Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-02-2012, n. 2430 Lavoro a tempo parziale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 7 ottobre 2009 la Corte d’Appello di Palermo, in riforma della sentenza del Tribunale di Agrigento del 10 maggio 2006, ha rigettato l’opposizione proposta da M.S. avverso l’ordinanza ingiunzione emessa dall’Ispettorato Provinciale del Lavoro di Agrigento nei confronti della CO.SS soc. coop. a r.l. di cui la M. è legale rappresentante, per la somma di Euro 477,30 a titolo di sanzione per avere, in violazione del D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, art. 2 e successive modificazioni, trasmesso alla Direzione provinciale del lavoro i contratti di tre dipendenti a tempo parziale riportanti orari difformi da quelli effettivamente osservati. Per quanto rileva in questa sede la Corte territoriale ha motivato tale pronuncia considerando ammissibile il gravame avverso la sentenza di primo grado in quanto il giudizio di primo grado è stato introdotto con ricorso, ed anche il giudizio di appello è stato introdotto con ricorso, per cui, indipendentemente dall’eventuale errore di rito, che comunque non determina alcuna nullità non avendo inciso sul contraddittorio o sul diritto di difesa e non ha cagionato alcun pregiudizio processuale, il termine per impugnare va considerato secondo la disciplina dei giudizi introdotti con ricorso e quindi considerando la data del deposito del ricorso stesso e non la sua notifica come avviene per i giudizi introdotti con citazione, per cui, considerando appunto la data di deposito del ricorso in appello, l’Impugnazione risulta tempestiva.

Inoltre la stessa Corte d’Appello ha considerato che, dalle dichiarazioni rese ai verbalizzanti dai lavoratori interessati, è emerso che gli orari indicati nella comunicazione alla Direzione Provinciale del Lavoro non sono conformi a quelli effettivamente osservati, e tale circostanza configura un’omessa comunicazione sanzionata all’epoca del fatto, essendo stato l’obbligo di comunicazione rimosso solo con il D.Lgs. n. 276 del 2003.

La M. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su tre motivi.

Resiste con controricorso l’Ispettorato Provinciale del Lavoro di Agrigento.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si lamenta violazione per mancata applicazione dell’art. 342 in combinazione con gli artt. 156 e 327 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. In particolare si deduce che erroneamente la Corte territoriale avrebbe considerato tempestivo l’appello tenendo conto della data del deposito del ricorso introduttivo del relativo giudizio, in quanto l’appello stesso, proposto avverso la sentenza emessa dal Tribunale seguendo il rito di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22 e segg. avrebbe dovuto proporsi con atto di citazione e non con ricorso, per cui, per valutare il rispetto del termine per proporre l’impugnativa avrebbe dovuto farsi riferimento alla data di notifica dell’atto di citazione all’appellato e non alla data di deposito in cancelleria e, in caso di appello proposto erroneamente con ricorso, per verificare il rispetto del termine per appellare volendo applicare il principio di conservazione degli atti, avrebbe dovuto farsi riferimento alla data di notifica del ricorso e non alla data del deposito.

Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 2, comma 1, e art. 8, comma 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In particolare si lamenta che la previsione normativa asseritamente violata, e successivamente abrogata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 85 mirava a costituire una remora ai datori di lavoro nell’utilizzo di lavoratori a tempo parziale, per cui lo scopo della norma non era certo frustrato da un’eventuale erroneità nell’indicazione dell’orario di lavoro.

D’altra parte la Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 24 aprile 2008, ha anche osservato che il citato D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 2 nell’imporre al datore di lavoro l’obbligo di notificare alle autorità competenti una copia di ogni contratto di lavoro a tempo parziale, sanzionando tale obbligo in modo virtualmente illimitato, costituisce un’illegittima remora all’utilizzo del lavoro in questione, per cui la stessa Corte di Giustizia ha dichiarato che l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che esige la notifica all’amministrazione di una copia dei contratti a tempo parziale entro il termine di trenta giorni dalla loro stipulazione, e tale decisione interpretativa sarebbe vincolante per il giudice nazionale.

Con il terzo motivo si lamenta omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In particolare si deduce che non sarebbe stata raggiunta la prova della violazione in questione in quanto i lavoratori sentiti in sede di ispezione hanno riferito dell’orario osservato all’epoca dell’audizione stessa e non di quello osservato in passato all’epoca a cui si riferiscono le comunicazioni contestate, per cui non sarebbe stata raggiunta la prova della violazione sanzionata.

Il primo motivo è fondato. La giurisprudenza, recentemente consolidata dalle S.U. con la sentenza n. 390 del 2011, secondo cui il regime processuale impugnatorio va individuato tenendo conto delle forme in concreto adottate dal giudice che ha emesso il provvedimento gravato, ha pure precisato che tali forme assumono al riguardo rilevanza soltanto nei casi in cui le stesse siano state oggetto di una consapevole, ancorchè implicita, opzione processuale da parte del giudice a quo. Ma nel caso di specie, in cui la controversia era chiaramente rientrante, per il suo oggetto (opposizione ad una ordinanza – ingiunzione irrogante una sanzione amministrativa), in una materia specifica induce ad escludere che siano state consapevolmente applicate le norme di cui all’art. 415 c.p.c. e segg..

Esclusa, dunque, ogni possibilità di applicare al giudizio di secondo grado le disposizioni processuali previste per le controversie di lavoro o per altre, espressamente assimilate nel rito, deve ritenersi che il giudizio di appello avrebbe dovuto, nella specie, essere instaurato e svolgersi secondo le ordinarie norme previste dal codice di procedura civile. Va premesso al riguardo che questa Corte aveva già avuto modo di precisare, in diverse occasioni, che nella controversie relative alle opposizioni ad ingiunzioni di pagamento di sanzioni amministrative, si applicano, per quanto non espressamente previsto o derogato dalla speciale normativa contenuta nella L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23 le generali norme previste dal codice di procedure civile per i giudizi ordinari (v., tra le altre, Cass. nn. 11964/91, 7832/94, 5663/96).

Più recentemente e con specifico riferimento al giudizio di appello (che come è noto è stato reso possibile a seguito della modifica apportata alla L. cit., art. 23, u.c., dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 26 che tuttavia nulla ha previsto per il relativo rito), è stato affermato il più specifico principio (costituente corollario logico di quello generale in precedenza enunciato), secondo cui in tema di opposizione a sanzioni amministrative le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado non possono ritenersi automaticamente estensibili anche a quello di appello, in mancanza di una espressa disposizione in tal senso (v. Cass. n. 14520/09 e S.U. n. 23285/10, in tema di difesa personale della parte, e S.U. n. 23594/10, con riferimento alla competenza in grado di appello, in deroga alle speciali regole sul foro erariale).

Sulla scorta dei suesposti principi generali,dai quali il collegio non ravvisa ragioni per doversi discostare, deve ritenersi dunque che, in assenza di alcuna disposizione prevedente, nella materia de qua che il giudizio di secondo grado debba introdursi con ricorso il gravame avrebbe dovuto essere proposto con atto di citazione, secondo le generali regole del processo ordinario contenute nell’art. 342 c.p.c. Ad ogni buon conto va pure considerato che la parte non si potrebbe comunque giovare dell’erroneo rito prescelto al fine di eludere il termine prescritto per l’impugnazione che è pur sempre considerato sulla base della notifica dell’atto introduttivo, per cui, anche a volersi considerare ammissibile l’introduzione del giudizio di appello con ricorso, sarebbe comunque necessario considerare la data della notifica del ricorso stesso e non quella antecedente del deposito in cancelleria.

L’accoglimento del primo motivo rende superfluo l’esame degli altri che vanno dichiarati assorbiti.

La sentenza impugnata va conseguentemente cassata senza rinvio.

Le spese del presente giudizio e di quello di appello seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri;

Cassa senza rinvio la sentenza impugnata;

Condanna la contro ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di appello liquidati in complessivi Euro 1.500,00 di cui Euro 900,00 per onorari, e del presente giudizio liquidati in Euro 20,00 oltre Euro 1.500,00 per onorari oltre IVA e C.P.A. Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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