Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 20-04-2011) 30-09-2011, n. 35634

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 26 marzo 2009 il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha dichiarato:

– E.G. colpevole dei reati di estorsione tentata e consumata in danno di M.C. (rectius: M.), titolare della Elettrosessuola s.r.l., con sede in Arienzo, ai sensi rispettivamente degli artt. 56, 110 e 629 cpv. cod. pen., in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, e degli artt. 110 e 629 cpv. cod. pen., in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, contestati ai capi A) e B), del reato di danneggiamento seguito da incendio dell’auto di proprietà di M.U. (rectius:

M.O.), ai sensi dell’art. 110 c.p., art. 424 c.p., comma 2, così riqualificata l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 423 cod. pen., contestato al capo C), e del reato di detenzione illegale e porto in luogo pubblico di pistola ai sensi degli artt. 110 cod. pen., L. n. 497 del 1974, artt. 10, 12 e 14, contestato al capo D), tutti aggravati ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7;

– L.M. colpevole del reato di danneggiamento seguito da incendio dell’auto di proprietà di M.U. (rectius:

M.O.), ai sensi dell’art. 110 c.p., art. 424 c.p., comma 2, così riqualificata l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 423 cod. pen., contestato ai capo C), e del reato di estorsione tentata in danno di Ma.Ca., dirigente della Wip Sud s.p.a, con sede in Santa Maria Capua Vetere, ai sensi degli artt. 56, 110 e 629 cpv. cod. pen., in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, contestato al capo E), tutti aggravati ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7;

ha assolto:

L.M. dal reato di detenzione illegale e porto in luogo pubblico di pistola, contestato al capo D), per non avere commesso il fatto; ha condannato:

– E.G., previa unificazione dei reati ascritti, ai sensi dell’art. 81 c.p., comma 2, sotto la più grave violazione di cui al capo B), alla pena finale di anni nove e mesi sei di reclusione ed Euro tremila di multa;

– L.M., previa unificazione dei reati ascritti, ai sensi dell’art. 81 c.p., comma 2, sotto la più grave violazione di cui al capo E), alla pena finale di anni sette di reclusione ed Euro millecinquecento di multa.

2. Con sentenza del 4 marzo 2010 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado.

3. La Corte d’appello, dopo aver sintetizzato le doglianze mosse dagli imputati con i rispettivi atti di appello, riteneva integralmente condivisibili la ricostruzione dei fatti e la motivazione, poste dal primo Giudice a fondamento della decisione di condanna, e ripercorreva gli elementi di prova alla luce delle censure mosse dagli appellanti.

3.1. La Corte, in particolare, riteneva solido il compendio probatorio, rappresentato per E.G. per le ipotesi di tentata estorsione e di estorsione consumata, contestate ai capi A) e B):

– dalle dichiarazioni, concordi e specifiche, ritenute attendibili, rese dalla parte lesa, M.C., titolare della Elettrosessuola s.r.l., nel corso delle indagini preliminari, dopo l’iniziale negazione delle richieste estorsive, e ribadite in dibattimento di primo grado;

– dalla piena conferma di dette dichiarazioni, quanto alla entità, alla reiterazione e alle modalità delle richieste estorsive, da parte di D.M.S., all’epoca dei fatti responsabile logistico della MCE, ditta satellite della società Elettrosessuola, con sede in S. Maria a Vico;

– dalla ulteriore conferma data alle indicate dichiarazioni della parte lesa dall’accertata frequentazione dell’imputato E. con il coimputato Ma.Vi., separatamente giudicato, indicato dalla parte offesa e dal teste D.M. come coautore delle richieste estorsive, e controllato insieme all’ E. il 22 febbraio 2007, e, in merito alle modalità delle stesse dichiarazioni in relazione alla iniziale reticenza della parte lesa e all’ammissione degli episodi estorsivi all’esito delle contestazioni relative al colloquio, intercettato dai Carabinieri, avuto con altro imprenditore, dalle dichiarazioni del teste maresciallo De Vivo e del teste luogotenente dei carabinieri m., oltre che dal contenuto delle conversazioni intercettate, regolarmente trascritte;

– dalle dichiarazioni rese in sede di esame dibattimentale dello stesso imputato, che, pur negando gli addebiti, aveva ammesso di essersi recato presso la ditta Elettrosessuola per accompagnare il Ma., che aveva chiesto di assumere L.P., e di essere andati insieme presso altro stabilimento della stessa ditta.

Secondo la Corte, non era condivisibile, quanto alla configurazione giuridica della condotta di cui al capo B), la deduzione difensiva della ricorrenza della ipotesi tentata, e non era fondata la richiesta di esclusione della contestata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, atteso l’uso di modalità proprie del metodo camorristico da parte dell’imputato.

3.2. La Corte riteneva solido il compendio probatorio rappresentato per lo stesso E.G. per i reati di cui ai capi C) e D):

– dalle reiterate e circostanziate dichiarazioni rese da M. U., dopo l’iniziale reticenza, e dalle individuazioni, fotografiche e di persona, dell’imputato eseguite dallo stesso anche nel corso dell’udienza dibattimentale;

– dai riscontri a dette dichiarazioni, dati, quanto al materiale accadimento dei fatti, dalle risultanze del sopralluogo, eseguito il 5 dicembre 2006 dai Carabinieri della Stazione di San Felice a Cancello, con la constatazione della completa distruzione, per incendio, dell’auto del padre di M.U. e delle ammaccature nel cancello di ingresso alla proprietà del medesimo, e dal sequestro sul posto di frammento deformato di ogiva metallica;

– dai riscontri ulteriori dati dalle dichiarazioni dei verbalizzanti anche in merito alle modalità, sia iniziali sia successive, delle dichiarazioni rese dal M., dall’accertata sussistenza di rapporti di parentela tra l’imputato e il collaboratore di giustizia ma.fr., dalla esistenza di frequentazioni tra l’imputato E. e il coimputato Ma., indicato da M.U. come coautore delle richieste estorsive, e tra quest’ultimo e l’imputato L., e dalle stesse dichiarazioni dell’imputato, che aveva ammesso l’incontro con la parte offesa dopo i fatti, pur dandogli un diverso contenuto.

Ad avviso della Corte, anche per il reato di cui al capo C) non era fondata la richiesta di esclusione della contestata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, atteso il chiaro stampo camorristico dell’episodio d’intimidazione.

3.3. La Corte riteneva univoco il medesimo compendio probatorio per L.M. con riguardo alla sua qualità di mandante per il reato di cui al capo C), cui aggiungeva le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ma.fr. e m.

f., ed escludeva che il racconto lineare e specifico della parte lesa fosse stato sminuito dalle presunte contraddizioni tra quanto inizialmente riferito dalla stessa e dal padre e quanto raccontato nel prosieguo delle indagini e in udienza. Escludeva anche la fondatezza della richiesta di esclusione della contestata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, alla luce della dinamica, delle modalità e del movente dell’episodio criminoso, che ne evidenziavano lo stampo camorristico.

3.4. Erano anche univoci gli elementi di prova legittimamente raccolti nei confronti di L.M. con riguardo alla tentata estorsione contestata al capo E), rappresentati:

– dalle reiterate e specifiche dichiarazioni accusatorie, rese dalla parte offesa Ma.Ca., dirigente della società Wip Sud e dall’esito ampiamente positivo della individuazione sia fotografica che di persona dallo stesso eseguita;

– dalle dichiarazioni rese dai testi di riscontro D.L.G. e D.G.F., titolari della suddetta società, informati dell’intera vicenda.

4. Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte rigettava la richiesta di riduzione della pena per il rito abbreviato, essendo stata reiterata la prima richiesta nel corso del giudizio di primo grado solo dopo l’apertura del dibattimento, e la richiesta di applicazione della continuazione con altra sentenza, avanzata dal difensore di E.G., non essendo state effettuate produzioni nè offerte indicazioni circa l’attuale stato della sentenza, e riteneva proporzionata l’entità della pena non riducibile con la chiesta concessione delle circostanze attenuanti generiche.

5. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati sopra indicati.

5.1. E.G. ricorre personalmente e chiede l’annullamento della sentenza sulla base di due motivi.

5.1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, deducendo, in particolare, con riferimento ai reati di cui ai capi A) e B), l’assoluta inattendibilità della persona offesa M.C. e il contrasto tra le sue dichiarazioni e quelle rese dal teste D. M. e dallo stesso imputato, e, in ordine ai reati di cui ai capi C) e D), la discrasia tra le dichiarazioni di M.U. e quelle rese dal padre M.O. e la sussistenza di dubbi e contraddizioni, in contrasto con la necessaria affermazione della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio ai sensi dell’art. 533 c.p.p., comma 1, e con il principio di valutazione della prova di cui all’art. 192 cod. proc. pen., che esclude che l’esistenza di un fatto possa essere desunta da indizi che non siano gravi, precisi e concordanti.

Secondo il ricorrente, la Corte è incorsa anche in errori di carattere metodologico, tenuto conto della richiesta di riduzione di un terzo della pena per il rito abbreviato già alla prima udienza del 14 dicembre 2007, in costanza dell’astensione degli avvocati dalle udienze.

5.1.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen. e L. n. 203 del 1991, art. 7, deducendo che la gravità dei fatti e i precedenti specifici costituiscono elementi da valutare agli effetti della determinazione della pena e non ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, la cui previsione risponde alla funzione di adeguare la pena al caso concreto, considerato nella globalità dei suoi elementi.

Nè, secondo il ricorrente, dalle testimonianze rese in dibattimento è emerso un quadro esauriente per la dimostrazione dell’esistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. 5.2. L.M. ricorre per mezzo del suo difensore, avv. Alessandro Barbieri, e chiede l’annullamento della sentenza sulla base di tre motivi.

5.2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), mancanza di motivazione ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all’episodio dell’incendio di cui al capo C).

Secondo il ricorrente, la Corte di merito ha omesso ogni valutazione delle dichiarazioni del padre della persona offesa, e, invece, di verificare la reale attendibilità delle dichiarazioni di quest’ultima in insanabile contrasto con quelle del padre, e totalmente contraddittorie, come già rilevato dal Tribunale del riesame, le ha utilizzate per affermare la responsabilità penale dell’imputato.

Nè la Corte ha motivato in merito alle inverosimili modalità dell’incontro avuto con il L., il giorno dopo i fatti, dalla persona offesa, che l’ha riferito, quando proprio all’imputato avrebbe chiesto conto di quanto stava accadendo; nè al riguardo vi è alcuna motivazione in ordine al profilo psicologico del reato, la cui sussistenza è affidata al ricordo delle parole dell’imputato, riferite dalla persona offesa.

5.2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), abnormità della motivazione, mancanza di motivazione ed erronea applicazione della legge penale con riferimento alla tentata estorsione in danno di Ma.Ca., di cui al capo E).

Il ricorrente, in particolare, deduce che la Corte di merito, che ha riprodotto la motivazione di primo grado, non ha risposto ai dubbi proposti dalla difesa e che permangono con riguardo alla identificazione, da parte della persona offesa, della persona recatasi presso gli uffici della stessa, tenuto conto delle modalità della svolta identificazione presso la caserma dei carabinieri, e con riferimento all’attendibilità della persona offesa, condannata per partecipazione al clan camorristico dei casalesi, alle discrasie evidenti del racconto della stessa e alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Nella specie, non solo non si è tenuto conto della regola probatoria e di giudizio rappresentata dal principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ma l’attribuzione della responsabilità, a fronte delle gravità delle discrepanze emergenti dalle dichiarazioni, è frutto di abnorme forzatura ed evidenzia l’assoluta illogicità della motivazione.

5.2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), mancanza di motivazione e violazione di legge con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche, sulla consistenza della cui motivazione inciderebbe l’accoglimento di alcuna delle doglianze già svolte, e con riferimento alla ritenuta aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 anche per il capo C).

Motivi della decisione

1. Il ricorso proposto da E.G. è manifestamente infondato in ogni sua deduzione.

1.1. Le censure svolte con il primo motivo, attinenti alla dedotta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, si articolano sul duplice versante dell’assoluta inattendibilità della persona offesa M.C., titolare della società Elettrosessuola, e della discrasia tra le dichiarazioni dalla stessa rese e quelle rese dal teste D.M.S., responsabile logistico della M.C.E., ditta satellite della società Elettrosessuola, e dallo stesso imputato quanto ai reati di estorsione tentata e consumata, contestati ai capi A) e B), e della discrasia tra le dichiarazioni rese dalla parte offesa M. U. (non legato da vincoli di parentela con l’altra parte offesa) e quelle rese dal padre M.O., quanto ai reati di danneggiamene seguito da incendio dell’auto di proprietà di quest’ultimo e di detenzione illegale e porto in luogo pubblico di pistola, contestato ai capi C) e D).

La totale infondatezza di tali censure consegue al rilievo che la valutazione organica delle risultanze processuali, che si assume illogica e contraddittoria, è stata compiutamente condotta dalla Corte d’appello secondo un iter logico, che si è sviluppato in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, dep. 04/06/1992, P.M., p.c, Musumeci e altri, Rv. 191229; Sez. 1, n. 17309 del 10/03/2008, dep. 24/04/2008, Calisti e altri, Rv. 240001, Sez. 1, n. 11455 del 17/11/2010, dep. 22/03/2011, Narcisio).

La sentenza impugnata, come quella di primo grado, nel suo sviluppo decisionale, ha chiaramente argomentato, all’esito di un’analisi completa degli elementi probatori, i singoli momenti dell’articolata formazione della prove, illustrando e coerentemente giustificando i dati fattuali acquisiti, e ha sviluppato, rispetto a quella di primo grado, le valutazioni critiche alla luce delle deduzioni difensive fatte oggetto dei motivi d’appello, cui ha fornito adeguata risposta.

1.2. La Corte di merito, infatti, previa valutazione di attendibilità e specificità delle fonti di prova a carico dell’imputato costituite dalle dichiarazioni delle parti lese, che ha riportato e ha analizzato nel loro sofferto sviluppo dopo la spiegata ragione della reticenza iniziale dei dichiaranti, ha verificato le emergenze probatorie, costituenti conferma di dette dichiarazioni con riferimento li ai singoli fatti contestati, richiamando i verbali di udienza, contenenti le dichiarazioni, e gli specifici atti esaminati, ed evidenziando il plausibile timore di ritorsione e la linearità dei racconti delle parti offese, non sminuiti dalla presunte, e chiarite, contraddizioni denunciate.

Si tratta di una valutazione congrua e ragionevole che, fondandosi su dati coerenti con le risultanze processuali, ne ha ritenuto l’univoca e convergente valenza probatoria al fine dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato.

1.3. In questo contesto non possono trovare accoglimento le prospettazioni difensive, che senza rapportarsi alle ragioni argomentate della decisione impugnata, non sottoposte a censura, sono volte a impegnare questa Corte, attraverso la manifestazione di un diffuso dissenso di merito rispetto alla pronuncia di condanna, in una diversa lettura degli elementi di conoscenza apportati dal materiale probatorio del processo, in un’alternativa, e non esclusiva sua diversa analisi valutativa, estranea, per sua natura, al tema di indagine legittimamente proponibile come oggetto di censura di legittimità. 1.4. Superfluo appare il richiamo al principio per cui il giudice pronuncia condanna solo se l’imputato risulta colpevole del reato contestato oltre ogni ragionevole dubbio.

Questa Corte ha più volte affermato che, con la previsione della regola di giudizio, secondo cui il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio, recepita dalla L. n. 46 del 2006, art. 5, che ha modificato l’art. 533 c.p.p., comma 1, il legislatore non ha introdotto un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice, che faceva riferimento alla sola colpevolezza dell’imputato, ma ha semplicemente formalizzato un principio presente da anni con sempre maggiore frequenza nella giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Sez. 6, n. 1518 del 08/04/1997, dep. 27/05/1997, Pm in proc. Moschetto, Rv. 208144; Sez. 6, n. 863 del 10/03/1999, dep. 15/04/1999, Capriati, Rv. 212998), e incontestabile anche alla stregua delle Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, per cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell’imputato, imponendosi, invece, l’assoluzione quando la prova è incompleta (Sez. 1, n. 20371 del 11/05/2006, dep. 14/06/2006, Ganci e altro, Rv. 234111; Sez. 1, n. 30402 del 28/06/2006, dep. 13/09/2006, Volpon, Rv. 234374; Sez. 2, n. 16357 del 02/04/2008, dep. 18/04/2008, Crisiglione, Rv. 239795).

1.5. Del tutto generica è la deduzione relativa alla richiesta di riduzione della pena per il rito abbreviato, motivatamente rigettata dalla Corte con riferimento alla data della reiterazione della richiesta, successiva all’apertura del dibattimento, e contestata con riferimento a diverse date di presentazione della richiesta, affermate come antecedenti alla data indicata in sentenza, e non provate.

1.6. Manifestamente infondato e tendente a sottoporre a questa Corte valutazioni squisitamente di merito, a essa sottratte, è infine pure il secondo motivo, con il quale il ricorrente denuncia viziata da violazione di legge la motivazione con la quale gli sono state negate le circostanze attenuanti generiche.

Del tutto legittimamente, infatti, la Corte di appello ha ritenuto ostativi al riconoscimento delle attenuanti generiche le reiterate condanne per condotte specifiche e l’allarmante gravità dei fatti in contestazione, trattandosi di parametri considerati dall’art. 133 cod. pen., applicabili anche ai fini dell’art. 62-bis cod. pen., a fronte del quale il ricorso non evidenzia alcun significativo elemento di segno opposto, non considerato.

Anche il motivato e articolato giudizio espresso in sentenza per il riconoscimento dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 si sottrae alle censure genericamente svolte dal ricorrente, attinenti alla insufficienza delle dichiarazioni delle parti lese per la dimostrazione delle modalità camorristiche delle richieste estorsive.

2. Manifestamente infondato è anche il ricorso proposto da L. M..

2.1. Il primo motivo riguarda l’episodio dell’incendio di cui al capo C), con riferimento al quale, secondo il ricorrente, la Corte d’appello è incorsa in mancanza di motivazione ed erronea applicazione della legge penale per avere da un lato, omesso ogni valutazione circa la reale attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, contraddittorie e contrastanti con quelle del padre, e, dall’altro lato, omesso di motivare in merito alle inverosimili modalità dell’incontro intervenuto il giorno dopo i fatti tra la persona offesa e l’imputato.

La specifica motivazione condotta dalla Corte, anche con riguardo alle circostanze che si assumono omesse, strettamente correlata, come già rilevato, con quella di primo grado, ha analizzato in modo logico e coerente le risultanze processuali, partendo dalle dichiarazioni reiterate e circostanziate rese, dopo l’iniziale reticenza, da M.U., accompagnate dalle individuazioni fotografiche e di persona dallo stesso eseguite, e gli elementi di riscontro alle stesse, rappresentati dagli elementi probatori specificatamente descritti attinenti sia al materiale accadimento dei fatti che alla riconducibilità dello stesso all’imputato quale mandante, ed escludendo, sulla base degli elementi probatori esistenti ed esaminati, che là linearità del racconto della parte lesa, descritto nella sua evoluzione, fosse sminuita dagli assunti contrasti con le dichiarazioni del padre e dalle contraddizioni negli sviluppi del racconto stesso.

Anche sulla valutazione dell’incontro avvenuto il giorno dopo l’episodio dell’incendio dell’auto, la Corte si è soffermata analizzando, con richiami al contenuto delle dichiarazioni di M.U., e con logicità e coerenza, l’incontro dello stesso con l’imputato e, nello stesso giorno, con il Ma., ricevendo da entrambi, separatamente richiesti (per la posizione del primo che in zona "comandava pure a Ma., a G.") delle ragioni dell’accaduto, la stessa motivazione, ricondotta al suo essere "infame e amico delle guardie", e la stessa richiesta di informazioni sul luogo ove era il collaboratore di giustizia ma.fr., suo parente.

Le censure opposte a tale logico iter motivo, che si fondano sulla contestata carenza di valutazione delle emergenze probatorie, analizzate e verificate dalla Corte anche alla luce delle stesse censure difensive sviluppate con i motivi di appello, sono generiche.

Esse, nella misura in cui ripropongono la diversa ricostruzione della vicenda con la rilettura dei dati fattuali, sono invasive di un campo non percorribile in questa sede, e, nella indicazione di circostanze non facenti parte del patrimonio conoscitivo di questa Corte, si pongono in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso.

2.2. La manifesta infondatezza attiene anche alle censure dedotte con il secondo motivo con riguardo al reato di tentata estorsione in danno di Ma.Ca., di cui al capo E), e attinenti ai vizi di violazione di legge e di carenze motive in merito alle problematiche evidenziate dalla difesa, rimaste senza risposta.

La sentenza, senza limitarsi a riprodurre la motivazione della sentenza di primo grado, ha proceduto alla verifica dei dati fattuali tratti dalle dichiarazioni della parte lesa, evidenziando anche per dette dichiarazioni il passaggio dalle iniziali reticenze al racconto circostanziato e reiterato, riferito a persone, date e contenuti delle richieste estorsive, accompagnato dall’esito ampiamente positivo della individuazioni fotografica e di persona eseguita dalla stessa e dalla puntuale conferma derivata dalla testimonianza dei testi di riscontro, titolari della ditta e informati della intera vicenda.

Tale verifica non è stata disgiunta dall’analisi valutativa dell’attendibilità del dichiarante, rappresentandosi con adeguata motivazione che un eventuale intento calunniatorio, non fondato su alcun elemento probatorio, non poteva implicitamente desumersi dalla condanna di primo grado del medesimo, per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., con riferimento a vicende antecedenti di oltre undici anni gli episodi in esame, e che le circostanze di tempo e di luogo riferite dal predetto, quanto all’incontro con l’imputato, non erano incompatibili con le attività di lavoro di quest’ultimo e con l’orario del suo controllo da parte dei carabinieri, prodotto dalla difesa.

Le doglianze difensive che, astraendo dalla specifica analisi già svolta e dall’adeguatezza delle risposte già fornite, reiterano il diffuso dissenso di merito, anche inammissibilmente richiamando circostanze che questa Corte non avendo accesso agli atti non può riscontrare, lungi dall’insinuare dubbi in merito alla responsabilità dell’imputato, sono prive di ogni fondatezza.

3. Inammissibile è il terzo motivo, la cui genericità consegue, per il diniego delle circostanze attenuanti generiche, al collegamento della censura all’accoglimento di "alcuna delle doglianze" già svolte e, per il riconoscimento della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, alla affermata mancanza di motivazione in relazione ai capi C) e E), sussistente in sentenza.

4. I ricorsi devono essere, pertanto, dichiarati inammissibili.

Alla declaratoria d’inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di ciascuno – valutato il contenuto dei motivi di ricorso e in difetto della ipotesi di esclusione di colpa nella proposizione della impugnazione – al versamento, in favore della Cassa delle ammende della somma, che si determina, nella misura congrua ed equa, di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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