Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-07-2011) 30-09-2011, n. 35576 Applicazione della pena

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 16-23 dicembre 2010 il Tribunale di Pordenone ha applicato a T.M.R., a seguito di patteggiamento, la pena di anni uno di reclusione ed Euro 400,00 di multa per i reati di falso e di truffa aggravata.

Avverso tale sentenza la T. ha proposto ricorso per cassazione lamentando l’erronea qualificazione giuridica del fatto, che si sarebbe dovuto ascrivere nella più lieve fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., in luogo dei reati contestati.

Il ricorso è inammissibile.

Questa Corte ha ripetutamente affermato, anche a sezioni unite, che pure in caso di patteggiamento, è dovere indeclinabile del giudice esaminare gli atti del procedimento al fine di riscontrare se, restando immutato il fatto che forma oggetto della contestazione, esso non debba essere ricondotto sotto un diverso titolo di reato. Ed infatti la qualificazione giuridica del fatto è materia sottratta alla disponibilità delle parti e l’errore su di essa costituisce un errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), (v. Cass. Sez. Un. 19 gennaio 2000, n. 5; Cass. Sez. Un. 25 novembre 1998, n. 3; più di recente: Cass. 15 dicembre 2010, n. 36; Cass. 29 gennaio 2010, n. 14314).

Tale preliminare verifica della corretta qualificazione giuridica del fatto, propedeutica anche ad una eventuale pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. (ad esempio nel caso in cui ad una diversa qualificazione del fatto consegua l’applicazione di un più breve termine prescrizionale, già decorso), consiste in una ricognizione allo stato degli atti, che può condurre a una conclusione diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa, solo quando le risultanze disponibili rendano palese l’obiettiva esistenza di elementi di fatto che devono essere sussunti in una fattispecie differente da quella contestata.

Ciò in quanto la richiesta consensuale di applicazione della pena costituisce una scelta processuale che implica la rinuncia da parte dell’imputato a contestare l’accusa mediante l’abdicazione all’esercizio del diritto alla prova (Cass. Sez. Un. 27 ottobre 1999, n. 20). Sicchè l’opzione del patteggiamento preclude la possibilità di contestare i termini fattuali dell’imputazione ed ogni questione relativa alla qualificazione giuridica del fatto resta legata ad eventuali elementi precisi e completi di giudizio che emergano inoppugnabilmente, ictu oculi, dagli atti processuali.

Consegue che, qualora il fatto oggettivo descritto nell’imputazione possa essere alternativamente ascritto a due differenti fattispecie criminose, a seconda di ulteriori elementi fattuali che non emergono chiaramente dagli atti, il giudice cui è richiesto il patteggiamento non ha la facoltà di compiere ulteriori approfondimenti e deve attenersi alla qualificazione giuridica sulla quale si è formato l’accordo delle parti.

La questione assume particolare rilievo in ipotesi di fattispecie criminose contigue -ad esempio furto con strappo e rapina – nelle quali il titolo di reato dipende dall’accertamento positivo o negativo di taluni elementi di fatto. In simili circostanze, salvo il caso in cui l’elemento decisivo non emerga dagli atti in modo manifesto, il giudice deve arrestarsi alla qualificazione contenuta nell’imputazione e rispetto alla quale le parti hanno raggiunto l’accordo sulla pena, giacchè il patteggiamento implica anche la rinunzia dell’imputato allo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale da cui potrebbe risultare che il fatto realmente commesso è diverso da quello contestato.

Si deve quindi affermare il seguente principio di diritto: in tema di patteggiamento, il potere-dovere del giudice di verificare la corretta qualificazione del fatto contestato, anche ai fini di una eventuale pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p.. non può spingersi oltre gli elementi fattuali che emergono ictu oculi dagli atti processuali, con la conseguenza che, ove un diverso titolo del reato dipenda da un elemento non univocamente acquisito alle evidenze processuali, il giudice non può procedere, neppure in favor rei, all’inquadramento del fatto in una fattispecie criminosa differente da quella sulla quale si è formato l’accordo delle parti.

Ciò posto, con particolare riferimento al caso di specie – ossia all’alternativa fra i reati di cui agli artt. 640 e 316 ter c.p. – occorre richiamare la copiosa produzione di questa Corte, secondo cui "la linea di discrimine tra il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni e quello di truffa aggravata finalizzata al conseguimento delle stesse va ravvisata nella mancata inclusione tra gli elementi costitutivi del primo reato della induzione in errore del soggetto passivo. Pertanto qualora l’erogazione consegua alla mera presentazione di una dichiarazione mendace senza costituire l’effetto dell’induzione in errore dell’ente erogante circa i presupposti che la legittimano, ricorre la fattispecie prevista dall’art. 316 ter c.p. e non quella di cui all’art. 640-bis c.p." (Cass. 26 giugno 2007, n. 30155; v. pure Cass. sez. un. 16 dicembre 2010, n. 7537). Si tratta, quindi, di due fattispecie immediatamente contigue, il cui elemento differenziante non emerge con immediata evidenza dagli atti processuali. Pertanto, correttamente il giudice di merito si è attenuto, nell’avallare la richiesta di patteggiamento, alla qualificazione dei fatti contenuta nell’atto di imputazione.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2011

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