Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-02-2012, n. 2360 Sfratto e licenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 29 e 30-3-2004, F.A. e Fe.Ar., premesso di essere comproprietari (unitamente a F.V., F.D., S.G. e S. M.), in forza di successione di F.E. (deceduto nel (OMISSIS)) e D.S.R. (deceduta nel (OMISSIS)), di un terreno sito in (OMISSIS), assumevano che tale immobile, in virtù di accordi raggiunti nel 1965, formalizzati per iscritto il 6-10-1979, era stato concesso in locazione a De.

S.R., con facoltà di costruirvi una baita affinchè ne beneficiasse per uso proprio e per un tempo determinato. Ciò posto e atteso che il contratto era venuto a scadere il 31-12-1997, gli attori intimavano a D.S.A., D.S.G. P. e D.S.C., figlie ed eredi di De.Si.

R., sfratto per finita locazione, citandole contestualmente dinanzi al Tribunale di Belluno, Sezione Distaccata di Pieve di Cadore, per sentir convalidare lo sfratto e ottenere la condanna delle convenute al rilascio dell’immobile, chiedendo, in caso di opposizione, l’emissione di ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c..

Nel costituirsi, le convenute contestavano l’esistenza del dedotto rapporto di locazione e chiedevano che, previo mutamento del rito, il Tribunale accertasse che il bene in questione era divenuto di loro proprietà per intervenuta usucapione ex art. 1159 bis c.c., trattandosi di un fondo rustico montano.

Il giudice adito, dopo aver disposto il mutamento del rito, preso atto della domanda riconvenzionale di usucapione ordinava l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari del fondo, F.V., F.D., S. G. e S.M..

Si costituiva solo F.V., il quale faceva proprie le domande degli attori, contestando altresì l’applicabilità, nella specie, dell’art. 1159 bis c.c..

Con sentenza in data 11-6-2007 il Tribunale di Belluno, Sezione Distaccata di Pieve di Cadore, qualificato il contratto, quanto alla baita, come contratto atipico di concessione ad edificare e, quanto al terreno circostante, quale contratto connesso al precedente ed assimilabile al comodato, con il quale si consentiva al conduttore l’utilizzo gratuito di tale terreno, rigettava la domanda attrice;

respingeva altresì la domanda riconvenzionale.

Avverso la predetta decisione proponevano appello D.S. A., D.S.G.P. e D.S.C., dolendosi del mancato accoglimento della domanda di usucapione.

Con sentenza depositata il 1-12-2009 la Corte di Appello di Venezia rigettava il gravame.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono D.S.A., D. S.G.P. e D.S.C., sulla base di due motivi.

Resistono con controricorso F.A., Fe.Ar., S.G. e S.M., tutti anche nella qualità di coeredi di F.D..

F.V. non ha svolto attività difensive.

In prossimità dell’udienza le ricorrenti hanno depositato una memoria.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo le ricorrenti lamentano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di un titolo a sostegno dell’utilizzazione del terreno non occupato dalla baita, e al conseguente rigetto della domanda di usucapione di tale terreno. Sostengono, in particolare, che l’affermazione secondo cui gli accordi del 1965 erano stati riprodotti dal contratto scritto del 1979 è del tutto apodittica;

che i predetti accordi, avendo ad oggetto – come è ormai giudicato – una concessione ad aedificandum, non potevano che riguardare quella parte di terreno sulla quale si sarebbe edificato; che la baita era stata edificata nelle dimensioni concordate e, poichè la stessa in tale epoca già esisteva, è illogico sostenere che le parti con l’atto del 1979 non sapevano quale parte del terreno fosse occupata dalla costruzione e quale no; che gli argomenti secondo cui dalla conformazione del luogo apparirebbe evidente che non poteva non esservi utilizzazione anche del terreno non interessato dalla concessione, e dal contratto risulterebbe che un utilizzo di tale terreno era consentito, contrastano con la lettera dell’accordo del 1979 (con il quale veniva sancito il divieto di utilizzare ulteriore terreno rispetto a quello occupato dalla costruzione della baita) e con i principi della logica; che, pertanto, avendo i ricorrenti posseduto per oltre venti anni contro il volere dei proprietari, la Corte di Appello ha errato nel ritenere irrilevanti le prove offerte in ordine all’intervenuto acquisto della proprietà per usucapione.

Il motivo non è meritevole di accoglimento. La Corte di Appello ha fornito sufficiente giustificazione delle ragioni della propria decisione, spiegando che il concedente, con contratto connesso a quello di concessione ad edificare e assimilabile al comodato, aveva consentito al conduttore l’uso gratuito del terreno non occupato dalla baita. Il convincimento espresso al riguardo risulta sorretto da una motivazione congrua e non contraddittoria, che poggia su una plausibile interpretazione delle pattuizioni intercorse tra le parti, consacrate nel contratto del 6-10-1979; contratto nel quale, secondo il giudice del gravame, per espressa affermazione della parte appellata, mai contestata, venivano riprodotti per iscritto accordi verbali intervenuti tra i contraenti nel lontano 1965, tanto che le parti concordavano il canone da versare anche con riferimento al periodo pregresso. In particolare, la Corte territoriale, oltre a valorizzare altri argomenti, ha rilevato che dal testo del contratto scritto si desume che al conduttore era consentito un uso del terreno senza corrispettivo, tanto che il proprietario si preoccupava di prescrivere che il predetto non rovinasse il novellarne (piantato dal proprietario), nè depositasse immondizie o altro, nè occupasse ulteriore terreno (erigendo ad esempio un altro fabbricato).

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione;

sicchè deve ritenersi l’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o su vizi di motivazione ma si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (tra le tante v. Cass. 27-10-2003 n. 16099;

Cass. 17-6-2004 n. 11342; Cass. 26-10-2007 n. 22536; Cass. 30-4-2010 n. 10544).

Nel caso di specie, le censure mosse con il motivo in esame si risolvono, in buona sostanza, nella prospettazione di un’interpretazione degli accordi contrattuali più favorevole alle aspettative delle ricorrenti e asseritamente più persuasiva rispetto a quella recepita nella sentenza impugnata. Attraverso la denuncia di vizi di motivazione, pertanto, viene chiesta una nuova e diversa valutazione della portata delle pattuizioni intercorse tra le parti rispetto a quella compiuta dai giudici di merito che, essendo basata su una ricostruzione della volontà contrattuale plausibile e logica, si sottrae al sindacato di questa Corte.

2) Con il secondo motivo le ricorrenti denunciano l’insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla negata interversione del possesso quanto alla parte di terreno occupata dalla baita, la cui detenzione era iniziata con la concessione ad aedificandum.

Sostengono che il giudicante non ha tenuto conto del comportamento del detentore, il quale, attraverso il mancato rilascio del bene alla scadenza del contratto, il mancato pagamento dei canoni e il compimento di tutte le attività corrispondenti al diritto di proprietà, evidenziava inequivocabilmente nei confronti dell’avente diritto la volontà di non esercitare più il potere di fatto nomine alieno, ma in nome proprio.

Anche tale motivo è privo di fondamento.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, l’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente "animus detinendi" dell’"animus rem sibi habendi"; tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua. A tal fine sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio de possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggia determinata dalla materiale disponibilità del bene)".

(Cass. 15-3-2010 n. 6237; Cass. 29-1-2009 n. 2392; Cass. 1-7-2004 n. 12007).

Nella specie, attenendosi a tali principi, la Corte di Appello ha correttamente rilevato che, ai fini della dedotta interversione del possesso, non possono ritenersi significativi nè il mancato pagamento del canone, trattandosi di un mero inadempimento contrattuale, nè il fatto che le odierne ricorrenti (e, prima di esse, il padre) abbiano coltivato, curato e usato il terreno, trattandosi di attività che ben potevano essere giustificate dalla detenzione in forza di un titolo, ovvero, al limite, concretare un abuso nella utilizzazione del bene.

La decisione impugnata, pertanto, anche sul punto risulta sorretta da una motivazione corretta sul piano logico e giuridico, che la rende immune dai vizi denunciati, con i quali, a ben vedere, si richiede una valutazione alternativa delle emergenze processuali, non consentita in questa sede.

3) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dai resistenti, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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