Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 17-02-2012, n. 2315 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 15-12-2007 il Giudice del lavoro del Tribunale di Catanzaro dichiarava la illegittimità del licenziamento intimato ad C.A. in data 18-9-2002 dalla T. & T. s.r.l. e condannava quest’ultima a riassumere la C. nel termine di tre giorni, o, in mancanza a risarcirle i danni in misura pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge.

Con ricorso in data 11-9-2007 la C. proponeva appello avverso la detta sentenza deducendo che da un attento esame del libro matricola emergeva la sussistenza del requisito dimensionale necessario ai fini della applicazione della tutela reale tenuto conto del criterio della normale occupazione dell’impresa da riferirsi ai periodi prossimi alla data del licenziamento, e che anche le deposizioni testimoniali confermavano che la ditta all’epoca del licenziamento si avvaleva di sedici dipendenti (dovendosi includere nel computo la lavoratrice B.L., utilizzata in violazione del divieto di interposizione fittizi a di manodopera, nonchè i lavoratori non assunti regolarmente quali P.V., P.E. e V.S.).

L’appellante concludeva, quindi, chiedendo la parziale riforma dell’impugnata sentenza con la reintegra nel posto di lavoro, oltre il risarcimento del danno.

La società appellata si costituiva resistendo al gravame e proponendo appello incidentale al fine di far dichiarare la legittimità del licenziamento, sussistendo il motivo oggettivo posto alla base dello stesso.

Concesso il termine alla società per effettuare la notifica dell’appello incidentale, la Corte d’Appello di Catanzaro. con sentenza depositata il 2-7-2009, in accoglimento dell’appello principale, ordinava alla appellata di reintegrare la C. nel posto di lavoro e condannava la società al risarcimento pari alla retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegra, oltre accessori di legge, nonchè al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali; dichiarava inammissibile l’appello incidentale e confermava nel resto, condannando l’appellata al pagamento delle spese del grado.

In sintesi la Corte territoriale, ritenuto inammissibile l’appello incidentale, non avendo la società proceduto alla sua notifica nel termine perentorio assegnatole, affermava la sussistenza nella fattispecie del requisito dimensionale necessario per l’applicazione della tutela reale, sulla base delle risultanze della prova testimoniale, "non superate dalle allegazioni documentali della società".

Per la cassazione di tale sentenza la T.&.T. s.r.l. ha proposto ricorso con tre motivi.

La C. ha resistito con controricorso.

La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa (ex art. 360 c.p.c., n. 4), lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente affermato la decadenza dell’appello incidentale per mancata notifica dello stesso nel termine assegnato, sostenendo che il detto appello incidentale "unitamente alla comparsa di risposta e pedissequo provvedimento di rimessione in termini 15-5- 2008, è stato ritualmente notificato al procuratore domiciliatario in data 3 giugno 2008 ed il relativo atto inserito nel fascicolo di parte (cfr. fascicolo di 2^ grado)".

Al riguardo la ricorrente formula poi, ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis, il seguente quesito di diritto: "indichi la Corte se sussiste o meno violazione de principio del contraddittorio e de diritto di difesa, quando il giudice di merito omette l’esame della comparsa avversaria e dei motivi di appello, erroneamente ritenuti non ritualmente notificati a controparte".

Il motivo, così come formulato, è inammissibile sotto diversi profili.

In primo luogo il quesito risulta del tutto generico, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto di una regola generale, senza enucleare nello specifico il momento di conflitto rispetto ad essa del concreto accertamento operato dai giudici di merito. Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Inoltre anche la esposizione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza, in quanto la ricorrente, pur asserendo che il "relativo atto" era "inserito nel fascicolo di parte" di secondo grado, non specifica ne la collocazione nè il tempo nè le modalità del rituale deposito dell’atto stesso davanti ai giudici di merito (espressamente contestato dalla controricorrente).

Al riguardo, infatti, dovendo il principio di autosufficienza del ricorso essere inteso in senso rigoroso anche per la censura di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, come più volte è stato affermato da questa Corte, è necessario che il ricorrente indichi "gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione" denunciata (v. Cass. 28-7-2005 n. 15910, Cass. 4-4-2006 n. 7846).

Peraltro nel regime di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 7, come è stato precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. S.U. 3-11-2011 n. 22726) "l’onere del ricorrente di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, "gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda" è soddisfatto sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi".

La mancanza di tale specifica indicazione determina, quindi, comunque la inammissibilità del motivo.

Infine la genericità e non autosufficienza del motivo impedisce a questa Corte di verificare la natura stessa dell’errore che sarebbe stato commesso dalla Corte di merito (errore che, in ipotesi, se di fatto e risultante dagli atti del giudizio di merito, costituirebbe un tipico vizio revocatorio, con conseguente inammissibilità, in ogni caso, del relativo motivo dinanzi a questa Corte di legittimità, v. fra le altre Cass. 27-5-2005 n. 11276, Cass. 27-4- 2010 n. 10066).

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e vizio di motivazione, in sostanza censura la sentenza impugnata nella parte in cui. disattendendo la documentazione in atti e le deduzioni della società, ha ritenuto che il normale organico aziendale fosse superiore alle quindici unità, in particolare attribuendo alle testimonianze B. e T. "maggiore efficacia probatoria rispetto alla produzione documentale" e così includendo nel computo anche i lavoratori occasionali B.L., P.E. e P.V..

Anche tale motivo non merita di essere accolto.

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito, "ai fini della operatività della tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della normale occupazione, il quale implica il riferimento all’organigramma produttivo o, in mancanza, alle unità lavorative necessario, secondo la normale produttività dell’impresa, valutala con riguardo al periodo di tempo antecedente al licenziamento" (v. fra le altre Cass. 4-9-2003 n. 12909, Cass. 27-3- 1996 n. 2756). Peraltro il relativo accertamento di fatto è incensurabile in questa sede se sorretto da congrua motivazione.

Nella fattispecie la Corte territoriale, con riferimento al licenziamento del 18-9-2002, ha accertato che seppure "dalla copia del libro matricola in atti si evince che nel mese luglio l’azienda occupava quindici dipendenti, e così anche nel mese di agosto e di settembre", "dalle deposizioni testimoniali dei colleghi di lavoro è emerso tuttavia che i dipendenti effettivi della ditta erano in numero superiore a quello risultante dal libro matricola, ed in particolare vengono menzionati, in aggiunta ai nominativi regolarmente registrati, tali B.L., P.E. e P.V.".

In specie la Corte di merito ha rilevato che "le risultanze della prova testimoniale non sono superate dalle allegazioni documentali della società", "ove si consideri che la veridicità delle dichiarazioni dei testi escussi, non è in alcun modo contrastata da elementi seri e concreti che lascino trasparire una propensione al mendacio dei dichiaranti o un loro interesse ad un particolare esito della causa", ed ha aggiunto che "d’altra parte è la stessa società che ammette di aver utilizzato la B. alle proprie dipendenze attraverso il distacco, circostanza quest’ultima che tuttavia è rimasta sfornita di riscontri probatori" (così risultando comunque superata la soglia dei quindici dipendenti).

A fronte di tale accertamento di fatto congruamente motivato, la ricorrente, in sostanza, da un lato deduce, inammissibilmente (v. fra le altre, da ultimo, Cass. 21-7-2010 n. 17097), una diversa valutazione della attendibilità dei testi, dall’altro lamenta la scarsa considerazione di risultanze documentali, delle quali non riporta affatto il contenuto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso (v. tra le Altre Cass. 20-2-2003 n. 2527), denunciando, per il resto, un vizio di motivazione al riguardo, attraverso una inammissibile richiesta di revisione del "ragionamento decisorio" (v., fra le altre, Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).

Infine, con il terzo motivo, denunciando violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. in riferimento alla L. n. 604 del 1966, art. 8 nonchè agli artt. 1218, 1223, 1227 e 2697 c.c., la ricorrente lamenta "erronea ed illegittima (omessa) quantificazione del risarcimento del danno" conseguente alla declaratoria di illegittimità de licenziamento", deducendo che la C. con il ricorso introduttivo aveva invocato "il danno nella misura massima di 10 mensilità" e che a fronte di un rapporto di soli tre mesi, la Corte territoriale ha attribuito alla C. una "irragionevole e sproporzionata rendita", "in assenza dei parametri di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8", condannando essa società al pagamento di una somma pari alle retribuzioni, commisurate alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegra, senza considerare che il risarcimento non "era più dovuto a partire dal momento in cui si dovesse ritenere che la lavoratrice potesse essere in grado, facendo uso della dovuta diligenza, di reperire nella zona di residenza dell’interessata, oppure in quelle limitrofe, una occupazione corrispondente a quella svolta in precedenza presso la ditta T.&T.".

Il motivo è infondato, in quanto la condanna della società datrice di lavoro è scaturita dalla applicazione della tutela reale da parte dei giudici di appello.

Sul punto la sentenza impugnata non è poi incorsa in alcuna ultrapetizione, avendo la C., con il ricorso introduttivo. richiesto in via principale espressamente il risarcimento del danno "da commisurarsi alle mensilità via via previste per i dipendenti di 4 livello dal c.c.n.l. di categoria del 3-11-1994 e successive modificazioni e/o integrazioni, intercorrenti dal 19-9-2002 (di successivo alla data del licenziamento) e sino all’effettiva reintegra….", e, soltanto "in via subordinata, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 8" la determinazione dell’indennità dovuta "in n. 10 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto".

La questione, poi, della limitazione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2, risulta nuova e come tale inammissibile in questa sede.

Al riguardo questa Corte ha ripetutamele affermato che "nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello" (v. Cass. 16-8-2004 n. 15950, Cass. 27-8-2003 n. 12571, Cass. 5-7-2002 n. 9812, Cass. 9-12-1999 n. 13819). Nel contempo è stato anche precisato che "nel caso in cui una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, indicando altresì in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, così da permettere alla Corte di Cassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa" (v.

Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 12-7-2005 n. 14590, 12-7-2005 n. 14599, Cass. 28-7-2008 n. 20518).

Nulla avendo indicato al riguardo la ricorrente, la censura non può che ritenersi inammissibile (a prescindere anche dalla rilevabilità d’ufficio di una colpevole astensione del lavoratore da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, atteso che è pur sempre necessario che vi sia stata una rituale allegazione e prova dei fatti rilevanti al riguardo, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro – cfr. Cass. 20-3-2004 n. 5655. Cass. 27-1-2011 n. 1950-).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della C..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della C., delle spese liquidate in Euro 50,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 17 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2012

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