Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 23-06-2011) 29-09-2011, n. 35343 Contraffazione ed usurpazione del marchio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Y.X. è stato condannato dal Tribunale di La Spezia in data 25 febbraio 2008 alla pena di anni due e mesi due di reclusione ed Euro 800,00 di multa, per i reati di cui all’art. 474 (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) e art. 648 c.p. (ricettazione), in riferimento ad un intero container contenente un numero imprecisato di borse e borsette recanti il marchio contraffatto "Kipling". L’interposta impugnazione è stata integralmente rigettata dalla Corte d’appello di Genova con sentenza del 22 ottobre 2010. Contro tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, allegando tre motivi ampiamente illustrati.

Col primo motivo, l’imputato si duole del vizio di motivazione in relazione alla mancanza di prova della registrazione del marchio "Kipling"; questione ritenuta dalla corte territoriale "ininfluente ai fini della decisione" in base ad un precedente giurisprudenziale che, a parere della difesa, nulla ha invece a che vedere col caso di specie.

Col secondo motivo l’impugnata sentenza è censurata per aver fatto erronea applicazione della legge penale. La doglianza riguarda, segnatamente, l’art. 473 c.p., comma 3, – la cui applicazione al caso di specie è dovuta per via del richiamo contenuto nell’art. 474 c.p., comma 2 – che, nella versione applicabile ratione temporis al fatto contestato, prevedeva, quale condizione di operatività delle sanzioni penali, l’osservanza delle disposizioni interne o delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale.

Infine, col terzo motivo, l’imputato denuncia l’erronea applicazione della legge penale anche con riferimento all’art. 648 c.p., in quanto il delitto di ricettazione -secondo la tesi della difesa – non potrebbe concorrere con quello di cui all’art. 474 c.p. per ragioni di ordine formale, sostanziale e sistematico.

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Il primo ed il secondo motivo sono fra loro strettamente connessi, in quanto ruotano entrambi intorno alla necessità che sia provata la registrazione del marchio contraffatto. Possono essere quindi trattati congiuntamente.

In effetti, il precedente invece richiamato nella sentenza di secondo grado non è pertinente al caso di specie. Ma la circostanza è ovviamente priva di rilievo.

Piuttosto, questa Corte ha già affrontato la questione in una risalente occasione, con particolare riferimento ai marchi dotati di particolare notorietà. Al riguardo è stato affermato che, "se è vero che la tutela penale è riservata esclusivamente ai marchi registrati ai sensi delle vigenti disposizioni del codice civile e dei trattati internazionali, tuttavia, quando si tratta di marchio di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione da parte di una determinata società produttrice, l’onere di provare la insussistenza dei presupposti per la sua protezione grava su chi tale insussistenza deduce" (Cass. 17 ottobre 1995, n. 4265). Col ricorso – dichiarato inammissibile – era stato dedotto che non vi era alcuna prova in atti sulla circostanza che il marchio, di origine straniera, fosse stato registrato in Italia o all’estero e che fosse quindi degno di tutela giuridica. Il precedente è quindi perfettamente calzante al caso in esame.

Il medesimo orientamento è stato recentemente ribadito, osservandosi che l’avvenuta registrazione dei marchi, condizione essenziale per affermare l’esistenza del delitto di cui all’art. 474 c.p., non richiede una specifica prova se si tratta di marchi di largo uso e di incontestata utilizzazione da parte delle società produttrici (Cass. 13 maggio 2008, n. 22693). In quest’altra occasione venne altresì precisato che, in tali casi, è onere difensivo fornire la prova della mancata registrazione del marchio.

I motivi prospettati in ricorso non contengono argomenti che conducano alla revisione del citato orientamento.

Infatti – pur condividendosi la premessa di principio, secondo cui la tutela accordata in tema di contraffazione di prodotti industriali è riservata esclusivamente ai marchi registrati ai sensi delle vigenti disposizioni del codice civile e dei trattati internazionali, stante la clausola, contenuta all’art. 473 c.p., comma 3, richiamata dal successivo art. 474 c.p., che espressamente circoscrive l’applicabilità delle relative incriminazioni ai soli marchi registrati – si osserva che, nel caso di specie, si tratta di un marchio (Kipling) di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione da parte della società produttrice. Consegue che la prova della condizione di applicabilità della norma incriminatrice può ritenersi acquisita sulla base del fatto notorio.

Non convince, in particolare, la contestazione del ragionamento innanzi illustrato sulla scorta del rilievo che, in tal modo, si darebbe spazio a presunzioni semplici che invece non potrebbero supplire la mancanza di prova positiva circa la registrazione del marchio.

Infatti, le cosiddette massime di comune esperienza si distinguono dalle mere congetture, in quanto sono regole giuridiche preesistenti al giudizio poichè il dato in esse contenuto è già stato, o viene comunque, sottoposto a verifica empirica, sicchè la regola è formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit, rivestendo i caratteri delle regola d’esperienza tratta dal contesto storico- geografico in cui è generalmente riconosciuta ed accettata (Cass. 16 settembre 2003, n. 39985; Cass. 24 giugno 2009, n. 27862; Cass. 22 ottobre 1990, n. 329). In questa prospettiva, il controllo di manifesta illogicità della motivazione della sentenza di merito che abbia fatto uso di massime di esperienza non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime medesime, a meno che (a) il ragionamento non sia stato basato su una vera massima d’esperienza, ma si limiti a valorizzare una illazione congetturale, cioè un’ipotesi non legata all’id quod plerumque accidit ed insuscettibile di verifica empirica: ovvero (b) si sia fatto uso di una pretesa regola generale, però priva di qualunque, sia pur minima, plausibilità esperenziale.

Nella specie, quindi, non ricorrono – a differenza di quanto sostenuto in ricorso – mere presunzioni congetturali inidonee ad offrire la prova della tutela giuridica del marchio contraffatto.

Piuttosto, si tratta di una regola d’esperienza che costituisce essa stessa prova piena della registrazione del marchio e quindi della protezione giuridica che gli spetta. Altrettanto vale per quanto concerne l’appartenenza dei prodotti sequestrati al medesimo settore merceologico al quale si riferisce il marchio protetto, non occorrendo neppure a tal fine la produzione in giudizio del certificato di registrazione, laddove il fatto notorio – rappresentato dalla ampia commercializzazione di borse e borsette col marchio "Kipling"- vale a fornire la prova occorrente ai fini penali.

Si può quindi affermare il seguente principio di diritto: in tema di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi ( art. 474 c.p.), l’affermazione secondo cui un marchio noto e di largo uso è senz’altro registrato e quindi gode di tutela giuridica costituisce una massima d’esperienza con elevatissima incidenza statistica positiva e quindi ampiamente verificabile secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, specie laddove confortata da elementi oggettivi, quali la incontestata presenza di parole o segni grafici – quali ad esempio (C. (R) o (TM) – che attestano convenzionalmente l’esistenza di un copyright sul prodotto o la registrazione del marchio. Tale regola d’esperienza costituisce quindi un elemento sufficiente a fondare il ragionamento del giudice di merito in ordine all’esistenza del presupposto per l’applicazione della norma penale in parola e non è censurabile in sede di legittimità, qualora non sia contraddetta da elementi di prova addotti da chi sostiene il contrario.

I giudici di merito si sono, nella sostanza, attenuti al suesposto principio e quindi il ricorso risulta, quanto ai primi due motivi, infondato. D’altronde, lo stesso ricorrente non ha mai espressamente neppure contestato che il marchio in questione sia registrato oppure che si riferisca al medesimo settore merceologico cui sono ascrivibili i beni sequestrati, essendosi limitato a dedurre la mancanza di prova al riguardo.

Non incontra miglior sorte il terzo motivo, secondo cui i reati di cui agli artt. 474 e 648 c.p. non potrebbero concorrere fra loro.

Si tratta di questione già affrontata dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui "il delitto di ricettazione ( art. 648 c.p.) e quello di commercio di prodotti con segni falsi ( art. 474 c.p.) possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore" (Cass. 9 maggio 2001, n. 23427;

v. pure Cass. 4 marzo 2008, n. 12452; Cass. 20 gennaio 2003, n. 11764; Cass. 7 maggio 2002, n. 23636).

Il ricorrente intende discostarsi da tale autorevole e consolidato orientamento adducendo argomenti – espressamente qualificati come formali, sostanziali e sistematici – che si rivelano inconducenti.

Il motivo d’ordine formale può essere facilmente disatteso, in quanto si basa sulla confusione fra l’oggetto della ricettazione (la cosa recante il marchio contraffatto) ed il bene penalmente tutelato dall’art. 474 c.p. (il marchio come bene immateriale). E’ ovvio che il marchio – in quanto bene immateriale – non può essere ricettato, ma certamente possono esserlo le cose materiali sulle quali è stata operata la contraffazione. Si deve quindi affermare che, in tema di ricettazione di cose recanti segni distintivi contraffatti, la cosa nella quale è impresso il falso segno viene a costituire un’unica entità con questo ed è quindi suscettibile di materiale apprensione e ricezione.

Il profilo sostanziale si fonda sull’idea che il delitto di ricettazione miri a tutelare la dispersione della cosa proveniente da delitto e quindi sia volto a tutelare le ragioni della parte offesa nel recuperare il bene che le è stato sottratto; esigenza che non ricorrerebbe nel caso in cui il reato presupposto è quello di cui all’art. 474 c.p. Tale impostazione non può essere condivisa, in quanto smentita dalla circostanza che la cosa ricettata può provenire da "un qualsiasi delitto" e non soltanto dal furto o da altri reati contro il patrimonio. Peraltro, la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 648 c.p. ha natura plurioffensiva eventuale, nel senso che il bene senz’altro tutelato è costituito dall’interesse collettivo a sanzionare e reprimere il mercato delle cose provenienti da delitto, in modo tale da disincentivare anche la commissione dei reati presupposti: inoltre – eventualmente – allorquando il reato presupposto implica a qualsiasi titolo l’ablazione di una cosa dalla sfera giuridica della parte offesa, la norma offre protezione anche al patrimonio della vittima, nel senso di punire una condotta che può rendere obiettivamente più difficoltoso il recupero del bene.

Per tali ragioni è del tutto ininfluente che nel caso in esame non vi sia alcun interesse, da parte della società detentrice del marchio, a recuperare le cose contraffatte (che in realtà non le hanno mai appartenuto), dal momento che l’applicazione dell’art. 648 c.p. alla condotta criminosa si giustifica comunque in ragione dell’esigenza di reprimere l’illecito commercio dei beni recanti il falso segno distintivo.

L’argomento sistematico, infine, non tiene conto della diversità dei beni tutelati, quale emerge dal consolidato orientamento, anche delle Sezioni unite di questa Corte, di cui si è già detto.

Il ricorso deve essere quindi interamente rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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