T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 22-10-2011, n. 8135 Legittimità o illegittimità dell’atto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ricorso notificato in data 26 gennaio 2011 e depositato il successivo 27 gennaio il sig. C.A.L.C. ha impugnato, tra l’altro, il provvedimento del 25 novembre 2010 del Segretario Generale della Federazione Italiana Pallacanestro, con il quale è stata rigettata la sua istanza volta ad ottenere il tesseramento nella stessa Federazione quale atleta italiano ad ogni effetto.

Espone, in fatto, di essere cittadino italiano figlio di cittadini italiani e di aver vissuto i primi anni di vita in Italia. A seguito del divorzio dei genitori, avvenuto quando aveva quattro anni, gli è stato imposto dal giudice americano di vivere negli Stati Uniti sino alla maggiore età. Divenuto maggiorenne è tornato in Italia per essere tesserato come atleta italiano. Con il provvedimento impugnato la sua richiesta è stata respinta per carenza di uno dei due requisiti necessari, e cioè l’essersi formato tecnicamente in Italia. Assume quindi di essere stato illegittimamente equiparato ad uno straniero extracomunitario o a un neocomunitario o a un "passaportato" (termine che nel basket identifica giocatori di origine extracomunitaria, ma che hanno ottenuto il passaporto italiano, solo per giocare in Italia, per matrimonio o perché nipoti o figli di emigranti).

2. Avverso i predetti provvedimenti il ricorrente è insorto deducendo:

a) Violazione artt. 16 ss. D.L.vo n. 206 del 2007 – Violazione artt. 45 ss. e 49 ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea – Eccesso di potere per disparità di trattamento ed errore nei presupposti.

L’impugnato provvedimento ha l’evidente scopo di tutelare i vivai sportivi nazionali ed i giocatori che in essi si sono formati, ma comporta palesi discriminazioni nei confronti di cittadini italiani dalla nascita e residenti in Italia, che non possono tesserarsi solo perché si sono formati all’estero.

b) Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di motivazione, illogicità, ingiustizia manifesta, disparità di trattamento – Violazione dell’art. 11 bis del regolamento esecutivosettore professionistico, approvato dal Consiglio Federale della F.I.P. nelle sedute del 2930 maggio 1998 e 1920 novembre 2010.

La normativa regolamentare in applicazione della quale è stato adottato l’impugnato diniego di tesseramento è stata più volte oggetto di deroghe da parte della Federazione sulla premessa della ritenuta equivalenza tra specifiche partecipazioni ad eventi agonistici della casistica tipizzata dall’art. 11 bis del Regolamento esecutivo – settore professionistico.

3. Si è costituita in giudizio la Federazione Italiana Pallacanestro (F.I.P.), che ha preliminarmente eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adito, mentre ha sostenuto l’infondatezza, nel merito, del ricorso.

4. Con memorie depositate alla vigilia dell’udienza di discussione le parti costituite hanno ribadito le rispettive tesi difensive.

5. Con ordinanza n. 505 del 10 febbraio 2011 è stata respinta l’istanza cautelare di sospensiva.

6. All’udienza del 12 ottobre 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione

1. Deve essere disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito, sollevata dalla Federazione italiana pallacanestro (da ora in poi F.I.P.) sul rilievo che la questione oggetto della controversia è il riconoscimento o meno di un requisito di carattere puramente tecnicosportivo (la formazione italiana) in capo ad un soggettoatleta.

Rileva infatti il Collegio che la controversia attiene, come meglio si vedrà in seguito, alla legittimità della disciplina regolamentare introdotta dalla F.I.P. e rientra quindi nella giurisdizione esclusiva di questo giudice ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. z, c.p.a.. Alla base della scelta di riconoscere o non lo status di "atleta di formazione italiana" non è un giudizio di carattere tecnico ma l’accertamento del possesso di un requisito oggettivo quale è l’essersi lo sportivo formato in vivai italiani.

Si può invece prescindere dall’esame delle ulteriori questioni in rito sollevate dalla F.I.P., essendo il ricorso infondato nel merito.

2. A questo riguardo due precisazioni preliminari appaiono peraltro necessarie, anche al fine di un’esatta definizione della materia del contendere.

Il ricorrente, cittadino italiano figlio di padre cittadino americano naturalizzato italiano e di madre italiana, è nato a Roma il 15 febbraio 1989. In detta città ha frequentato le scuole elementari e svolto attività di minibasket, cioè attività non agonistica ma di giocosport che si pratica in età infantile. A seguito del divorzio dei genitori, avvenuto nel 1993, quando aveva quattro anni, il giudice americano gli ha imposto di risiedere in America nel domicilio materno fino al compimento del diciottesimo anno di età. Durante detto periodo e fino a maggio 2010 ha giocato in America, alle dipendenze di una squadra americana di pallacanestro, usufruendo di una borsa di studio ricevuta, dopo il compimento degli studi liceali, da un’Università americana, ma sempre conservando la cittadinanza italiana. Nella carta d’identità, rilasciatagli il 4 settembre 2007, figura residente negli Stati Uniti. Un certificato degli uffici anagrafici e di stato civile del Comune di Roma, depositato dallo stesso ricorrente ma privo di data, lo qualifica cittadino italiano emigrato negli Stati Uniti. Dopo il suo ritorno in Italia non è mai stato tesserato da club affiliati alla Federazione italiana pallacanestro. Il ricorrente afferma e documenta di essere stato convocato dalla Federazione in occasione del raduno collegiale della Nazionale Under 20 maschile, che si è tenuto a Foligno dal 29 giugno al 1° luglio 2009 (quindi per la durata di tre giorni), per allenamenti prodromici al Torneo internazionale fissato per i successivi giorni 24, nei quali si sono svolte le partite alle quali, secondo la Federazione, egli non ha partecipato. Tale affermazione non è smentita dall’interessato, il quale in effetti fa riferimento a sei partite alle quali avrebbe partecipato l’anno precedente nella qualità di componente della Nazionale italiana Under 19, circostanza che è ininfluente al fine del decidere.

3. La seconda questione preliminare riguarda l’esatto contenuto dell’atto impugnato in questa sede dal ricorrente e di cui egli chiede l’annullamento. Si tratta del provvedimento con il quale il Consiglio federale della F.I.P., "esaminata l’istanza da Ella prodotta, ha ritenuto che la stessa non può essere accolta". Si tratta della domanda dell’11 novembre 2010 con la quale il ricorrente chiedeva che gli fosse riconosciuta la qualifica di "atleta di formazione italiana". Riconosceva di non essere in possesso dei requisiti a tale fine richiesti dalla normativa regolamentare vigente, dichiarava di non contestare la legittimità della stessa, anche se per lui "estremamente penalizzante", ma chiedeva che gli fosse concessa "una deroga eccezionale" in ragione della "unicità" della sua posizione, che individuava nel fatto di essere figlio di un atleta che molto aveva contribuito allo sviluppo del basket italiano. Dichiarava che avrebbe accettato tutte le "modalità" che il Consiglio federale avesse imposto al rilascio della richiesta deroga, anche se per effetto delle stesse fosse stato costretto a cominciare a giocare in Italia partendo dalle serie B.

4. Con il suo gravame – proposto contro il provvedimento che gli nega la deroga richiesta – il ricorrente propone due distinti motivi di doglianza. Con il primo denuncia l’illegittimità sotto vari profili della normativa regolamentare con la quale la Federazione ha fissato i criteri per ottenere il riconoscimento di "atleta formato in Italia"; con il secondo il rifiuto alla concessione della deroga.

Il primo motivo di doglianza non coinvolge direttamente il provvedimento di diniego di deroga, ma le ragioni allo stesso sottese e in esso richiamate per relationem a quelle svolte dal Segretario generale della Federazione, d’intesa con il Presidente della F.I.P. Dino Meneghin, nella nota inviata qualche mese prima alla madre del ricorrente, che al Presidente si era rivolta direttamente perché aiutasse il figlio a realizzare il suo sogno di giocare in Italia. In detta nota si afferma che "la normativa vigente" richiede due requisiti per il riconoscimento dello status di "atleta di formazione italiana", uno dei quali (quello di atleta formato tecnicamente in Italia) indubbiamente non posseduto dal ricorrente, come confermato dall’esposizione in fatto innanzi svolta.

Di conseguenza il ricorrente, nell’impossibilità di contestare in punto di fatto il mancato possesso del suddetto requisito, contesta sotto diversi profili la normativa regolamentare che l’ha imposto.

5. Il primo motivo di doglianza deve essere disatteso perché palesemente infondato. Ed invero, il diniego di riconoscimento dello status di "atleta di formazione italiana" – opposto dal Segretario generale della F.I.P. d’intesa con il Presidente Federale nella succitata nota del 10 agosto 2010 e ribadito dal Consiglio federale il successivo 25 novembre – è fondato sulla carenza, in capo al giovane C., del requisito dell’essersi formato tecnicamente in Italia, così come richiesto dalla vigente normativa.

Prima di esaminare la disciplina regolamentare, di cui il provvedimento impugnato ha fatto corretta e doverosa applicazione, occorre ribadire, per sgomberare il campo da possibili equivoci, che il ricorrente, pur conservando la cittadinanza italiana durante la sua lunga permanenza negli Stati Uniti, non si è formato presso una scuola cestistica italiana e non ha mai disputato, almeno sino alla data di adozione del provvedimento impugnato, gare ufficiali con la nazionale italiana. Peraltro, ai sensi della disciplina vigente, il mancato possesso della qualifica di atleta di formazione italiana non gli preclude affatto la possibilità di tesserarsi (intendendo per tesseramento l’atto formale di adesione del soggetto persona fisica all’ordinamento sportivo) per una società italiana di basket, sia dilettantistica che professionistica, né gli impedisce di stipulare con società italiane contratti professionistici e dunque di essere da esse ingaggiato, essere iscritto a referto di gara, ossia far parte della rosa a disposizione di una società. Il gravato diniego costituisce solo un limite indiretto, determinando per le società un obbligo di utilizzazione di un numero minimo di atleti di formazione italiana.

6. Passando alla disamina della disciplina regolamentare nella materia de qua, l’art. 11 bis del Regolamento esecutivosettore professionistico, approvato dal Consiglio Federale della F.I.P. nelle sedute del 2930 maggio 1998 e 1920 novembre 2010, prescrive che un atleta, per essere considerato (indipendentemente dalla sua cittadinanza) "di formazione italiana", deve essersi formato nei vivai italiani e aver partecipato a campionati giovanili della F.I.P. per almeno quattro stagioni sportive. La partecipazione al campionato giovanile s’intende assolta con l’iscrizione a referto per almeno 14 gare. La partecipazione a campionati giovanili con tesseramento minibasket non è valida per l’adempimento dei quattro anni di attività giovanile.

E’ incontestabile, perchè documentato, che il ricorrente non possiede detto requisito con la conseguenza che sotto questo profilo l’impugnato provvedimento, facendo corretta e rigorosa applicazione della disciplina regolamentare, è assolutamente legittimo.

Per confutare tale conclusione in punto di fatto il ricorrente produce in atti il Comunicato Ufficiale F.I.P. n. 1105 del 24 giugno 2009, dal quale si evince che lo stesso era stato convocato per i giorni 29 giugno – 1 luglio 2009 per il raduno collegiale della Nazionale Under 20 maschile, in programma a Foligno e per il successivo torneo Internazionale in programma nei giorni 2, 3 e 4 luglio 2009. Peraltro, come già si è detto, detto documento, mentre effettivamente comprova che il ricorrente ha partecipato agli allenamenti nei primi tre giorni del soggiorno, non offre alcuna indicazione in ordine all’effettiva partecipazione dello stesso alle competizioni agonistiche tenutesi nei successivi tre giorni, che nel suo scritto difensivo la F.I.P. tassativamente esclude senza essere contestata sul punto. D’altro canto è quanto meno azzardato ritenere che un’attività, preparatoria o anche agonistica, svolta nell’arco temporale di pochi giorni possa ritenersi equivalente ai quattro anni di attività agonistica richiesti dalla normativa in materia per il riconoscimento della qualifica rivendicata dal ricorrente.

7. Il vaglio del Collegio deve dunque spostarsi a monte, sulla legittimità della norma regolamentare, anch’essa impugnata.

L’art. 11 bis del Regolamento esecutivosettore professionistico è legittimo. Ed invero, come già chiarito, per effetto di tale norma non si determina alcuna discriminazione o limitazione alla libera circolazione, per cui risulta inconferente il richiamo agli artt. 45 e 49 e ss. del Trattato U.E. Ne è prova il fatto che il ricorrente, anche se privo della qualifica chiesta e negatagli, ha la possibilità di giocare in Italia, di tesserarsi, di essere ingaggiato da una società italiana e di essere iscritto a referto.

Il limite cui soggiace la società (e non il giocatore), e cioè assicurare la partecipazione ad ogni gara di un numero minimo di atleti in possesso dello status di "atleta di formazione italiana", ha la sua ratio nel legittimo e doveroso interesse coltivato dalla F.I.P. alla presenza e allo sviluppo di vivai nazionali, con interventi comuni ad ogni Stato. Si vuole, in altri termini, che alle gare possano partecipare atleti che, quale che sia la loro cittadinanza, si sono formati in Italia, peraltro con limiti numerici che garantiscono il rispetto delle regole comunitarie in tema di libera circolazione dei lavoratori. E tale bilanciamento di contrapposti interessi è stato legittimamente raggiunto prevedendo che un numero minimo di atleti, da far giocare in ogni squadra, si sia formato in un vivaio italiano, ferma restando poi la libertà, per l’allenatore, di completare la rosa con giocatori di cittadinanza straniera o italiana ma formatisi all’estero (Cons.St., sez. VI, ord., 22 ottobre 2002, n. 4578). Nessuna preclusione, dunque, ma solo una limitazione numerica per le società, basata non su fattori soggettivi dell’atleta, ma su un dato oggettivo, id est essersi formato professionalmente in scuole italiane.

8. La conclusione cui è pervenuto il Collegio trova d’altronde conferma anche nel Libro Bianco dello Sport della Commissione europea per l’istruzione, la cultura e lo sport, secondo cui "le regole che impongono alle squadre una quota di giocatori formati sul posto possono ritenersi compatibili con le disposizioni del trattato sulla libera circolazione delle persone se non causano una discriminazione diretta basata sulla nazionalità e se gli eventuali effetti discriminatori indiretti possono essere giustificati come proporzionati a un obiettivo legittimo perseguito, ad esempio potenziare e tutelare la formazione e lo sviluppo dei giovani giocatori di talento. Lo studio in corso sulla formazione dei giovani sportivi in Europa fornirà un contributo prezioso per quest’analisi".

9. Non è assolutamente condivisibile la tesi di parte ricorrente che riconduce la regola imposta dalla F.I.P. alla volontà di questa di tutelare meri interessi di carattere economico ed aiutare così le società sportive italiane, che traggono guadagno quando vendono i giocatori formatisi nei propri vivai. Queste stesse società, infatti, proprio per rispettare la rosa di "sportivi formatisi in Italia", potrebbero essere costrette ad acquistare da altre società italiane i giocatori, con conseguente bilanciamento tra quanto eventualmente guadagnato dalla vendita del giocatore formatosi nel proprio vivaio e quanto speso per l’acquisto del giocatore formatosi nel vivaio di altro club italiano.

10. Del tutto legittimo è anche il diniego di derogare a tale norma regolamentare (di cui è stata affermata l’illegittimità con il secondo motivo di ricorso), atteso che le volte in cui la F.I.P. si è discostata dai principi dettati in materia lo ha sempre fatto non con riferimento a casi specifici, ma con disposizioni di carattere generale adeguatamente motivate e riferite al prestigio che determinati atleti hanno "collegialmente" dato allo sport nazionale con i risultati prestigiosi ottenuti nelle competizioni sportive a livello internazionale. In questa situazione non si trova certamente il ricorrente che, essendo all’inizio della carriera sportiva, è in grado di addurre a supporto della richiesta deroga solo il fatto di essere figlio di un atleta di chiara fama che per anni ha militato in società italiane, cioè non meriti sportivi riferibili alla sua persona ma al limite meriti "individualmente" acquisiti da altro soggetto al quale è legato solo da vincoli di parentela e con il quale nel periodo della maturità e della formazione professionale non ha neppure convissuto. Di qui l’inesistenza di una "unicità di posizione", che il ricorrente adduce a supporto della sua richiesta di deroga.

11 Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere respinto.

Quanto alle spese di giudizio, può disporsene l’integrale compensazione fra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa integralmente tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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