Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-02-2012, n. 2632 CE Formazione professionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato in data 25 settembre 1992 C.A. ed altri 119 specializzandi in medicina e chirurgia iscritti dall’anno accademico 1990/1991 (ad eccezione di S.G. e M.S., immatricolati nell’anno 1989/1990) avevano convenuto in giudizio dinanzi al Giudice del lavoro di Bologna il Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica (nelle more del giudizio, divenuto Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca), il Ministero della sanità (nelle more del giudizio, Ministero della salute), il Ministero del tesoro (nelle more del giudizio, Ministero dell’economia e delle finanze) e l’Università degli studi di Bologna (nelle more del giudizio Alma mater studiorum – Università di Bologna), al fine di far "accertare nei loro confronti il diritto ad una adeguata retribuzione nonchè gli altri diritti loro riconosciuti dalle direttive CEE/75/362, 75/363, 82/76" e di far condannare le Amministrazioni stesse "al pagamento delle somme dovute con relativi interessi e rivalutazione, da quantificarsi nel loro esatto ammontare nel corso di causa". La domanda fondava sul fatto che essi, essendo stati immatricolati nelle scuole di specializzazione di medicina a partire dagli anni accademici summenzionati, non avevano ricevuto dall’università la remunerazione prevista dal legislatore comunitario per la partecipazione a tali corsi, a causa del tardivo recepimento della direttiva comunitaria da parte della Stato italiano.

L’adito Tribunale – giudice del lavoro di Bologna (dopo la pronuncia della decisione resa in data 25 febbraio 1999 dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea alla quale, con ordinanza del 2 dicembre 1996, il giudizio era stato rimesso per la decisione sulla questione pregiudiziale concernente la richiesta pronuncia interpretativa della direttiva CEE/82/76), con sentenza del 29 novembre 2002, accolse le domande dei ricorrenti nei confronti dell’Università degli Studi di Bologna, condannando quest’ultima a corrispondere agli stessi, quale "adeguata remunerazione", la somma di Euro 11.103,82 ciascuno, per ogni anno di iscrizione e di frequenza alla scuola di specializzazione a partire dall’anno accademico 1991/1992 e la somma di Euro 6.713,94 per ogni anno precedente, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze annuali al saldo; contestualmente, il Tribunale assolse da ogni domanda i Ministeri convenuti.

Contro tale sentenza proposero appello principale l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e appello incidentale i Ministeri nonchè gli originari ricorrenti, per cui, al termine del relativo giudizio, l’adita Corte di appello di Bologna – con sentenza del luglio 2005 (e successiva ordinanza in data 28 dicembre 2005, di correzione di errore materiale) -, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannò in solido l’Università di Bologna e i tre Ministeri al pagamento di Euro 6.700,00 per l’anno 1989/1990, Euro 10.000,00 per l’anno 1990/1991, Euro 11.104,00 per l’anno 1991/1992 e per ognuno degli anni successivi secondo i periodi di servizio prestati da ciascun appellato (con detrazione dell’importo a titolo di "borsa di studio" eventualmente percepito in Euro 6.714,00 all’anno), oltre agli interessi legali maturati dalle singole scadenze; compensando tra le parti le spese di giudizio.

Avverso tale sentenza l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna propose ricorso per cassazione, sostenuto da quattro motivi, mentre C.A. e 108 (dei 120) intimati, oltre a resistere, proposero ricorso incidentale, sostenuto da un motivo, come separatamente fece P.L. con un unico motivo. Anche i Ministeri proposero ricorso incidentale sostenuto da cinque motivi, con il primo dei quali riproposero la questione concernente il già eccepito e respinto difetto di giurisdizione.

A sostegno del ricorso "principale" l’Università dedusse: 1) l’omessa motivazione della sentenza sull’eccezione di nullità del ricorso per indeterminatezza delle domande azionate e conseguente nullità della sentenza; 2) la violazione dell’art. 2697 c.c. e l’omessa motivazione in ordine alla valutazione delle prove raccolte;

3) l’insufficiente e contraddittoria motivazione quanto ai criteri utilizzati per il calcolo dell’adeguata "remunerazione"; 4) l’insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine all’eccepito difetto di legittimazione passiva dell’Università.

Nei distinti ricorsi incidentali gli originari ricorrenti censurarono la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di appello di Bologna aveva ammesso la produzione tardiva di documenti ex parte pubblica e nella parte in cui aveva escluso la rivalutazione monetaria sulle somme giudizialmente riconosciute.

A sostegno del ricorso incidentale, i Ministeri specificarono i seguenti motivi, oltre a quello relativo al difetto di giurisdizione:

1) nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112, 334 e 343 c.p.c.; 2) violazione e falsa applicazione delle direttive CEE nn. 75/362, 75/363 e 82/76 nonchè del D.Lgs. n. 257 del 1991, artt. 1, 4, 5, 6 e 8; 3) vizi di motivazione sulla quantificazione della avversa pretesa, sia in termini di allegazione, che di prova; 4) violazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6, L. n. 370 del 1999, art. 11, D.Lgs. n. 368 del 1999, artt. 1 e 34, L. n. 428 del 1990, art. 6, quanto all’individuazione del soggetto obbligato.

La questione di giurisdizione venne respinta dalle sezioni unite di questa Corte con sentenza n. 24665 del 28 novembre 2007, mentre la sezione lavoro, cui la causa venne restituita dopo la soluzione della questione di giurisdizione, accolse con sentenza 18 giugno 2008 n. 16507 unicamente il terzo (secondo nell’elencazione che precede) motivo di ricorso dei Ministeri nei limiti del seguente principio di diritto: "prima dei loro recepimento nell’ordinamento, avvenuto con il D.Lgs. n. 257 del 1991, le direttive CEE 362/75 e CEE 82/76, che prevedevano la adeguata remunerazione per la partecipazione alle scuole di specializzazione afferenti alle facoltà di medicina che comportasse lo svolgimento delle attività mediche del servizio in cui si effettuava la specializzazione, con dedizione a tale formazione pratica e teorica per l’intera settimana lavorativa e per tutta la durata dell’anno, secondo le disposizioni fissate dalle autorità competenti, non era, in considerazione del suo carattere non dettagliato, applicabile nell’ordinamento interno", cassando conseguentemente la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Torino per il riesame della controversia sulla base di quanto statuito sub "capo 6" e del relativo principio di diritto ivi indicato.

Riassunto dalla Alma Mater Studiorum – Università di Bologna – il giudizio avanti la Corte designata, questa, con sentenza depositata il 23 novembre 2009, ha respinto le domande degli originari ricorrenti, che ha condannato a restituire all’Università le somme loro corrisposte in esecuzione della sentenza di appello della Corte territoriale di Bologna, specificandone i singoli importi, con gli interessi dalla data di pagamento, anch’essa specificata in dispositivo.

In particolare, la Corte d’appello di Torino ha anzitutto ricordato il quadro normativo di riferimento, rappresentato da:

1 – le direttive più volte citate, alla stregua delle quali la formazione necessaria per il conseguimento del titolo di medico specialista a tempo pieno o ridotto (e comportante lo svolgimento di tutte le attività mediche del servizio in cui si svolge, con dedizione per l’intera settimana lavorativa e per tutta la durata dell’anno o per un periodo minore e sotto il controllo delle autorità competenti) deve formare oggetto di adeguata remunerazione;

2 – il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, che, con ritardo di oltre otto anni, ha dato attuazione in Italia a tali direttive;

3 – la sentenza della Corte di giustizia 25 febbraio 1999, C., in causa C-131/97, resa nel corso del giudizio di primo grado relativo alla presente controversia, secondo cui le direttive indicate "devono essere interpretate nel senso che: l’obbligo di retribuire in maniera adeguata i periodi di formazione dei medici specialisti s’impone unicamente per le specialità mediche comuni a tutti gli Stati membri o a due o più di essi e menzionate agli arti.

5 e 7 della direttiva del Consiglio 75/362; tale obbligo è incondizionato e sufficientemente preciso nella parte in cui richiede, affinchè un medico specialista possa avvalersi del sistema di reciproco riconoscimento istituito dalla direttiva 75/362, che la sua formazione si svolga a tempo pieno e sia retribuita; il detto obbligo non consente tuttavia di per sè al giudice nazionale di identificare il debitore tenuto a versare la remunerazione adeguata nè l’importo della stessa".

Richiamato altresì il principio di diritto enunciato da questa Corte in sede di cassazione con rinvio, più sopra riprodotto, la Corte territoriale ha anzitutto escluso, alla stregua di quest’ultimo, la fondatezza delle domande relative ai periodi di formazione anteriori alla entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991 e quindi in relazione agli anni accademici precedenti quello del 1991-1992.

La Corte territoriale ha altresì escluso la fondatezza delle domande relative agli anni accademici a partire da quello del 1991-1992, ritenendo che il citato decreto legislativo abbia come destinatari unicamente gli iscritti per la prima volta in tale anno accademico alle scuole di specializzazione, all’uopo organizzate secondo le disposizioni di cui al decreto legislativo medesimo, in conformità di quanto indicato nelle direttive.

Per la cassazione di tale sentenza propongono ora ricorso C. A. e i litisconsorti in epigrafe indicati, affidandolo a quattro motivi.

Resistono con controricorso gli intimati, tra i quali il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ha altresì proposto ricorso incidentale, cui ha resistito con controricorso l’Università.

Sia i ricorrenti principali che l’Università hanno depositato una memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Il ricorso principale denuncia:

1) la violazione dell’art. 384 c.p.c., dell’art. 288, comma 3 e art. 267 TFUE nonchè della sentenza della Corte di giustizia 25 febbraio 1999, C., in causa C-131/97, dei principi del primato del diritto comunitario, dell’efficacia diretta delle sue disposizioni e dell’obbligo di interpretazione conforme nonchè del principio comunitario di eguaglianza, come elaborato nella sentenza Jonkmann della Corte di giustizia.

2) la violazione dell’art. 384 c.p.c., del D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6 e art. 8, comma 2, dell’obbligo di rispettare le pronunce della Corte di giustizia ex art. 267 TFUE, dei principi del primato del diritto comunitario e dell’obbligo di interpretazione conforme, dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, e dei principi stabiliti dalla Corte Cost. con la sentenza n. 113/85. 3) la violazione dell’art. 384 c.p.c., del principio della res indicata, degli artt. 11 e 117 Cost., del principio comunitario di eguaglianza, dell’art. 3 Cost., e richiesta subordinata di rimessione di questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.

4) Violazione dell’art. 112 c.p.c., e del giudicato della Corte di giustizia.

Col ricorso incidentale il M.I.U.R. chiede la cassazione della sentenza, f in ordine alla quale denuncia la violazione dell’art. 1292 c.c..

Motivi della decisione

1 – I ricorsi, principale e incidentale, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto investono la medesima sentenza.

2a – Col primo motivo i ricorrenti principali sostengono che, pur attenendosi al principio di diritto enunciato da questa Corte in sede di rinvio e quindi escludendo che per gli anni precedenti l’anno accademico 1991-1992 possa ritenersi direttamente applicabile la direttiva n. 82/76, i giudici di merito, anche per evitare la violazione del principio di eguaglianza come solennemente affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza 21 giugno 2007, cause riunite C-231/06, Jonkmann, avrebbero dovuto valutare se nell’Ordinamento interno dello Stato Italiano fossero presenti altre norme, le quali, con interpretazione adeguatrice, consentano di raggiungere gli obiettivi propostisi dalla direttiva comunitaria; in proposito, indicano, come decisivi, l’artt. 36 Cost. nonchè la L. n. 370 del 1999, art. 11, utilizzabile quest’ultimo quale parametro di riferimento per la determinazione dell’importo dovuto per gli anni accademici precedenti quello del 1991-1992. 2b – Col secondo motivo, il ricorso principale investe la pronuncia di rigetto delle domande relativamente al periodo dall’anno accademico 1991-1992 in poi, ritenuta fondata su di una lettura del D.Lgs. n. 257 del 1991, errata, contrastante col principio per cui le disposizioni del diritto nazionale, specie se adottate allo scopo di dare attuazione ad una direttiva comunitaria, devono essere interpretate in maniera da consentire a quest’ultima di raggiungere i suoi scopi e contrastante altresì con la pronuncia della Corte di giustizia citata, intervenuta nel corso del presente processo e con il vincolo derivante dal principio di diritto enunciato da questa Corte in sede di rinvio, il quale avrebbe imposto ai giudici di merito una nuova pronuncia unicamente sulle domande relative agli anni accademici precedenti quello del 1991-1992.

Del resto, dall’anno accademico 1991-1992 tutti gli specializzandi erano soggetti al tempo pieno, senza distinzione, nel processo di formazione, tra iscritti per la prima volta e iscritti già dagli anni precedenti, come sarebbe stato affermato in giudizio dal rappresentante del Governo italiano nell’udienza avanti alla Corte di giustizia relativa alla causa C..

2c – Col terzo motivo la sentenza impugnata viene censurata per avere rimesso in discussione dati ormai definitivamente accertati in giudizio, quale il fatto che i ricorrenti avessero dall’anno accademico 1991-1992 i medesimi impegni del personale neo iscritto ai corsi di specializzazione, per cui non sarebbe riferibile a tale situazione la valutazione di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della diversità di trattamento e della violazione dell’art. 36 Cost., in altra occasione ritenuta dalla Corte e anzi dovrebbe applicarsi il principio generale di diritto comunitario per cui in sede di attuazione delle direttive, gli Stati membri devono garantire il trattamento analogo di situazioni identiche.

2d) Col quarto motivo il ricorso investe l’affermazione della sentenza secondo la quale l’azione svolta in giudizio non possa essere qualificata come di risarcimento danni imputabili alla responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, con riguardo ai medici iscritti alle scuole di specializzazione antecedentemente all’anno accademico 1991-1992, prospettazione da ritenere non domanda nuova, trattandosi dei medesimi fatti già dedotti in giudizio, visti in una prospettiva giuridica diversa (Cass. n. 9147/09).

In via subordinata, i ricorrenti rilevavano che ove si ritenga che la direttiva comunitaria difetti di alcuni elementi per ritenere che attribuisca posizioni giuridiche perfette e sia ritenuto impossibile una sua interpretazione adeguatrice, la direttiva stessa fungerebbe da parametro interposto di legittimità della legge interna ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost..

3 – Col ricorso incidentale, il M.I.U.R. denuncia la violazione dell’art. 1292 cod. civ., nella parte in cui la Corte di rinvio ha condannato gli originari ricorrenti a restituire gli importi ricevuti all’Università, anzichè al Ministero che tali importi aveva consegnato, nella parte capitale, per il pagamento all’Università. 4a – Preliminarmente la sentenza impugnata va confermata nella parte in cui ha qualificato la domanda originaria come diretta ad ottenere l’adempimento da parte dei convenuti dell’obbligazione di erogare una adeguata remunerazione agli specializzandi, ricorrendone le condizioni stabilite dalle citate direttive comunitarie, ancorchè queste siano state tardivamente recepite nell’Ordinamento interno dal legislatore italiano.

Tanto risulta chiaramente dalle conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio, il cui contenuto è stato riprodotto nel ricorso per cassazione, di "accertare nei loro confronti il diritto ad una adeguata retribuzione nonchè gli altri diritti loro riconosciuti dalle direttive CEE/75/362, 75/363, 82/76" e di condannare le Amministrazioni "al pagamento delle somme dovute con relativi interessi e rivalutazione, da quantificarsi nel loro esatto ammontare nel corso di causa".

Così del resto la domanda è stata intesa dai giudici di Bologna e da questa stessa Corte di cassazione nell’enunciare, cassando con rinvio la decisione della Corte d’appello di Bologna, il principio di diritto sopra riportato, mentre solo nel giudizio di rinvio e ancora oggi i ricorrenti tardivamente prospettano (come sembra, in via subordinata o comunque in via alternativa) la possibile diversa qualificazione della domanda come di risarcimento danni per il mancato e tardivo recepimento della direttiva; esponendosi così comunque alla immediata fondata obiezione della Corte torinese che, nel caso, altra avrebbe dovuto essere, se non altro, l’Amministrazione convenuta, vale a dire la Presidenza del consiglio dei ministri (la replica dei ricorrenti principali secondo cui in altri analoghi giudizi con amministrazioni convenute sostanzialmente identiche, questa Corte abbia ritenuto corretta la qualificazione e l’accoglimento della domanda in termini di risarcimento danni – ad es. Cass. S.U. n. 9147 e 10813/11; ma diversamente, v. Cass. n. 22440/09 – non appare decisiva, non essendo stato evidentemente l’argomento proposto in quella sede).

E’ pertanto infondato il quarto motivo di ricorso nella parte in cui prospetta la qualificazione delle domande iniziali degli originari ricorrenti in termini di azione di risarcimento danni per mancata introduzione nell’Ordinamento interno di una direttiva comunitaria.

4b – Altrettanto corretta appare la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso, alla stregua del principio di diritto formulato in sede di cassazione con rinvio da questa Corte, il diritto degli specializzandi ad una adeguata remunerazione per il periodo antecedente l’anno accademico 1991-1992, quando non era stata data attuazione in Italia alla direttiva CEE 82/76 e questa non aveva, come precisato dalla Corte di giustizia nella sentenza C., efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati, in considerazione del suo carattere non dettagliato quanto alla determinazione della remunerazione adeguata e alla individuazione dell’ente tenuto alla relativa erogazione.

Citando ancora la sentenza C. della Corte di giustizia (punti 48, 49 e 50), i ricorrenti ricordano peraltro il principio da quest’ultima costantemente affermato (nel caso che il diritto comunitario non sia munito di efficacia diretta nello Stato) di necessaria interpretazione adeguatrice del diritto interno, che si impone al giudice nazionale, al quale è richiesto, specialmente dopo, ma anche prima che sia entrata in vigore la legge che traspone la direttiva nell’ordinamento interno, di "interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189, comma 3, del Trattato CEE" attingendo eventualmente all’"insieme delle disposizioni di diritto nazionale".

I ricorrenti sottolineano come nel caso di specie dovrebbe essere decisivo, sul piano considerato, il richiamo all’art. 36 Cost., letto anche alla luce dell’ampiezza attribuita al principio comunitario di eguaglianza (sentenza Jonkmann in causa C-231/06), il quale consentirebbe sia di individuare il soggetto tenuto a remunerare l’attività professionale degli specializzandi, sia l’ammontare di tale remunerazione dovuta, facendo riferimento a quella stabilita dal D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 o ad una quota di essa. E lamentano che la Corte torinese non abbia raccolto in proposito il suggerimento proveniente dalla Corte di giustizia.

Senonchè, va rilevato in iure che il richiamo all’art. 36 Cost., presuppone la qualificazione del rapporto degli specializzandi con l’università come rapporto di lavoro subordinato, qualificazione (la quale, ove pure potesse ritenersi rinvenibile nelle espressioni usate dalla direttiva, di per sè non è vincolante per gli Stati membri:

Cass. n. 9147/09 e 9789/95) esclusa dalla giurisprudenza costante di questa Corte (cfr. Cass. nn. 27481/08, 20403/09, 22440/09, anche alla luce dell’esplicita presa di posizione della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 6 e del decreto delegato n. 257 del 1991, art. 4) recentemente ribadita dalle sezioni unite (Cass. S.U. 17 aprile 2009 n. 9147) con l’affermare che "non è inquadrabile nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato nè rientra fra le ipotesi della c.d. parasubordinazione, l’attività svolta dai medici iscritti a scuole di specializzazione nell’ambito delle strutture nelle quali la specializzazione viene effettuata, non potendosi ravvisare una relazione sinallagmatica di corrispettività tra la suddetta attività e gli emolumenti previsti a favore degli specializzandi…;

la suddetta attività consiste infatti in prestazioni finalizzate essenzialmente a consentire la formazione teorica e pratica del medico specializzando e non già a procacciare utilità alle strutture sanitarie nelle quali essa si svolge, per cui gli emolumenti per esso previsti sono sostanzialmente destinati a sopperire alle sue esigenze materiali in relazione all’attuazione dell’impegno a tempo pieno per l’apprendimento e la formazione".

Per altro verso, non è ipotizzabile, con riguardo ai medici specializzandi cui non è applicabile il D.Lgs. n. 257 del 1991, la violazione della regola di cui all’art. 3 Cost., in ragione del diverso impegno quantitativo e qualitativo (tempo pieno e incompatibilità con altre attività) richiesto dalla legge italiana agli specializzandi dall’anno accademico 1991-92 (Cass. 6 luglio 2002 n. 9842) rispetto a quello di coloro che erano soggetti alla disciplina precedente.

Concludendo, deve pertanto ritenersi infondato anche il primo motivo di ricorso.

4c – Appaiono viceversa fondati il secondo e il terzo motivo di ricorso nei limiti di seguito specificati.

In proposito, partendo dall’affermazione della Corte di giustizia secondo cui l’obbligo comunitario di remunerare l’attività di specializzazione svolta alle condizioni stabilite dalla direttiva, pur incondizionato e sufficientemente preciso per consentire al giudice nazionale l’individuazione delle situazioni che vi rientrano, non è di immediata applicazione nel diritto interno in mancanza della individuazione a livello comunitario del soggetto obbligato e del quantum di remunerazione adeguata dovuta, questa Corte, in sede di cassazione con rinvio della decisione bolognese prima citata, ha enunciato il principio più sopra riportato.

Tale pronuncia è stata effettuata in accoglimento del terzo motivo del ricorso per cassazione dei Ministeri, secondo il quale, estendendo agli appellati – ai quali non era stata applicata in quanto iscritti per la prima volta in un anno accademico anteriore alla data della sua entrata in vigore – la normativa interna, la Corte bolognese avrebbe erroneamente dato per presupposto che la direttiva comunitaria rimasta inattuata fosse immediatamente applicabile in Italia, in quanto concernente obblighi chiari, precisi e incondizionati.

La decisione di questa Corte si limita pertanto a censurare questo approccio al problema da parte della Corte territoriale e ciò con riferimento a tutto il periodo di formazione degli specializzandi ricorrenti, sia antecedente che successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991.

Rimaneva la necessità in sede di rinvio, alla stregua delle difese delle parti, di verificare la possibilità di una interpretazione adeguatrice del D.Lgs. n. 257 del 1991 con riguardo alla posizione dei medici che, come i ricorrenti, hanno frequentato i corsi di specializzazione negli anni accademici 1991-1992 e successivi, essendo stati iscritti a tali corsi a partire da uno o due anni precedenti, verifica che la Corte torinese ha svolto con risultati negativi, qui contestati dai ricorrenti.

Procedendo all’esame di tali censure, va premesso che è ormai acquisito al giudizio che i corsi di formazione frequentati in quegli anni dai ricorrenti sono relativi a specialità mediche comuni a due o più degli Stati membri dell’Unione e menzionate all’art. 7 della direttiva del Consiglio n. 75/362 CEE relativa al riconoscimento reciproco dei diplomi, certificati e altri titoli di medico specialista e in ordine al quale riconoscimento la direttiva 75/363, come modificata, unitamente alla precedente, dalla direttiva del consiglio n. 82/76, prevede una serie di misure di armonizzazione dei presupposti attinenti alla relativa formazione.

Tali misure riguardano la fissazione di taluni criteri minimi concernenti l’accesso alla formazione specializzata, la sua durata minima, il modo (per quanto qui interessa, essa implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua, comprese le guardie, in modo che lo specialista in via di formazione vi dedichi tutta la sua attività professionale per l’intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell’anno, secondo le modalità stabilite dalla autorità competenti e sotto il controllo di queste) e il luogo in cui quest’ultima deve essere effettuata. A tali condizioni la formazione, secondo le direttive citate, va adeguatamente remunerata.

E’ stato altresì definitivamente accertato in giudizio che, a partire dall’anno accademico 1991-92, tutti i ricorrenti avevano svolto la formazione, secondo le direttive dell’Università, in maniera identica agli iscritti per la prima volta in tale anno accademico (ai quali soltanto l’Università e i Ministeri ritengono applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991) e corrispondente a quanto indicato dalla direttiva per poter fruire di una adeguata remunerazione, e quindi nelle specializzazioni, con l’impegno a tempo pieno in tutte le attività svolte nelle strutture e con l’esclusività ivi previste.

In proposito, infatti, questa Corte ha respinto, con la citata sentenza n. 16507 del 2008, il secondo motivo di ricorso della Università che denunciava l’erronea valutazione delle prove dei giudici di merito in ordine a tale accertamento.

Sicchè erroneamente la Corte torinese, sia pure incidentalmente (mentre principalmente ritiene irrilevante la circostanza, alla luce dell’interpretazione che essa da del decreto legislativo), pone in dubbio tale accertamento, ormai definitivo.

Il D.L.gs. n. 257 del 1991, da attuazione alle direttive con lo stabilire l’elenco delle specialità di tipologia e durata conformi alle norme CEE e comuni a due o più Stati membri (art. 1), la programmazione triennale del numero degli specialisti da formare in luoghi e strutture idonee (artt. 2 e 7) il procedimento di ammissione, che richiama la disciplina precedente del D.P.R. n. 162 del 1982 (art. 3), la durata e il modo di formazione, corrispondente ai requisiti minimi stabiliti dalle direttive (art. 4), le incompatibilità (art. 5) e la remunerazione (borse di studio: art. 6).

Infine l’art. 8 del decreto stabilisce che "Le disposizioni del presente decreto si applicano a decorrere dall’anno accademico 1991- 92".

Nell’interpretazione di tale disciplina legislativa, occorre ricordare quanto ribadito dalla Corte di giustizia nell’ambito dell’accertamento incidentale attivato nel giudizio di primo grado relativo a questo stesso processo in ordine alla necessità di una interpretazione del diritto interno quanto più possibile conforme al diritto comunitario (sulla necessità di una interpretazione adeguatrice al diritto comunitario, anche questa Corte si è ripetutamente espressa: cfr., ad es., Cass. nn. 21278/10 e 21023/07).

In tale sede, la Corte, dopo avere affermato il principio enunciato in precedenza e in particolare che l’obbligo, stabilito dalle direttive "di retribuire in maniera adeguata i periodi di formazione dei medici specialisti… è incondizionato e sufficientemente preciso nella parte in cui richiede, affinchè un medico specialista possa avvalersi del sistema di reciproco riconoscimento istituito dalla direttiva 75/362, che la sua formazione si svolga a tempo pieno e sia retribuita; il detto obbligo non consente tuttavia di per sè al giudice nazionale di identificare il debitore tenuto a versare la remunerazione adeguata nè l’importo della stessa", aggiunge le seguenti proposizioni.

"Giova ricordare tuttavia che,… come risulta dalla costante giurisprudenza della Corte, nell’applicare il diritto nazionale e, in particolare le disposizioni di una legge che – come nella causa a qua – sono state introdotte specificatamente al fine di garantire la trasposizione di una direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189, comma 3 del Trattato CE. In queste condizioni, spetta al giudice a quo valutare in quale misura l’insieme delle disposizioni nazionali – più in particolare, per il periodo successivo alla loro entrata in vigore, le disposizioni di una legge promulgata al fine di trasporre la direttiva 82/76 – possa essere interpretato, fin dall’entrata in vigore di tali norme, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva al fine di conseguire il risultato da essa voluto".

Effettuate tali premesse a alla luce di esse, occorre partire, nella interpretazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, dalla norma che stabilisce che le disposizioni dello stesso si applicano a decorrere dall’anno accademico 1991-1992.

Va infatti rilevato che di per sè il tenore letterale della disposizione non esclude una sua interpretazione nel senso che il decreto possa essere applicato anche agli specializzandi che nell’anno 1991-1992 frequentavano il secondo o terzo anno di specializzazione – purchè riferita a specialità comuni a due o più Paesi dell’Unione – e la cui formazione fosse stata, quantomeno di fatto (come anche per effetto dei decreti di riordinamento delle scuole indicati all’art. 8, comma 1 del decreto), conforme ai requisiti stabiliti dal medesimo decreto legislativo, con la conseguente maturazione del diritto alla borsa di studio prevista dall’art. 6 del decreto.

L’impedimento a tale tipo di interpretazione non sembra inoltre poter provenire dalla evidente proiezione nel futuro delle disposizioni programmatiche del decreto (ad es. i citati artt. 1, 2 e 7), non potendosi escludere, nell’ottica della ricerca di una interpretazione quanto più possibile adeguatrice, che i dati conseguentemente definiti (tipo di scuola, localizzazione, etc.) con riguardo all’anno accademico 1991-1992 possano poi essere riferiti anche ai ricorrenti, che stessero già svolgendo in tale anno e nei successivi la specializzazione in una delle specialità e nei luoghi individuati e che di fatto l’abbiano svolta in conformità alle disposizioni della legge (in particolare a tempo pieno e con assegnazione a tutte le attività del servizio, comprese le guardie), sotto la direzione e il controllo dell’Università, come accertato in giudizio con riguardo ai ricorrenti.

Una diversa interpretazione della legge, oltre a porsi in contrasto con la direttiva, comporterebbe del resto il ragionevole dubbio della sua legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 117 Cost., sicchè anche per questa via appare necessaria, nei limiti del possibile, una interpretazione orientata al rispetto dei principi della Costituzione repubblicana.

In base alle considerazioni svolte, deve pertanto affermarsi il principio per cui il D.Lgs. n. 257 del 1991 si applica anche agli specializzandi iscritti nell’anno accademico 1991-1992 al secondo o terzo anno nelle specialità definite dalla stregua del decreto medesimo come comuni a due o più Stati dell’Unione e nei luoghi a ciò deputati, purchè la relativa formazione si sia svolta di fatto in maniera conforme ai requisiti stabiliti dall’art. 4 del decreto.

5 – Infine va respinto il ricorso incidentale del MIUR. Definitivamente acquisita in giudizio la solidarietà dei Ministeri con l’Università relativamente alla obbligazione a suo tempo adempiuta dall’Università nei confronti dei ricorrenti, il fatto che parte della provvista provenisse dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca rileva infatti unicamente nei rapporti interni dei vari obbligati in via solidale.

6 – Concludendo, in base alle considerazioni svolte, riuniti i ricorsi, vanno accolti il secondo e terzo motivo del ricorso principale e rigettati gli altri nonchè il ricorso incidentale.

La sentenza impugnata va corrispondentemente cassata, con rinvio, anche per il regolamento di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Genova.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso principale e rigetta quello incidentale; cassa conseguentemente la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Genova.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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