Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 15-06-2011) 29-09-2011, n. 35515 Sospensione condizionale della pena

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del 2 ottobre 2008 con cui il Tribunale di quella stessa città aveva condannato a nove mesi di reclusione Z. E.L.C., per il reato di cui all’art. 572 c.p., disponendo la sospensione condizionale della pena inflitta.

Dalla sentenza si apprende che nel periodo tra il (OMISSIS) l’imputato avrebbe continuamente maltrattato la convivente V.C.L.S., picchiandola, ingiuriandola e minacciandola di morte, in alcune occasioni colpendola violentemente con pugni e calci su tutto il corpo, sbattendole la testa contro il muro, provocandole lesioni, tra cui traumi cranici, toracici e addominali, repertati nelle date del (OMISSIS).

2. – Nell’interesse dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia.

Con il primo motivo ripropone l’eccezione di inutilizzabilità delle sommarie informazioni rese il 5.4.2004 da C.V., sorella della persona offesa, sotto due distinti profili: a) le informazioni sarebbero state acquisite ai sensi dell’art. 512 c.p.p. tramite la lettura senza che sia stata dimostrata l’oggettiva impossibilità di ripetizione dell’atto, in quanto l’irreperibilità della teste sarebbe stata accertata senza effettuare le necessarie ricerche consolari (ricerca anagrafica presso il consolato di appartenenza);

b) la irripetibilità dell’atto non era da ritenere imprevedibile.

Con un secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 111 Cost., art. 512 c.p.p., in relazione all’art. 6 CEDU, così come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, hi particolare, sostiene che il giudice di merito avrebbe posto a base della condanna i verbali delle dichiarazioni di C.V., dando ad essi una valenza probatoria determinante, sebbene non siano stati acquisiti in contraddittorio e, inoltre, senza neppure operare un confronto tra tali elementi con le altre risultanze processuali.

Peraltro, gli ulteriori elementi probatori su cui si è basata la Corte d’appello sono costituiti dalle dichiarazioni della persona offesa, anch’esse acquisite senza contraddittorio a causa dell’avvenuto decesso di V.C.L.S. e di due referti ospedalieri, ma in nessun conto sono state tenute le dichiarazioni di P.R., il teste convivente con la coppia che avrebbe detto di avere visto litigare i coniugi solo una volta.

Con il terzo motivo denuncia il vizio di motivazione, rilevando che la sentenza ha ritenuto attendibili le accuse della persona offesa in maniera illogica, in quanto non avrebbe valutato che esse si pongono in insanabile contrasto con quanto riferito da P.R. e soprattutto con quanto è emerso nel dibattimento, in cui sono stati accertati solo tre episodi di violenza, peraltro realizzati in un vasto arco di tempo, tale da escludere l’abitualità di tali comportamenti. Ne consegue che i giudici di merito avrebbero dovuto escludere anche la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato. Sotto altro profilo, il ricorrente assume che la condanna, a prescindere da quanto sostenuto in sentenza, si sarebbe fondata su elementi indiziari, manchevoli dei caratteri della precisione, gravità e concordanza, situazione che avrebbe giustificato l’assoluzione dell’imputato per lo meno ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p..

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è infondato.

3.1. – Preliminarmente deve osservarsi che la dedotta inutilizzabilità riguarda una prova che i giudici di appello non hanno ritenuto essenziale ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’imputato. Responsabilità che non si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni rese da C.V., ma che trova la sua giustificazione soprattutto nelle dichiarazioni della stessa vittima, riscontrate dai numerosi referti medici prodotti. In altri termini, la Corte d’appello, attraverso la c.d. prova di resistenza, ha sostanzialmente ritenuto che anche riconoscendo l’inutilizzabilità del contributo conoscitivo offerto da C. V., le residue prove acquisite avrebbero comunque condotto all’affermazione della responsabilità del Ca., sicchè i motivi contenuti nel ricorso e riguardanti tali dichiarazioni si dimostrano del tutto irrilevanti, tanto che i giudici di secondo grado non avrebbero dovuto nemmeno procedere all’esame delle eccezioni di inutilizzabilità proposte, esame che deve considerarsi superfluo ai fini della decisione assunta. Infatti, il giudice dell’impugnazione non è tenuto a dichiarare preventivamente l’inutilizzabilità della prova contestata qualora ritenga di poterne prescindere per la decisione, ricorrendo, come nel caso in esame, al cosiddetto "criterio di resistenza " (tra le tante, Sez. 5, 15 luglio 2008, n. 37694, Rizzo; Sez. 2, 18 ottobre 2005, n. 40381, Formoso), peraltro applicabile anche in sede di legittimità. 3.2. – Come si è anticipato, la struttura della motivazione fonda l’affermazione della colpevolezza dell’imputato sulle dichiarazioni della vittima rese nel corso delle indagini, dichiarazioni acquisite ai sensi dell’art. 512 c.p.p., a seguito del decesso di C. L.S..

In questo modo, secondo il ricorrente, la responsabilità del C. sarebbe stata riconosciuta sulla base di elementi probatori che si sarebbero formati fuori dal contraddittorio, in violazione dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 6 Cedu.

A questo proposito si osserva che una sentenza di condanna basata sulle sole dichiarazioni rese fuori del contraddittorio con la difesa ed acquisite a norma dell’art. 512 c.p.p. è conforme ai principi desumibili dal nostro assetto costituzionale dal momento che l’art. 526 c.p.p., comma 1 bis sancisce che la colpevolezza dello imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni assunte fuori del contraddittorio solo se chi le ha rese si sia volontariamente sottratto allo esame da parte dell’imputato o del suo difensore, mentre l’art. 111 Cost., comma 5 pone come limite alla formazione della prova fuori del contraddittorio, oltre ai casi di consenso dell’imputato o di condotta illecita, l’impossibilità accertata di acquisizione avente natura oggettiva, e in queste ipotesi rientra sicuramente la morte imprevista del testimone.

Tuttavia, questo assetto normativo non è stato ritenuto conforme all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo dai giudici di Strasburgo, che hanno in più occasioni affermato che la impossibilità di reiterare un atto compiuto nel corso delle indagini preliminari non può privare l’imputato del diritto di esaminare o fare esaminare ogni elemento di prova decisivo a suo carico; le emergenze accusatorie sorte fuori del contraddittorio non sono inutilizzabili in assoluto, ma possono essere usate a condizione che non si attribuisca ad esse un peso determinante ai fini della decisione (Corte eur., 10 gennaio 2005, Accardi c. Italia; Corte eur., 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia; Corte eur., 15 maggio 2010, Ogaristi c. Italia). In questa situazione di "contrasto tra ordinamenti" spetta al giudice nazionale l’obbligo di dare, se possibile, alle norme interne un’interpretazione conforme ai precetti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella esegesi giudiziale istituzionalmente attribuita alla Corte di Strasburgo dall’art. 32 della Convenzione stessa. Ed infatti, questa Corte ha già avuto modo di affermare che una interpretazione dell’art. 512 c.p.p. convenzionalmente orientata debba portare a concludere che "al principio del contraddittorio si può derogare, in caso vi sia una oggettiva impossibilità di formazione della prova, con la precisazione che una declaratoria di condanna non può reggersi in modo esclusivo o significativo su dichiarazioni di chi si sia sottratto al confronto con l’imputato" (Sez. 3, 15 giugno 2010, n. 27582, R.).

Facendo applicazione di questi principi, ferma restando l’imprevedibilità della morte del testimone – persona offesa e, quindi, la legittimità della lettura delle sue dichiarazioni per sopravvenuta impossibilità di ripetizione ai sensi dell’art. 512 c.p.p., deve escludersi che nel caso in esame si sia verificata la violazione del disposto di cui all’art. 6 Cedu dal momento che l’affermazione della responsabilità dell’imputato ha trovato riscontro anche in una serie di dati oggettivi e documentati, costituiti dai referti ospedalieri, che hanno attestato le percosse e le lesioni subite dalla persona offesa. Si tratta di elementi di prova che integrano il materiale probatorio accusatorio utilizzabile per affermare la responsabilità dell’imputato e consentono di rispettare il contenuto del citato art. 6 Cedu.

3.3. – Questi stessi elementi di prova documentali confermano l’attendibilità delle accuse della vittima, la cui credibilità è stata messa in dubbio dal ricorrente.

La sentenza ha sottoposto ad un attento vaglio critico le accuse rivolte all’imputato da parte di C.L.S., facendo una corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte, secondo cui le dichiarazioni della persona offesa, soggetto portatore di un interesse personale nel procedimento, pur potendo da sole costituire piena prova dei fatti, devono comunque essere valutate con la massima attenzione. Su questo punto i giudici di appello hanno offerto una motivazione completa e logica, mettendo in evidenza la coerenza dell’esposizione dei fatti da parte della vittima, confortata dai referti ospedalieri e dalle stesse ammissioni dell’imputato, che ha riconosciuto alcuni degli episodi violenti oggetto della denuncia;

allo stesso modo i giudici hanno preso in considerazione la deposizione di P., testimone della difesa, ritenendola irrilevante avendo questi coabitato con la coppia Ca. – C. solo per alcuni mesi, in cui trascorreva la maggior parte della giornata sul luogo di lavoro (peraltro in sentenza si da atto che il P. ha riferito di avere assistito, in un’occasione, ad un "forte litigio" tra la coppia e di essere stato svegliato dalle urla della C. che chiedeva aiuto).

La sentenza ha ampiamente motivato sulla sussistenza del reato di maltrattamenti, rilevando come l’imputato con la sua condotta, caratterizzata da prepotenza e violenza verbale e fisica, abbia sottoposto la convivente ad un regime di vessazioni, anche morali, tali da condizionarle la vita, avvilendola e umiliandola, situazioni che integrano il reato di cui all’art. 572 c.p..

Sotto il profilo soggettivo, la sentenza ha correttamente ritenuto la sussistenza del dolo generico, cioè la coscienza e volontà di commettere, in modo abituale, una serie di fatti lesivi della integrità fisica e morale della persona offesa.

4. – In conclusione, all’infondatezza dei motivi proposti consegue il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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