Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 20-04-2011) 30-09-2011, n. 35632 Attenuanti comuni riparazione del danno e ravvedimento attivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con Sentenza in data 8 aprile 2010 la Corte di appello di Genova, confermava la decisione del GUP del Tribunale di Genova che il 26 maggio 2009, in esito a giudizio abbreviato, aveva condannato K. H., alias G.A., alla pena di anni 8 di reclusione perchè ritenuto colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, di duplice tentato omicidio, di porto di abusivo di arma e di false dichiarazioni, continuate, sulla propria identità, commessi i primi due in (OMISSIS) ed il terzo accertato, sempre in (OMISSIS).

Il K., il giorno (OMISSIS), accompagnato da un complice in scooter che fungeva da palo, nella pubblica via aggrediva alle spalle J.H. e lo colpiva più volte con una spada di circa 50 centimetri, dapprima alla schiena, poi, inseguendolo, alla testa ed al braccio; successivamente si voltava verso la moglie dello J., C.M. che si trovava in avanzato stato di gravidanza, tentando di colpirla, con la stessa arma, all’altezza del ventre non riuscendo nell’intento perchè la donna proteggeva il corpo con la borsa che portava con sè.

Ritiene la corte territoriale che l’intento omicidiario dell’imputato, le cui prospettazioni circa l’antefatto appaiono destituite di fondamento o comunque inverosimili, sia dimostrato dal tipo di arma usata, dalla zona del corpo attinta e dalla tipologia delle lesioni riportate dalla vittima J.H., nonchè riguardo alla C., per la zona del corpo che era stata interessata dal fendente, non andato a segno per la difesa della vittima che si proteggeva con la borsa.

La circostanza che il fendente che ne attinse la testa non abbia provocato una lesione tale da porre in pericolo di vita. J. H. non significa che gli atti posti in essere dall’imputato non fossero idonei a cagionarne la morte, infatti solo la difesa opposta con l’interposizione del braccio ha impedito che le conseguenze del colpo fossero per la vittima ben più gravi.

Solo il richiamo del complice che attendeva in moto dissuase il K. dal proseguire la sua azione di violenta aggressione in danno di J.H. e poi di sua moglie C.M..

Riguardo a quest’ultima, la corte considera ugualmente, acclarata la responsabilità penale del K. per il reato di tentato omicidio anche se la stesa non venne attinta dal fendente vibratole contro all’altezza del corpo tra seno e ventre: anche in questo caso la difesa della vittima, la quale alzò la borsetta per proteggersi impedì il verificarsi di conseguenze ben più gravi del taglio riscontrato sulla borsa.

Sul trattamento sanzionatorio la corte condivide quanto deciso dal giudice di primo grado, circa la non riconoscibilità della attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, in quanto il risarcimento non è avvenuto prima del giudizio, nonchè in relazione alla complessiva quantificazione della pena, considerata la gravità dei fatti di tentato omicidio commessi anche nei confronti di donna in avanzato stato di gravidanza.

2.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso per Cassazione, l’avvocato Gianfranco Pagano, difensore dell’imputato adducendo:

1) come primo motivo: manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla qualificazione giuridica di "tentato omicidio" relativa all’azione lesiva posta in essere dall’imputato nei confronti di J.H.. In particolare sostiene che essendo stato uno solo il fendente che attinse al capo la vittima, e non due come affermato dal giudice di primo grado, i giudici di appello hanno, per dare prova della sussistenza del dolo omicidiario, focalizzato l’attenzione sulla fragilità della ricostruzione difensiva secondo cui l’aggressione allo J. era stata una sorta di reazione, uguale e contraria, ad una precedente aggressione subita dall’imputato a parti invertite.

Una corretta analisi della causale del’azione criminosa avrebbe, invece, portato ad una diversa valutazione della effettiva sussistenza del dolo omicidiario che costituisce il fulcro della sentenza gravata.

Solo un fendente, indiretto perchè destinato a colpire il braccio, attinse la vittima al capo, come risulta dalla relazione del consulente medicolegale del PM e, sempre dalla stessa consulenza emerge che non vi sia stato pericolo di vita per la vittima e le lesioni da arma da taglio sono state giudicate guaribili in un periodo compreso tra 20 e 40 giorni. La natura oggettiva delle lesioni e la mancanza di pericolo di vita della persona offesa, costituiscono un chiaro indice del fatto che l’azione del soggetto agente, per quanto potenzialmente pericolosa, non fu così violenta proprio perchè non era finalizzata ad uccidere.

Anche l’allontanamento dell’imputato dal luogo dei fatti, illogicamente collegato dai giudici di appello ai pressanti richiami del complice, fu invece volontario, perchè non vi era stato intervento nè delle forze dell’ordine nè di altri, e da esso si deve desumere che egli, se avesse realmente avuto volontà omicidiaria, ben si sarebbe potuto trattenere e continuare ad infierire sulla vittima.

2) come secondo motivo: mancanza della motivazione con riferimento al tentato omicidio nei confronti di C.M.. Lamenta il ricorrente che la corte di appello abbia fondato la sua decisione essenzialmente sulle dichiarazioni della persona offesa senza fare nessuna indagine al fine di vagliare la oggettiva attendibilità delle sue dichiarazioni ed il reale grado di credibilità soggettiva.

Ciò nonostante i precisi motivi di appello sul punto e non considerando che la C., nonchè il di lei marito, avevano, nel corso delle indagini, fornito versioni diverse dei fatti, che la donna aveva, ingiustificatamente, ritardato la consegna agli inquirenti della borsa con la quale si era asseritamente protetta, ed aveva prospettato alla polizia giudiziaria un movente d’onore palesemente falso quale antefatto alla aggressione, inteso a celare il coinvolgimento del marito in affari connessi al traffico di stupefacenti.

3) come terzo motivo: il ricorrente assume la violazione di legge con riferimento alla applicazione dell’attenuante del risarcimento del danno di cui all’art. 62 c.p., n. 6.

L’affermazione della corte di appello che "il risarcimento non è avvenuto prima del giudizio" è erronea in quanto il 7 maggio 2009, otto giorni prima della data fissata per la celebrazione del rito abbreviato il difensore depositava dichiarazione scritta delle parti offese nella quale attestavano di aver ricevuto dall’imputato la somma di Euro 25.000,00 a titolo di risarcimento e di ritenersi integralmente ristorate per i danni patiti. Ciò è dimostrato dal verbale di udienza del 15 maggio 2009 davanti al GUP il quale da atto, preliminarmente, dell’avvenuto deposito in data 7.5.2009 della suddetta dichiarazione e della contestuale revoca di costituzione di parte civile delle parti offese.

3.- Il Procuratore Generale dott. Francesco Maria Jacoviello ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia annullata con rinvio limitatamente al punto del mancato riconoscimento dell’attenuante dell’avvenuto risarcimento del danno.

Motivi della decisione

1.- Il ricorso è fondato in relazione ai due motivi di ricorso concernenti il vizio di motivazione circa la sussistenza del delitto tentato omicidio in danno di C.M. ed alla violazione di legge consistita nel mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, mentre deve essere rigettato per il resto.

2.- Infondato, al limite della inammissibilità, è il primo motivo con il quale il ricorrente, premessa una rappresentazione in fatto della vicenda, diversa da quella ricostruita dai giudici di merito quanto alla causale del reato ed alle modalità dell’azione, sostiene la non configurabilità del dolo omicidiario per l’inidoneità dei colpi sferrati a cagionare la morte,anche in relazione alla circostanza che le lesioni cagionate erano state giudicate guaribili in un periodo compreso tra i trenta ed i quaranta giorni e che non vi è prova che il fendente che attinse il capo non fosse stato una conseguenza non voluta della condotta. In realtà la valutazione della corte di merito è corretta e intrinsecamente coerente. E’ giurisprudenza consolidata (Cass., Sez. 1, sent.4.2.1985, n. 4208, Rv. 169006; e da ultimo Cass., Sez. 1, sent. 16.6.2010, n. 24208, Rv.

247806) che la differenza tra i reati di lesione personale e di tentato omicidio va ricercata, sul piano oggettivo, nella differente potenzialità lesiva dell’azione. Nel primo reato, infatti, essa esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel secondo vi è un quid pluris, che va oltre l’evento realizzato e tende a causarne uno più grave, riguardante lo stesso bene giuridico o un bene giuridico superiore, non riuscendo a cagionarlo per cause indipendenti dalla volontà dell’agente. Nel tentato omicidio vi è un’oggettiva idoneità e una destinazione univoca dell’azione a realizzare il più grave evento, denunciata solo in parte dall’intenzione dell’agente, concorrendovi anche, e in misura prevalente, elementi di carattere oggettivo, quali la natura del mezzo usato, la parte del corpo della vittima presa di mira, la gravità della lesione inferta.

Nel caso di specie i giudici di merito, con argomentazione congrua, completa e conseguente rispetto agli elementi fattuali valutati, hanno rilevato come l’arma adoperata fosse idonea a provocare lesioni mortali ed essa, usata per colpire M.H. al capo, aveva provocato una apertura della teca cranica in regione frontale; solo l’avambraccio, proteso in posizione di difesa sul capo, aveva evitato che il fendente raggiungesse l’encefalo, causando ferite tanto gravi da condurre alla morte. Che poi i fendenti non fossero indirizzati a colpire gli arti superiori della vittima è dimostrato dalla circostanza che il K. raggiunse la vittima da tergo e la colpì inizialmente alle spalle, ove sono state riscontrate delle ferite da taglio, dal che risulta evidente che l’imputato mirò da subito non alle mani o agli arti ma in zona del corpo prossima al collo ed al capo; inoltre, la circostanza che il colpo che attinse la testa non abbia provocato una lesione tale da porre in pericolo di vita J.H. non significa che gli atti posti in essere dall’imputato non fossero idonei a cagionarne la morte, infatti solo la difesa opposta con l’interposizione del braccio ha impedito che le conseguenze del colpo fossero per la vittima ben più gravi.

3.- Riguardo al ritenuto tentato omicidio nei confronti di C.M., invece, le argomentazioni versate in sentenza appaiono carenti sia per quel che attiene alla ricostruzione del fatto materiale che l’individuazione dell’intenzione omicidiaria in capo all’imputato. I giudici di merito, sul punto, fondano loro decisione solo sul racconto della persona offesa ma senza adeguatamente valutare, come evidenziato nei motivi di appello, che nell’immediatezza dei fatti (come da verbali acquisiti agli atti del giudizio abbreviato ed allegato al presente ricorso) diede una versione diversa e si risolse a consegnare la borsa con la quale avrebbe parato il fendente a lei diretto solo oltre un mese dopo i fatti; omettendo anche di considerare la pretesa risarcitoria prospettata dalla C. attraverso la costituzione di parte civile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte in materia la deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del teste estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della responsabilità dell’imputato, purchè sia sottoposta a vaglio adeguato della attendibilità oggettiva e soggettiva, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4. Quando, tuttavia, la persona offesa, come nel caso di specie, si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro delle sue dichiarazioni con altri elementi (Cass. Sez. 6, sent. 3.6.2004, n.33162, Rv. 229755;

Cass. Sez. 1, sent. 24.6.2010, n. 293722, Rv. 248016).

4.- Riguardo, infine, al mancato riconoscimento della attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6 deve essere ribadito che, ai sensi di tale norma, l’integrale risarcimento del danno deve intervenire "prima del giudizio" ed è stato, perciò, costantemente chiarito da questa Suprema Corte che tale risarcimento deve intervenire prima della apertura del dibattimento di primo grado, che funge da limite temporale invalicabile affinchè l’imputato possa beneficiare della attenuante.

Nel caso di specie il giudizio si è svolto con le forme del rito abbreviato e il risarcimento è avvenuto prima della sua celebrazione in quanto la documentazione relativa è stata depositata nella cancelleria del GIP in data antecedente a quella data fissata per l’udienza di trattazione del processo; sussistevano quindi le condizioni per ritenere la tempestività della produzione.

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio limitatamente al tentativo di omicidio in danno di C. M. ed al diniego dell’attenuante del risarcimento del danno e deve essere confermata per il resto.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al tentativo di omicidio in danno di C.M. ed al diniego dell’attenuante del risarcito danno e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Genova per nuovo giudizio sui punti in questione. Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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