le tante, Cass. n. 24252/2010; n. 38824/2008, Raso; n. 6221/2006, Aglieri).

2.2. Si risolvono in inammissibili censure di merito agli apprezzamenti e alle valutazioni di fatto, motivatamente espresse dai giudici d’appello, le doglianze concernenti le espressioni usate (intarsio, legno massello di ciliegio, legno ciliegio multistrato o listillato d’abete etc.) e analizzate ai fini dell’accertamento di responsabilità dell’imputata.

2.3. Del tutto irrilevante poi, ai fini della responsabilità della P., è che la causa civile tra il M. e il S. si sia conclusa "non già con la soccombenza del falegname convenuto, bensì con un accordo tra le parti ed il riconoscimento di una cifra da versare per il committente-attore al falegname-convenuto". 3. Del tutto privo di rilevanza è l’ultima censura, con cui la ricorrente lamenta, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), un’asserita incertezza del termine per il deposito della motivazione della sentenza impugnata, termine da cui decorre quello per impugnare.

Nel momento in cui l’impugnazione proposta è stata ritenuta tempestiva, diventa irrilevante, ai fini del rispetto dei diritti della difesa, ogni questione relativa al termine di deposito della sentenza (peraltro avvenuto regolarmente).

4. All’inammissibilità segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria, che si ritiene adeguato determinare nella somma di 1.000 Euro, in relazione alla natura delle questioni dedotte.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di 1.000 (mille) Euro in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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