Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 19-07-2011) 29-09-2011, n. 35407 Responsabilità del medico e dell’esercente professioni sanitarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.E. e C.F. ricorrono in cassazione avverso la sentenza, in data 24.05.2010, della Corte d’Appello di Roma che, in riforma della sentenza di assoluzione emessa in loro favore dal Tribunale di Viterbo il 3.11.2004, appellata dal Procuratore della Repubblica e dalle parti civili, in ordine al delitto di cui agli artt. 113 e 589 cod. pen., previa concessione delle attenuanti generiche, ha dichiarato n.d.p. nei loro confronti per essere il reato ascritto estinto per prescrizione, condannandoli in solido al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili. Ricorrono in cassazione ai soli fini civili, avverso la stessa sentenza, anche le costituite parti civili in riferimento alla posizione processuale di S.D., coimputato, la cui assoluzione in primo grado è stata confermata in appello.

Il fatto addebitato agli imputati è ben descritto nel capo d’imputazione: perchè, cooperando tra di loro nelle rispettive qualità: il P., di medico di guardia presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale (OMISSIS) nei giorni 19-21-26 gennaio 1998, il C., di medico di guardia presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Viterbo nei giorni 23 e 30 gennaio 1998, il S., di medico di guardia presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale (OMISSIS) il giorno 28 gennaio 1998, il Ca. (non ricorrente n.d.r.), di medico di guardia presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale (OMISSIS) il giorno 2 febbraio 1998, si occupavano del paziente T.V., in cura presso il reparto di cui sopra a far data dall’11 gennaio 1998 a seguito di "ferita lacero-contusa collo piede sinistro" (come da diagnosi redatta in data 11 gennaio 1998 dal dr. S.B. del Pronto Soccorso dell’Ospedale (OMISSIS)), il quale, malgrado le cure praticate, decedeva in data 2 febbraio 1998 presso l’Ospedale di (OMISSIS), ove era stato trasferito in pari data per "embolia polmonare massiva in soggetto con una ferita lacero contusa al collo piede sinistro in via di riparazione"; avendo commesso il fatto per colpa e cioè per imprudenza, imperizia e negligenza, in particolare per avere: a) il P., il C., il S., omesso di procedere ad accurata e diretta visita il T. per verificare le condizioni dell’arto infortunato, così non percependo la sussistenza di sintomatologia (gonfiore esteso a tutto l’arto inferiore sinistro ed anche al piede sinistro, colorito bluastro dell’arto e del piede sinistro, dolenzia diffusa, insorgenza di crampi al polpaccio sinistro) che avrebbe potuto far formulare una corretta diagnosi di "trombosi venosa profonda" e, di conseguenza, far prescrivere una terapia anticoagulante anche in presenza di ferita che non guariva "per prima intenzione….".

Il Tribunale perveniva all’assoluzione degli imputati ricorrenti e del S. rilevando che l’accertamento in fatto difettava dei necessari elementi di valutazione, in quanto la diagnosi di flebite in atto non risultava nè dal reperto necroscopico, nè dall’autopsia. In particolare, si evidenziava che, all’esito dell’incidente probatorio, era emerso, con giudizio di alta probabilità, che l’embolo (origine della trombosi venosa profonda) avesse avuto inizio dai vasi profondi della gamba ferita, ma che, all’esito dell’autopsia, il punto da cui era partito l’embolo non era stato ricercato. Tale giudizio negativo sull’accertamento era stato confermato dai periti i quali avevano anche affermato che, in punto di accertamento del nesso causale, la somministrazione di anticoagulanti della trombosi venosa profonda non risulta efficace nel 30% dei casi. Dunque, il Tribunale, sulla base di tali risultanze, concludeva che non poteva certo affermarsi che la causa della morte fosse da ascrivere alla trombo flebite della ferita, tenuto conto che, ove tale patologia fosse stata diagnosticata e fronteggiata con rimedi terapeutici, comunque, vi sarebbe stato un rischio di inefficacia della risposta terapeutica pari alla percentuale indicata dai periti; non vi era certezza ma solo la probabilità che il trombo avesse avuto origine dall’arto ferito, cosicchè ogni canone interpretativo sulla rilevanza della condotta omissiva come condizione dell’evento non era "supportata da probabilità logica". Quanto alla posizione dell’imputato C., indicato quale sanitario cui era riferibile il rilascio del certificato del 23.01.98, in quanto aveva ritenuto non provato che il sanitario in quella data avesse visitato il paziente, essendo emerso, da una parte, che il protocollo informatizzato contemplava uno schema un cui la stampa della visita medica avveniva prima della effettiva prestazione erogata e, d’altra parte, che tale ricostruzione era avallata dalla prova per testi in quanto, se era stato affermato dalla moglie del deceduto che era stato proprio il primario della struttura ospedaliera a consigliare al T. di camminare con le stampelle poggiando il piede per terra, è plausibile che il medico che firmò il certificato il 23.01.98, non fosse in realtà colui che effettivamente lo aveva visitato.

La Corte d’Appello ha ritenuto fondati i gravami di merito limitatamente alle posizioni di P. e del C.. In ordine alla posizione del S. ha confermato la sentenza di assoluzione, con la formula perchè il fatto non costituisce reato, ritenendo che il suo apporto omissivo è intervenuto in una fase successiva alla condotta addebitata ai correi, conseguentemente, con riferimento alla condotta omissiva del 26.01.1998 contestata al S., ha affermato che non vi è la prova della sussistenza del nesso causale fra condotta omissiva ed evento, in quanto l’incidenza positiva della somministrazione degli anticoagulanti sarebbe stata inferiore a quella iniziale stimata dai periti pari al 70% e non avrebbe potuto essere inclusa nel canone ermeneutico dello "alto grado di probabilità logica o credibilità razionale" e mancando la prova, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di legge scientifica – universale o statistica – che la somministrazione dei presidi terapeutici dovuti, a quella data, avrebbero avuto un’efficacia impeditiva dell’evento, ovvero che esso si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Quanto alla causa della morte, la Corte Distrettuale ha evidenziato che il riscontro diagnostico effettuato sulla salma ha consentito di oggettivare una embolia polmonare massiva bilaterale che ha cagionato l’evento mortale.

Nella sostanza, un grosso e lungo embolo ematico si è posto a cavaliere della biforcazione dell’arteria polmonare verosimilmente occludendo sia il lume dell’arteria polmonare principale sia quelle dei suoi due rami e, pur in mancanza di riscontro autoptico, si può ritenere dimostrata con prova logica la tesi secondo cui la trombosi venosa profonda – derivata dalla tromboflebite superficiale – è stata causata dal distacco di un embolo dal tratto iliaco femorale dell’arto ferito.

Peraltro non sono emerse patologie alternative allo sviluppo di un embolo.

All’embolia polmonare massiva, per la rapidità dell’evento mortale, non è possibile porvi rimedio, ma la profilassi della trombosi venosa con anticoagulanti determina una riduzione sensibile della frequenza della trombo – embolia con una incidenza positiva stimata nel 70% dei casi se la profilassi interviene quando la trombosi venosa profonda è già insorta, mentre l’incidenza positiva è del 95% o anche più se gli anticoagulanti vengono somministrati quanto la flebite non si è ancora manifestata.

La circostanza che dalle certificazioni mediche indicate in rubrica, corrispondenti alle date in cui il T. si recò presso la medicheria dell’ospedale per la medicazione all’arto, non risulti che siano mai stati rilevati i segni di una trombosi profonda dell’arto interessato dalla ferita, secondo la Corte del merito, può avere solo una duplice spiegazione o che i medici non abbiamo visitato il T. o che non abbiano letto il sintomo, che pure doveva essere presente all’esame obiettivo. Ancorchè non vi sia prova dell’insorgenza temporale dei sintomi di tale patologia, essa va stimata a detta dei periti, in dieci giorni dal verificarsi della lesione.

Premesse le singolari modalità organizzative della medicheria stigmatizzate dai periti, la circostanza che i certificati possano essere stati sottoscritti dai sanitari prima della certificata sottoposizione a visita, e conseguentemente che la visita non sia avvenuta o sia avvenuta ad opera di un sanitario diverso da quello che ha sottoscritto il certificato, non elide la responsabilità per colpa degli imputati ( P. e C.) atteso che la L. – che pure afferma che non sempre le medicazioni erano accompagnate dalle visite mediche da parte dei sanitari – con riferimento al sanitario P. riferiva con chiarezza che questi ebbe a visitare il marito, fu colui che gli tolse alcuni punti e rinviò l’asportazione di altri e, nel corso di una delle ultime visite, gli consegnò un medicamento liquido trasparente per medicare la ferita, fu colui al quale il marito si rivolse perchè la gamba si era gonfiata e perchè aveva dei dolori al petto, dietro la spalla e dei bruciori di stomaco, e la deposizione della donna avalla le dichiarazioni dell’infermiere M. che, come ha riferito, procedette alle medicazioni sotto il controllo medico.

Quanto alla posizione del C., rileva la Corte Capitolina che è stata corretta la valutazione del giudicante secondo cui non sono utilizzabili le dichiarazioni autoindizianti assunte senza le garanzie difensive, mentre non si condivide l’assunto secondo cui il certificato del 30.01.98 fosse privo di sottoscrizione perchè è stata provata, mediante produzione, la sottoscrizione sul certificato rilasciato dal pronto soccorso in data 30.01.98, e, dunque, ha ritenuto con certezza (dichiarazioni della L.), con riferimento alla condotta del 23.01.98 che l’imputato, che in quella data era di turno di guardia al pronto soccorso, visitò il T..

In definitiva, per la Corte territoriale, i sanitari P. e C. ebbero modo di visitare il T. nel periodo in cui era visibile ad un esame obiettivo una sintomatologia che, tenuto conto del tempo di verificazione dell’incidente (causa della ferita alla gamba) e di evoluzione della ferita, avrebbe dovuto ingenerare il fondato sospetto di trombosi venosa profonda e determinare la somministrazione degli antiaggreganti quali rimedi terapeutici.

I ricorrenti P. e C. con atti diversi pongono a base dei ricorsi un identico motivo:

Violazione di legge e vizio di motivazione. Si eccepisce lo stravolgimento delle risultanze processuali con adesione alla tesi della parte civile circa la presenza di una tromboflebite superficiale dell’arto ferito senza alcun riscontro probatorio, ignorando tutte le prove documentali ed orali che ne escludono la presenza. In particolare si sostiene (e ciò coinvolge la posizione del S.) che la Corte territoriale, inopinatamente ed arbitrariamente, crea uno stacco temporale in ordine alle singole responsabilità. Fino al 28.01.1998 la somministrazione di eparina avrebbe impedito l’evento e da tale data in poi mancherebbe la prova della sua efficacia impeditiva, tutto ciò in contrasto con quanto affermato dai periti (pag. 35 e 36 della relazione), secondo cui prima che partono le embolie, quando la trombosi venosa non si è ancora manifestata, l’uso di anticoagulanti non risulta efficace nel 30% dei casi. Se fosse vero l’assunto della Corte di Appello si arriverebbe all’assurdo che il 26.01.1998 il P. è colpevole, mentre il 28.01.1998 il S. non lo è più solo perchè sono diminuite le probabilità di successo della terapia. In sostanza la Corte ha dato per provata, senza alcun esame critico e rigoroso delle risultanze processuali, la tesi sostenuta dalla parte civile, contrariamente a quanto affermato dai periti circa la preesistenza della tromboflebite superficiale, nè che tale patologia si possa trasformare in una trombosi venosa profonda. I sintomi di una tromboflebite superficiale sono apparsi solo il 1 febbraio e su tale circostanza non ci sono dubbi come acclarato dal perito B..

Affermare che dopo i primi giorni dall’evento si fosse formata una tromboflebite superficiale, poi trasformatasi in una trombosi profonda, non risponde nè a quanto accertato in via documentale nè a quanto sostenuto dai periti. Si contesta, poi, la valutazione dell’esame testimoniale della moglie del defunto, L., che a distanza di due mesi in termini scientifici e, quindi, non a lei congeniali, parla dei sintomi della patologia che accusava il marito, nè tali dichiarazioni sono state confermate da quelle dell’infermiere M., che anzi sono di tenore contrario. Erra quindi la Corte di Appello ad affermare che vi era stata una tromboflebite superficiale trasformatasi in una trombosi profonda.

Nel concordare con quanto affermato dai periti circa l’efficacia di una profilassi per tale tipo di patologia i ricorrenti contestano la necessità di procedervi mancando i sintomi della tromboflebite superficiale. Secondo quanto affermato dal dr. P., il T. era da considerarsi a basso rischio di trombosi perchè la ferita al piede trattata in pronto soccorso con alcuni punti di sutura non rientra tra gli interventi chirurgici maggiori, ma risulta essere un atto chirurgico minore ciò unitamente alla totale assenza di fattori di rischio per TVP (paziente non obeso, non iperteso, non diabetico…), pertanto, secondo i protocolli medici dell’epoca, non era richiesta la profilassi con l’eparina. Non c’è inoltre certezza obiettiva che l’embolo provenisse dall’arto interessato alla ferita, ben potendo venire da altri distretti. Quindi, non si può classificare come "errore medico" il non aver prescritto al T. una terapia preventiva con eparina in una situazione in cui, oltre a non essere richiesta la profilassi, non c’era nè il rischio trombotico nè altri fattori di rischio. In fatto si eccepisce, inoltre, che manca la prova che i medici del Pronto Soccorso, che hanno firmato i certificati, abbiano effettivamente visitato il T., certamente non lo visitò il C., tale contestazione è oggetto del secondo motivo del ricorso dell’imputato.

Le parti civili pongono a base del loro ricorso i seguenti motivi: 1.

Vizio di motivazione. Innanzitutto si evidenzia un dato di fatto travisato dalla Corte del merito: la condotta omissiva contestata al S. è stata tenuta in data 28.01. e non il 26.01.1998 come indicato in sentenza, e quindi a cavallo fra quelle degli imputati P. e C. poste in essere nei giorni 19-21-26 gennaio da parte del primo, nei giorni 23-30 gennaio da parte del secondo (come fonti di prova si richiamano i referti sottoscritti dagli imputati). Dunque, contrariamente a quanto assunto in motivazione, l’apporto omissivo del S. non è intervenuto in una fase successiva alla condotta contestata ai correi e pertanto deve ritenersi casualmente rilevante rispetto al decesso del T., avvenuto il 2.02.1998. Se il S., al momento della visita del 28.01.1998, avesse provveduto a diagnosticare la flebite in atto e a prescrivere la somministrazione di eparina, l’evento mortale, con una probabilità pari al 95% o forse più, non si sarebbe verificato. A conforto dell’assunto le parti civili si riportano le conclusioni delle consulenze in atti.

2. Con un secondo motivo si denuncia altro vizio di motivazione. Si premette che il reato contestato caratterizza l’istituto della cooperazione nel delitto colposo, ma la decisione impugnata omette ogni valutazione di tale aspetto. L’imputato S. rivestiva la qualità di medico di guardia responsabile del P.S. dell’Ospedale (OMISSIS) ed in tale qualità si è succeduto, in giorni diversi, alla visita del paziente T.. Ne consegue che l’imputato e gli altri colleghi hanno dato vita ad un trattamento sanitario diacronicamente plurisoggettivo e cioè una cooperazione unidisciplinare nell’attività medica espletata in modo non contestuale ed in epoca posteriore.

Il S.D., con memoria scritta, chiede dichiarasi l’inammissibilità di tutti i ricorsi per carenza del requisito della specificità. Nel ricorso delle parti civili, in particolare, vi è una ripetitività quasi ossessiva delle stesse ragioni ed argomentazioni esposte dinanzi alla Corte d’Appello.

L’inammissibilità, inoltre, deriva dalla richiesta di una rivalutazione delle fonti probatorie in sovrapposizione a quella svolta dai giudici del merito.

Con memoria tempestivamente depositata il ricorrente C., nel sostenere la sua estraneità ai fatti per non avere mai sottoposto a visita il T., nel ribadire, quindi, le argomentazioni già svolte nel ricorso, deposita alcuni atti processuali.

Anche le parti civili, con memoria tempestivamente depositata, riconfermano le argomentazioni svolte ed approfondiscono alcuni aspetti di fatto della vicenda in esame.

Motivi della decisione

Tutti i ricorsi vanno dichiarati inammissibili, quelli degli imputati perchè basati su motivi non consentiti in sede di legittimità, quello delle parti civili per carenza di interesse ai sensi dell’art. 591 c.p.p., lett. a). In ordine ai ricorsi del P. e del C. si osserva che le SS.UU. di questa corte (sentenza n. 35490 del 28.05.2009, Rv. 244275) hanno affermato il principio di diritto secondo cui in presenza di una causa di estinzione del reato (nella specie, prescrizione), non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione.

In sostanza, in presenza di una avvenuta declaratoria di improcedibiltà per intervenuta prescrizione del reato è precluso alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione. Il sindacato di legittimità circa la mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2 deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una sua pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata: qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo.

Nella richiamata sentenza delle SS.UU. è dato leggere che, per quel che riguarda il presupposto della evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato – ai fini della prevalenza della formula di proscioglimento sulla causa estintiva del reato -, in giurisprudenza è stato costantemente affermato, senza incertezze o oscillazioni di sorta, che il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, al punto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di "constatazione" (percezione ictu oculi), che a quello di "apprezzamento", incompatibile, dunque, con qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento; in altre parole, I1 "evidenza" richiesta dall’art. 129 c.p.p., comma 2, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia.

Nel caso di specie, ancorchè entrambi i ricorrenti imputati abbiano denunciato anche violazione di legge oltre che vizio di motivazione, non c’è chi non veda come i motivi addotti ineriscono tutti, anche se diversamente modulati, ad una diversa ricostruzione della vicenda e, sostanzialmente, si censura l’argomentare in punto di logica dei giudici di appello.

E’ innanzitutto da escludere che emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile, circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte degli imputati.

Nella parte narrativa sono stati riportati i punti significativi della sentenza impugnata, che, in maniera assolutamente logica, contrastano le censure e le osservazioni poste a base dei ricorsi.

Si rileva, in particolare, sul punto della non chiara diagnosi e sul ritardo della stessa, la motivazione della sentenza della Corte d’Appello, all’esito dell’analisi dei risultati peritali è estremamente convincente ed immune da vizi logici.

E pertanto, le motivazioni rese in sede di merito non meritano qui di essere sindacate per farne discendere le conseguenze pretese dai ricorrenti.

Con riferimento alla censura secondo cui i giudici dell’appello si sono appiattiti sulla tesi sostenuta dalla parte civile e dal loro consulente va riaffermato anche in questa sede, seguendosi un costante orientamento, il principio secondo il quale è devoluta al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando, in via logica, taluni mezzi di prova e disattendendone altri, a causa del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite, quanto a censurabilità in sede di legittimità, della adeguata e congrua motivazione sul criterio adottato.

Conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, nè a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti essendo sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata.

Comunque, dato di fatto ineludibile è che la mancata esatta diagnosi in tempi ragionevoli imposti dalle conoscenze che si presume abbiano dei medici addetti al pronto soccorso, con discreta esperienza lavorativa alle spalle, è dipesa esclusivamente dalla loro incapacità di effettuarla, nonostante la presenza di sintomi chiari e da quanto espresso loro dalla parte offesa e dalla moglie di questi, come, per altro, evidenziato dai periti, secondo cui in tali casi il sospetto si deve orientare nella direzione di una tromboflebite superficiale.

Quanto allo specifico profilo della responsabilità professionale dei due sanitari, la Corte Territoriale ha fornito esaustiva e convincente motivazione in linea con quanto puntualizzato dalle Sezioni unite (sentenza 10 luglio 2002, Franzese), secondo cui la verifica dell’esistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento lesivo va operata in concreto, in termini di ragionevole certezza ("alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica"), secondo tutte le circostanze che connotano il caso, e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice di "serie ed apprezzabili probabilità di successo" per l’azione impeditiva dell’evento.

I giudici dell’appello, sulla base degli accertamenti peritali, hanno evidenziato che, a fronte delle lesioni patite dal T. l’11 gennaio, il sintomo di una trombosi profonda dell’arto, oggettivabile all’esame di un sanitario, può essere comparso almeno a far data dal 21 gennaio circa e tale stima è riscontrata dalla deposizione della moglie descrittiva di una sintomatologia che peggiorava con il decorso del tempo. Inoltre, sempre in tema di accertamento del nesso causale, con riferimento al giudizio controfattuale, va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte (Sent. Franzese) chiarisce che "nulla esclude che coefficienti medio – bassi di probabilità cd. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico – legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento".

Infatti, interessa al diritto l’individuazione della condizione necessaria dell’evento e non di quella sufficiente cioè dell’insieme delle condizioni che rendono inevitabile un determinato risultato, condizione che nemmeno le leggi scientifiche sono in molte ipotesi in grado di esprimere, senza che per questo si dubiti della loro intrinseca razionalità.

Le leggi statistiche ed i correlati studi costituiscono uno strumento revisionale utile ai fini della prevenzione dei rischi ed ipotizzano un rapporto causale tra fenomeni senza che provino di per sè un nesso di causalità tra fenomeni, cioè costituiscono un indizio da poter valorizzare, insieme ad altri, nell’accertamento di detto rapporto "ex post".

Alla luce di queste osservazioni e di questi principi, la sussistenza del nesso di causalità può essere affermata o negata, oltre che sulla base di dati empirici o documentali di immediata evidenza, anche con ragionamento di deduzione logica purchè fondato su elementi di innegabile spessore correttamente esaminati secondo le "leges artis", (Cass. sez. 4 6 febbraio 2001 n. 5037 rv. 219426 cui adde Cass. sez. 4 15 novembre 2002 n. 38334 rv. 222862) e può ritenersi sussistente quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa sostenere in termini di "certezza processuale",ossia di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta omissiva a determinare l’evento lesivo, facendo riferimento, come già rilevato, secondo la citata sentenza delle sezioni unite, sia a dati statistici sia ad altro materiale probatorio.

Per tale ragione la Corte territoriale, nel prendere in esame il comportamento dei sanitari dell’Ospedale, ove la parte offesa era stata medicata ed assistita in più di un’occasione, evidenzia che gli stessi, in mancanza di una diagnosi sulla presenza di una trombosi profonda, non hanno somministrato le cure idonee (anticoagulanti) in modo tempestivo tale da evitare l’evento letale.

L’argomentazione motivazionale della sentenza impugnata, dunque, è ancorata, in riferimento alla prova del nesso causale tra il comportamento omissivo degli imputati ed il decesso del paziente, oltre che ai risultati delle indagini peritali e delle relative dichiarazioni rese dai consulenti, anche alla disamina della esclusione di processi causali alternativi da soli determinativi dell’evento.

Quanto alla specifica deduzione difensiva del C. di non aver mai sottoposto il T. a visita medica, essa involge una questione di mero fatto che si traduce in una sovrapposizione argomentativa alla motivazione sul punto della Corte distrettuale che si rivela corretta ed ancorata a dati di fatto certi.

In ordine al ricorso presentato dalle parti civili nei confronti del S. la sua inammissibilità discende dalla constatazione che non si desumono dall’atto di impugnazione, ove si è chiesta solo la riforma della decisione impugnata "a causa del proscioglimento dell’imputato", gli effetti di carattere civile che essi intendevano ottenere; per contro, emerge la ratio contenutistica di un ricorso che, puramente e semplicemente, è finalizzato al riesame nel merito della responsabilità penale. Per altro, si evidenzia che nessun interesse processuale avrebbe la parte civile ad impugnare la decisione penale quando questa manca di efficacia preclusiva, e quindi lascia libera la stessa parte civile di proseguire la sua pretesa risarcitoria nelle sedi proprie ove la formula assolutoria utilizzata dal giudice di secondo grado è quella "perchè il fatto non costituisce reato" che non esclude la rilevanza civilistica di una condotta potenzialmente produttiva di conseguenze dannose.

Dunque, si osserva che l’interesse ad impugnare – che deve tendere a un risultato pratico in rapporto alle situazioni e alle facoltà tutelate dall’ordinamento – assume un contenuto di concretezza tutte le volte in cui dalla modifica del provvedimento impugnato – da intendere nella sua lata eccezione, comprensiva anche della motivazione – possa derivare l’eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole per la parte che ne invoca il riesame. Il che rileva non solo quando l’imputato, attraverso l’impugnazione, si riprometta di conseguire effetti penali più vantaggiosi (quali ad esempio l’assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio), ma anche quando la parte civile miri ad assicurarsi conseguenze extrapenali a lei favorevoli, che possano comunque influire nel giudizio per il risarcimento danni. In particolare, non sussiste l’interesse processuale della parte civile ad impugnare la decisione con la quale l’imputato è stato prosciolto con la formula perchè il fatto non costituisce reato, perchè questa manca di efficacia preclusiva, ciò al fine di ottenere l’affermazione della responsabilità per il fatto illecito (Sez. U, Sentenza n. 40049 del 29/05/2008 Ud. Rv. 240815).

Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè alla somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè ciascuno alla somma di Euro 500,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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