Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 11-07-2011) 29-09-2011, n. 35562

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 3 marzo 2009, la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale della stessa città – che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato P.R. e J.B. responsabili dei reati di tentata rapina aggravata, di porto abusivo di arma e di ricettazione – rideterminava la pena loro inflitta in complessivi anni nove e mesi dieci di reclusione ed Euro 2.200 di multa ciascuno, ritenuti i fatti in continuazione con quelli già giudicati con sentenza dell’11 novembre 2008.

La Corte di cassazione, su ricorso degli imputati, che avevano lamentato l’erroneità del calcolo della pena con riferimento alla ritenuta continuazione, annullava la sentenza di appello "limitatamente alla determinazione della pena con riferimento al reato continuato", non risultando comprensibile le modalità di quantificazione della pena nei termini indicati nel dispositivo per entrambi gli imputati.

Con la sentenza in epigrafe, decidendo quale giudice di rinvio, la Corte di appello determinava la pena complessiva in anni sei e mesi sei di reclusione ed Euro 1.800 per ciascuno. In particolare, reputato più grave il reato già giudicato con la citata sentenza, aumentava per la continuazione la pena nella misura di anni due di reclusione ed Euro 600 di multa.

2. Avverso la suddetta sentenza, ricorrono per cassazione gli imputati, chiedendone l’annullamento con atti distinti.

P. deduce il vizio della motivazione in relazione alla mancata differenziazione delle posizioni dei due imputati, posto che dalle risultanze investigative sarebbe emerso chiaramente il ruolo assolutamente marginale dell’imputato, null’altro che una pedina nelle mani del J., tant’è che per primo decideva di porre fine all’azione criminosa, lasciandosi arrestare. Il Giudicante non avrebbe spiegato come sia pervenuto alla sua decisione, nè avrebbe motivato sulla esatta qualificazione giuridica del fatto, sulla congruità della pena e sulla mancata assoluzione.

J. lamenta il vizio della motivazione in relazione alla quantificazione della pena, in quanto la Corte non avrebbe esplicitato i criteri in base ai quali sia pervenuta all’incremento di pena. In particolare, la Corte avrebbe considerato ai fini del calcolo della pena la recidiva, già presa in esame ad altri fini.

Motivi della decisione

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Relativamente al ricorso di P., va preliminarmente osservato che, qualora venga rimessa dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la questione relativa alla determinazione della pena, il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato determina, a norma dell’art. 624 cod. proc. pen., la definitività della decisione su tali parti.

Nella specie si verte proprio in un’ipotesi specifica di annullamento parziale, con rinvio limitato esclusivamente alla sanzione da determinare, con il conseguente avvenuto passaggio in giudicato della statuizione sulla responsabilità. Pertanto, sono da ritenersi inammissibili le censure formulate dal ricorrente che investono punti della decisione (quali l’accertamento del fatto, l’attribuzione di esso all’imputato e la sua qualificazione giuridica), già irrevocabilmente decisi.

Nel contestare la logicità della motivazione concernente la quantificazione della pena, il ricorrente infatti surrettiziamente introduce argomenti tratti dagli atti di p.g. al fine di porre in discussione la ricostruzione dei fatti, come già accertata dai giudici del merito, i quali avevano escluso espressamente il carattere marginale della partecipazione dell’imputato nella consumazione dei fatti delittuosi.

Per il resto, il ricorso appare affetto da analoga inammissibilità.

Come è noto, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittali rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, qualora il giudice abbia adempiuto all’obbligo di motivazione.

Nella specie, il giudicante ha fatto corretta applicazione del proprio potere valutativo, avendo motivato le proprie determinazioni, apprezzando la concreta gravità dei reati, desunta dalle modalità esecutive (tentata rapina in un istituto di credito da parte di persone travisate, con uso di una pistola semi-automatica, oggetto di ricettazione), e la capacità a delinquere dell’imputato, desunta dalla cospicua recidiva a suo carico, e ritenendo di non dover differenziare la pena da quella degli altri coimputati, considerato l’atteggiarsi della partecipazione nei delitti oggetto di imputazione.

Pertanto, avendo correttamente e logicamente supportato il trattamento sanzionatorio con una motivazione che si fa puntuale carico di ripercorrere, attraverso la verifica dei criteri di valutazione di cui all’art. 133 cod. pen., gli aspetti oggettivi e soggettivi connotanti la vicenda in esame, offrendo anche risposta ai rilievi difensivi circa un diverso trattamento sanzionatorio riservato ad altro soggetto, devono ritenersi inammissibili le relative censure, contenenti critiche delle quali è precluso l’esame in questa sede.

3. Manifestamente infondato è il ricorso dell’imputato J..

Quanto alla doglianza sull’omessa esplicitazione dei criteri in base ai quali la Corte di merito è pervenuta all’incremento di pena, valgono le considerazioni già espresse poc’anzi. La Corte di appello ha infatti evidenziato adeguatamente gli elementi di cui ha tenuto conto nella determinazione della pena.

Nè la motivazione può dirsi contraddittoria per il fatto di aver considerato le precedenti condanne riportate. Dei precedenti penali dell’imputato ben può il giudice di merito servirsi due volte per finalità diverse e per giudizi differenziati, ossia – come nella specie – al fine di determinare la pena e l’aumento per la recidiva.

L’art. 133 c.p., comma 2, n. 2, prevede espressamente la possibilità di trarre dai precedenti penali utili elementi per la migliore individuazione della pena, per cui deve ritenersi pienamente legittimo per il giudice fare riferimento agli stessi per l’espressione di due autonomi giudizi: la determinazione della pena base da infliggere per il reato e la determinazione dell’aumento di pena per la recidiva.

Quest’ultima, infatti, quando la contestazione concerna – come nel caso in esame – una delle ipotesi di recidiva facoltativa contemplate dall’art. 99 cod. pen., comporta che il giudice verifichi in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionante della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.

3. All’inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e di una somma ciascuno in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000.

P.Q.M.

Dichiara i ricorsi inammissibili e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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