Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-02-2012, n. 2407 Distanze legali tra costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 26 novembre 2005 il Tribunale di Forlì, Sezione distaccata di Cesena, in accoglimento delle domande proposte da P.M. e R.M., proprietari di un fabbricato nel Comune di (OMISSIS), condannò B.G. e B.L., proprietari confinanti, ad arretrare a distanza di tre metri dal confine le parti di ampliamento e di sopraelevazione del proprio edificio nella parte antistante quello degli attori, a regolarizzare le luci aperte sul lato ovest del loro edificio ed al pagamento della somma di Euro 5.000,00 a titolo di risarcimento dei danni, rigettando la loro domanda riconvenzionale diretta alla condanna all’arretramento alla distanza di tre metri della parte del garage degli attori aderente alla finestra del loro fabbricato.

Interposto appello principale da parte dei B. ed incidentale da P.M. e R.M., la Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 1084 del 15 settembre 2009, confermò integralmente la decisione impugnata, affermando, con riferimento all’appello principale, che la statuizione di condanna dei convenuti all’arretramento del proprio fabbricato trovava causa nella circostanza, accertata dalla consulenza tecnica d’ufficio, che l’intervento edilizio da loro effettuato sull’immobile costituiva un ampliamento del fabbricato, dal momento che aveva determinato un aumento sia dell’altezza che della volumetria, ed era pertanto soggetto alla disciplina sulla distanza legale tra costruzioni, reputando irrilevante, ai fini dell’applicazione della predetta normativa, sia l’intervenuta concessione in sanatoria, che l’assoluzione con formula piena in sede penale dei convenuti per il reato di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. b); che la statuizione di condanna era sufficientemente determinata ed eseguibile, secondo quanto accertato dal consulente tecnico d’ufficio, senza compromissione della stabilità dell’edificio; che, in relazione all’ordine di regolarizzazione delle luci poste sul lato ovest del fabbricato, era rimasta privo di riscontro probatorio la deduzione degli appellanti secondo cui esse sarebbero costituite di vetro opaco e deformante, in modo da non consentire di vedere verso l’esterno; che la domanda riconvenzionale diretta all’arretramento del garage degli attori in osservanza della distanza legale in materia di vedute trovava ostacolo nell’accertamento della consulenza tecnica d’ufficio, che aveva qualificato tali aperture come luci e non vedute, nonchè nel riconoscimento ad opera degli stessi convenuti della circostanza che tali aperture non consentivano un comodo affaccio; che correttamente il giudice di primo grado aveva posto a carico dei convenuti, per il principio di causalità e tenuto conto del grado maggiore di soccombenza, il pagamento delle spese di giudizio. Il giudice di appello rigettò inoltre l’appello incidentale proposto dagli attori in primo grado, reputando congrua la misura del risarcimento del danno liquidato in loro favore, tenuto conto che il pregiudizio relativo al deprezzamento del loro immobile era destinato ad essere eliminato per effetto dell’esecuzione dell’ordine di demolizione.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 1 dicembre 2009, con atto notificato il 27 gennaio 2010, propone ricorso, affidato a cinque motivi, B.G., precisando di essere divenuto unico proprietario del bene, per avere acquistato la quota di comproprietà della sorella E. con atto del 12 dicembre 2006.

Resistono con controricorso e propongono a loro volta ricorso incidentale, sulla base di un solo motivo, P.M. e R.M..

Con ordinanza del 17 dicembre 2010, questa Corte ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di B. E., adempimento che il ricorrente ha eseguito in data 16 marzo 2011.

B.L. non ha svolto attività difensiva.

Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Preliminarmente va precisato, in risposta all’eccezione sollevata dal difensore dei controricorrenti all’udienza di discussione, che la pare ricorrente ha tempestivamente adempiuto all’ordine di integrazione del contraddittorio disposto da questa Corte con ordinanza del 17 dicembre 2010, tenuto conto che essa, che stabiliva per tale adempimento il termine di 60 giorni dalla sua comunicazione, è stata comunicata alla parte ricorrente il 1 marzo 2011 e che l’atto di integrazione del contraddittorio è stato notificato a B.L. il 16 marzo successivo.

Tanto precisato, il primo motivo del ricorso principale, proposto dal B., denunzia falsa applicazione della L. n. 457 del 1978, art. 31 e degli artt. 872 e 873 cod. civ., per avere la Corte bolognese ritenuto che l’intervento edilizio eseguito dai convenuti costituisse ampliamento del fabbricato, con conseguente soggezione al rispetto delle disposizioni in materia di distanze legali tra gli edifici. Ad avviso del ricorrente tale conclusione muove da accertamenti errati della consulenza tecnica d’ufficio e non ha preso in considerazione le contestazioni e le diverse conclusioni della consulenza tecnica di parte e della sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto pronunciata dal giudice penale, che aveva rilevato che i lavori di ristrutturazione del fabbricato avevano comportato uno scarso aumento della superficie di calpestio e della volumetria dell’immobile ed un modesto innalzamento della copertura ed erano riconducibili a un mero adeguamento antisismico. Si sostiene pertanto che tali opere, non avendo interessato i muri maestri e non avendo creato in aggiunta superfici di calpestio o volumi autonomi, erano riconducibili a una mera ristrutturazione del fabbricato e non avevano dato luogo ad una nuova costruzione, come tale soggetta al rispetto delle distanze legali. Il motivo è infondato.

Il giudice distrettuale ha fondato la propria conclusione sull’accertamento in fatto, non censurato in questa sede sotto il profilo del vizio di motivazione, che l’intervento di ristrutturazione eseguito dagli appellanti sul proprio immobile aveva determinato "l’aumento dell’altezza del fabbricato e l’aumento del volume utile", precisando, mediante richiamo alla ricostruzione del fatto operata dal giudice di primo grado e dalla consulenza tecnica d’ufficio, che i lavori in oggetto erano consistiti nell’unificazione di due corpi di fabbrica in origine separati con elevazione della quota di altezza e con recupero parziale del solaio sottotetto e che tali opere non erano state determinate da alcuna esigenza di adeguamento antisismico della costruzione preesistente ed erano state eseguite in violazione delle norme tecniche di attuazione del Comune, tanto che i proprietari avevano chiesto la concessione in sanatoria.

Tanto precisato in fatto, la conclusione del giudicante che ha ritenuto la costruzione così modificata soggetta alla disciplina sulle distanze legali appare conforme all’orientamento di questa Corte, secondo cui, anche alla luce dei criteri di cui alla L. 5 agosto 1978, n. 457, art. 31, comma 1, lett. d), la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edifìcio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre deve considerarsi ampliamento, con conseguente soggezione alla disciplina delle distanze legali tra costruzioni, l’intervento edilizio che determini variazioni rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, aumenti della volumetria e dell’altezza (Cass. n. 21578 del 2011; Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n. 19287 del 2009). Del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte è inoltre il principio secondo cui la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione (Cass. n. 74 del 2011; Cass. n. 15527 del 2008). La semplice constatazione dell’aumento di superficie, di volumetria e di altezza operata dal giudice di merito è quindi di per sè sufficiente a ritenere l’intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e ad escludere l’esonero dall’osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.

Il secondo motivo del ricorso principale denunzia falsa applicazione della L. n. 1684 del 1962, artt. 5, 20 e 22, della L. n. 64 del 1974, artt. 3 e 1 e dell’art. 871 cod. civ., e difetto di motivazione, censurando la sentenza impugnata per avere affermato, mediante un rinvio acritico alla consulenza tecnica d’ufficio, la compatibilità dell’ordine di demolizione con l’assetto antisismico del fabbricato, ignorando tanto la sentenza penale, che aveva ricondotto l’innalzamento dello stesso proprio ai fini del sua adeguamento antisismico, quanto il parere del Servizio provinciale di difesa del suolo di Cesena, che aveva evidenziato che "per le opere così completate strutturalmente, non sarebbe possibile una parziale demolizione senza creare pregiudizio alla stabilità del fabbricato".

La Corte, infine, non ha nemmeno considerato che l’esecuzione dell’ordine di demolizione, se eseguito, comporterebbe un notevole e gratuito pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio. Sotto altro profilo si assume la nullità della statuizione di condanna per indeterminatezza del suo contenuto, non essendo in essa esattamente individuate le parti del fabbricato oggetto di demolizione.

Anche questo motivo è infondato.

Con riferimento alla prima censura, merita precisare che la sentenza impugnata ha risposto alle obiezioni degli appellanti B. affermando, mediante richiamo alla consulenza tecnica d’ufficio, "che la demolizione di qualunque parte del fabbricato è fattibile senza compromettere la staticità dell’edificio, qualora venga accompagnato da opere adeguate".

La valutazione così espressa, che integra un apprezzamento di fatto non censurabile nel merito dinanzi a questa Corte, si sottrae alle critiche sollevate, atteso che essa appare congruamente motivata mediante richiamo alle risultanze di causa, e, in particolare, agli accertamenti del consulente tecnico d’ufficio, e che, quel che più conta, non risulta contrastata dal ricorrente mediante l’illustrazione di specifici elementi di fatto, ma mediante meri giudizi e pareri discordanti.

La censura che lamenta l’omessa considerazione da parte del giudice di merito, ai fini dell’ordine di arretramento del fabbricato, dell’eventuale pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio, appare manifestamente infondata, in quanto introduce un tema irrilevante ai fini della risoluzione della questione controversa, atteso che nessuna norma di legge impone al giudice di considerare tale profilo ai fini dell’applicazione delle norme sulle distanze legali tra edifici e dell’adozione delle statuizioni conseguenti.

Priva di pregio è anche la doglianza che deduce la nullità della sentenza di condanna per indeterminatezza del suo contenuto, dovendosi rilevare per contro che essa non palesa tali profili e che comunque ogni questione relativa alla sua concreta applicazione riguarda la fase esecutiva e non quella dell’enunciazione del comando del giudice.

Il terzo motivo denunzia falsa applicazione dell’art. 900 cod. civ., e segg., e difetto di motivazione, censurando la statuizione della sentenza impugnata che ha ordinato la regolarizzazione delle luci poste sul lato ovest dell’edificio, assumendo l’erroneità di tale decisione dal momento che la parete in questione non presenta aperture di sorta, ma soltanto l’inserimento nel muro di blocchetti di vetrocemento.

Il mezzo è infondato.

La Corte di appello ha invero disatteso la contestazione dei convenuti affermando che la circostanza di fatto da essi rappresentata, vale a dire la presenza, in luogo delle aperture, di blocchetti di vetrocemento, era rimasta indimostrata, nessun elemento di prova essendo stato fornito al riguardo. Trattasi di valutazione di fatto congruamente motivata, che non appare contrastata da alcun specifico dato contrario.

Il quarto motivo, che denunzia falsa applicazione degli artt. 900 e 907 cod. civ. e difetto di motivazione, lamenta il rigetto della domanda riconvenzionale dell’attuale ricorrente diretta alla condanna all’arretramento alla distanza di tre metri della parte del garage degli attori aderente alla finestra del suo fabbricato. Tale conclusione, giustificata dal rilievo che tali aperture non costituirebbero vedute ma luce, sostiene il ricorso, muove da una errata valutazione dei fatti, non avendo il giudicante tenuto conto che tali finestre, pur se poste ad una certa altezza, possono essere comunque agevolmente manovrate e consentono una visione frontale ed obliqua sul fondo vicino. L’affermazione della sentenza secondo cui la apertura è posta ad un’altezza tale da non consentire ad una persona normale di guardare ed affacciarsi sul fondo vicino è inoltre giuridicamente irrilevante, atteso che per aversi veduta è sufficiente la possibilità di guardare e non anche quella di affacciarsi, sicchè la mancanza di tale ultimo requisito non può portare ad escluderne la configurabilità.

Il mezzo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Inammissibile in quanto investe un accertamento di fatto in ordine esatta collocazione delle aperture e alla possibilità di affaccio che la legge rimette all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e che non può essere riproposto nè censurato in sede di giudizio di legittimità.

Infondato in quanto, per giurisprudenza costante di questa Corte, i requisiti necessari per l’esistenza di una veduta sono non soltanto la inspectio ma anche la prospectio, la quale – ai sensi dell’art. 900 cod. civ., che non determina un comportamento tipico per l’atto di affacciarsi – consiste nella possibilità di vedere e guardare non solo di fronte, ma obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino, in modo da consentirne una visione mobile e globale (Cass. n. 5421 del 2011). Ne consegue che, poichè la natura di veduta o luce deve essere accertata dal giudice di merito alla stregua delle caratteristiche oggettive dell’apertura stessa, rimanendo a tal fine irrilevante l’intenzione del suo autore o la finalità dal medesimo perseguita, un’apertura che non consente di affacciarsi sul fondo vicino può configurarsi solo come luce, anche se consenta di guardare con una manovra di per sè poco agevole per una persona di normale conformazione (Cass. n. 233 del 2011).

Il quinto motivo del ricorso principale lamenta il rigetto del motivo di appello sulla condanna alle spese, osservando che in presenza di soccombenza reciproca il giudice avrebbe dovuto compensarle almeno in parte.

Anche quest’ultimo motivo va disatteso.

La Corte di appello ha confermato la condanna dei convenuti al pagamento delle spese di lite di primo grado in ragione della considerazione che essi dovevano ritenersi maggiormente soccombenti rispetto alla controparte, che tale poteva considerarsi solo con riguardo alla quantificazione del danno lamentato.

La statuizione così adottata appare adeguatamente motivata e si sottrae ad ogni censura di violazione di legge, costituendo l’esito di una valutazione discrezionale non censurabile in sede di legittimità. E’ noto, infatti, che, in tema di regolamento delle spese processuali, il controllo di questa Corte è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che non è soggetta a tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (Cass. n. 406 del 2008; Cass. n. 16012 del 2002; Cass. n. 14095 del 2002; Cass. 9840 del 1996).

L’unico motivo del ricorso incidentale denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte abbia confermato la statuizione di primo grado che aveva quantificato il risarcimento del danno nella cifra irrisoria di Euro 5.000,00, senza considerare il grave nocumento ricevuto dagli attori e che lo stesso consulente tecnico d’ufficio aveva quantificato il deprezzamento del loro immobile nella somma di Euro 37.500,00.

Il motivo è infondato.

Dalla lettura del capo relativo della decisione impugnata emerge che la Corte di appello ha quantificato il danno subito dagli attori tenendo conto che il pregiudizio da loro sofferto aveva carattere temporaneo, in quanto destinato ad essere eliminato in forza dell’attuazione dell’ordine di arretramento della costruzione dei convenuti disposto in sentenza. Trattasi di motivazione che, oltre a non risultare specificatamente censurata dai ricorrenti, appare senz’altro adeguata a giustificare il discostamento dalla valutazione del consulente tecnico, che, deve presumersi, in mancanza di indicazioni contrarie, aveva preso in considerazione il nocumento definitivo subito dal loro immobile.

Anche il ricorso incidentale va pertanto respinto.

Tenuto conto della parziale soccombenza dei controricorrenti, si dispone la compensazione per la metà delle spese di lite, restando l’altra metà a carico del ricorrente in via principale.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale proposto da B.G. e quello incidentale avanzato da P.M. e R.M.;

compensa per la metà le spese di giudizio tra le parti e condanna B.G. al pagamento dell’altra metà, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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