Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-02-2012, n. 2499 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza n. 1730/2006, rigettava l’appello proposto da Poste italiane spa, nei confronti di B.B., in riferimento alla sentenza del Tribunale di Firenze del 15 dicembre 2003.

Il giudice di primo grado aveva dichiarato che tra Poste italiane spa e la B. era intervenuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato sin dal 1 dicembre 1999. Quindi, ritenuta la nullità parziale del contratto a termine, il Tribunale aveva condannato il datore di lavoro al ripristino del rapporto con pagamento delle retribuzioni a decorrere dalla data di richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, oltre alle spese di lite.

2. Per la cassazione della suddetta sentenza, ricorre Poste italiane spa, prospettando quattro motivi di ricorso.

3. Resiste la B. con controricorso.

4. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., con la quale ha dedotto in ordine allo ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32. 5. Anche B.B. ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Motivazione semplificata.

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ( art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3).

Ad avviso del ricorrente, erroneamente, in ragione della giurisprudenza in materia, il giudice di appello avrebbe ritenuto non provato il nesso tra l’assunzione delle appellate e gli eventi citati nei capitoli di prova, richiedendo la specificazione di una causale collettiva in una causale individuale.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se, in virtù della delega in bianco contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23, l’autonomia sindacale investita da funzioni paralegislative non incontra limiti ed ostacoli di sorta nella tipologia dei nuovi contratti a termine in relazione alle ipotesi che ne legittimano la conclusione e se, la norma contrattuale debba necessariamente prevedere una specificazione della causale collettiva in una causale individuale per rendere legittima l’assunzione a termine, e non valga invece il principio secondo cui proprio la ampiezza della delega alle parti sociali porti a ritenere che sia stata in generale ammessa la possibilità di individuare in astratto le condizioni per il ricorso alle assunzioni a termine avendo il legislatore voluto costituire sufficiente garanzia di legalità la valutazione operata da parti sociali particolarmente qualificate.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ( art. 360 c.p.c., n. 1, comma 3); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se il sistema delineato dalla legge preveda la necessità che – ove le nuove ipotesi di contratto a termine siano dotate di particolare ampiezza tale da capovolgere il rapporto tra la regola generale dell’assunzione a tempo indeterminato e l’assunzione a termine – la norma contrattuale debba necessariamente avere un efficacia temporale limitata.

3. I primi due motivi di impugnazione devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

3.1. Gli stessi non sono fondati. In primo luogo non può prescindersi dal dato temporale dello specifico contratto a termine.

Lo stesso è stato concluso con decorrenza 1 dicembre 1999.

Per i contratti che ricadono temporalmente nella previsione di cui al D.L. n. 510 del 1996, art. 9, convertito nella L. n. 608 del 1996, opera la previsione che "che le assunzioni a tempo determinato effettuate dall’ente poste nel periodo compreso dal 26 novembre 1994 al 30 giugno 1997 decadono allo scadere del termine finale di ciascun contratto e non possono quindi dare luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato" (v. Cass., n. 13515 del 2001, Cass., n. 668 del 2002, Cass.,n. 2615 del 2002).

Tale norma eccezionale (che, giustificata da esigenze peculiari nella fase di transizione tra il regime pubblicistico e il regime privatistico, ha superato il vaglio di costituzionalità, v. C. cost. n. 419 del 2000), "esprime con chiarezza l’intento di rendere temporaneamente inoperanti, a tutti i contratti conclusi nel determinato arco di tempo, le disposizioni della legge n. 230 del 1962 e successive modifiche" (v. Cass., n. 2615 del 2002 cit.).

Per i contratti successivi al detto periodo ed anteriori al CCNL dell’11 gennaio 2001 (nonchè al nuovo regime previsto dal D.Lgs. n. 348 del 2001), tra i quali va ricompreso quello oggetto della fattispecie in esame, vanno applicati i principi più volte affermati da questa Corte in materia, in base ai quali, sulla scia di Cass., S.U., n. 4588 del 2006, è stato precisato che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali, sulle necessità del mercato del lavoro, idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali e di provare la sussistenza del nesso causale fra le mansioni in concreto affidate e le esigenze aziendali poste a fondamento dell’assunzione a termine (v. fra le altre Cass., n. 15981 del 2009, Cass, n. 21063 del 2008, v. anche Cass., n. 9245 del 2006, Cass. n. 4862 del 2005, Cass. n. 14011 del 2004).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass., n. 18383 del 2006, Cass., n. 7745 del 2005, Cass., n. 2866 del 2004), per cui, come ripetutamente affermato da questa Corte, deve ritenersi che "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230" (v., fra le altre, Cass., n. 20608 del 2007, Cass., n. 7979 del 2008).

Peraltro, tale limite temporale (del 30-4-1998) non riguarda i contratti stipulati ex art. 8 CCNL 1994 per "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie" (per i quali v. fra le altre Cass., n. 4933 del 2007), mentre, per quanto riguarda la proroga di trenta giorni prevista dall’accordo 27 aprile 1998, per i contratti in scadenza al 30 aprile 1998, la giurisprudenza costante di questa Corte ne ha affermato la legittimità, sulla base della sussistenza, riconosciuta in sede collettiva, delle esigenze contingenti ed imprevedibili, connesse con i ritardi che hanno inciso negativamente sul programma di ristrutturazione (v. fra le altre Cass., n. 19696 del 2007).

3.2. Correttamente, in attuazione dei suddetti principi di diritto, e con congrua motivazione, la Corte d’Appello ha ritenuto che il contratto a termine, essendo stato concluso dopo il 30 aprile 1998 e prima dell’operatività del CCNL 2001, non rinveniva una valida fonte collettiva – attuativa dell’autonomia introdotta dalla delegificazione del 1987 – idonea legittimare l’assunzione a termine della B..

4. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ( art. 360 c.p.c., n. 1, comma 3); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Ad avviso del ricorrente, in ordine alla richieste economiche, la domanda di condanna non appariva supportata dal benchè minimo elemento probatorio ex art. 2697 c.c.. Il quesito di diritto ha il seguente oggetto: se in caso di domanda di risarcimento danni proposta dal lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore di lavoro fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da "scioglimento del rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale nulla" e se tale danno può equivalere alle retribuzioni perdute – detratto l’aliunde perceptum – a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, e se presuppone che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le abbia illegittimamente rifiutate; se il risarcimento è da escludere ove si accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita delle retribuzioni) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti per prestazioni lavorative svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro.

4.1. Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la società ricorrente, invoca, altresì, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32. 4.2. Il motivo è inammissibile.

Va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass., n. 10547 del 2006). In tale contesto, è, altresì, necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (Cass., n. 80 del 2011).

In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Il quesito di diritto, che la norma del codice di rito richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve infatti essere formulato, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass., S.U., n. 36 del 2007), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico o non pertinente.

In proposito, come rilevato da Cass., S.U., n. 2658 del 2008, a fini indicativi "potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata", le ragioni della cui erroneità sono adeguatamente illustrate nel motivo.

Il quesito di diritto sopra richiamato è generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Ciò tenuto conto che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, a condizione che il datore stesso sia stato posto in una condizione di "mora accipiendi" (individuata nella specie nella notifica del ricorso, contenete la esplicita domanda di riammissione in servizio) senza, peraltro, che si configuri l’automatica equivalenza del risarcimento ai compensi retributivi perduti, poichè tale automatismo è da escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita della retribuzione) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti per prestazioni lavorative svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro (Cass., n. 24886 del 2006, n. 4677 del 2006).

Nel caso in esame la genericità, astrattezza e quindi non pertinenza del quesito ne determina l’inammissibilità del relativo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. 5. Con il quarto motivo di impugnazione, assistito dal prescritto quesito di diritto, è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, art. 1362 c.c., comma 2, art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio.

La Corte fiorentina non avrebbe valutato una serie di circostanze che potevano qualificare il comportamento della B. come tacita acquiescenza alla risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso tacito, in ragione della mancanza di qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto di un contratto con termine in ipotesi illegittimamente apposto.

5.1. Il motivo è inammissibile. Per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo la Corte di Cassazione abilitata all’esame diretto degli atti delle cause di merito, salvo quanto affermato dalla giurisprudenza per l’art. 360 c.p.p., comma 1, n. 4, il ricorrente avrebbe dovuto trascrivere in ricorso (in modo completo o quantomeno nelle parti salienti) le eccezioni sollevate nei precedenti gradi di giudizio e dimostrare che era stata prospettata la censura rispetto alla quale si deduce il vizio di motivazione e che la stessa fosse rilevante.

Di conseguenza questa Corte non è stata messa in grado di valutare la fondatezza e la decisività della censura.

6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Motivazione semplificata.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro tremila per onorario, Euro 50,00 per esborsi, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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