Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-02-2012, n. 2615 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Firenze con la sentenza n. 1726 del 2006, accoglieva l’appello proposto da R.M. e P. G. nei confronti di Poste italiane spa in ordine alla sentenza n. 682/04 del Tribunale di Lucca.

Le suddette lavoratoci avevano adito il giudice di primo grado per sentire dichiarare la nullità della clausola del termine apposta al contratto da esse stipulato con la società Poste italiane spa, rispettivamente con decorrenza 2 ottobre 2000 e 7 giugno 1999. Il Tribunale aveva rigettato la domanda.

2. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre Poste italiane spa, prospettando cinque motivi di impugnazione.

3. Resistono la R. e la P. con controricorso.

4. Poste italiane spa ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., con la quale ha dedotto in ordine allo ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32.

Motivi della decisione

Motivazione semplificata.

1. Con il primo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ( art. 360 c.p.c., comma 3, art. 32).

Ad avviso del ricorrente, erroneamente, in ragione della giurisprudenza in materia, il giudice di appello avrebbe ritenuto non provato il nesso tra l’assunzione delle appellate e gli eventi citati nei capitoli di prova, richiedendo la specificazione di una causale collettiva in una causale individuale.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se, in virtù della delega in bianco contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23, l’autonomia sindacale investita da funzioni paralegislative non incontra limiti ed ostacoli di sorta nella tipologia dei nuovi contratti a termine in relazione alle ipotesi che ne legittimano la conclusione e se, la norma contrattuale debba necessariamente prevedere una specificazione della causale collettiva in una causale individuale per rendere legittima l’assunzione a termine, e non valga invece il principio secondo cui proprio la ampiezza della delega alle parti sociali porti a ritenere che sia stata in generale ammessa la possibilità di individuare in astratto le condizioni per il ricorso alle assunzioni a termine avendo il legislatore voluto costituire sufficiente garanzia di legalità la valutazione operata da parti sociali particolarmente qualificate.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ( art. 360 c.p.c., comma 3, n. 1); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se il sistema delineato dalla legge preveda la necessità che – ove le nuove ipotesi di contratto a termine siano dotate di particolare ampiezza tale da capovolgere il rapporto tra la regola generale dell’assunzione a tempo indeterminato e l’assunzione a termine – la norma contrattuale debba necessariamente avere un efficacia temporale limitata.

3. I primi due motivi di impugnazione devono essere trattati congiuntamente, in ragione della loro connessione.

3.1. Gli stessi non sono fondati. In primo luogo non può prescindersi dal dato temporale degli specifici contratti a termine.

Gli stessi sono stati conclusi con decorrenza, rispettivamente, 2 ottobre 2000 e 7 giugno 1999.

Per i contratti che ricadono temporalmente nella previsione di cui al D.L. n. 510 del 1996, art. 9, convertito nella L. n. 608 del 1996, opera la previsione che "che le assunzioni a tempo determinato effettuate dall’ente poste nel periodo compreso dal 26 novembre 1994 al 30 giugno 1997 decadono allo scadere del termine finale di ciascun contratto e non possono quindi dare luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato" (v. Cass., n. 13515 del 2001, Cass., n. 668 del 2002, Cass., n. 2615 del 2002).

Tale norma eccezionale (che, giustificata da esigenze peculiari nella fase di transizione tra il regime pubblicistico e il regime privatistico, ha superato il vaglio di costituzionalità, v. C. Cost. n. 419 del 2000), "esprime con chiarezza l’intento di rendere temporaneamente inoperanti, a tutti i contratti conclusi nel determinato arco di tempo, le disposizioni della L. n. 230 del 1962 e successive modifiche" (v. Cass., n. 2615 del 2002 cit.).

Per i contratti successivi al detto periodo ed anteriori al CCNL dell’11 gennaio 2001 (nonchè al nuovo regime previsto dal D.Lgs. n. 348 del 2001), tra i quali vanno ricompresi quelli oggetto della fattispecie in esame, vanno applicati i principi più volte affermati da questa Corte in materia, in base ai quali, sulla scia di Cass., S.U., n. 4588 del 2006, è stato precisato che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali, sulle necessità del mercato del lavoro, idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali e di provare la sussistenza del nesso causale fra le mansioni in concreto affidate e le esigenze aziendali poste a fondamento dell’assunzione a termine (v. fra le altre Cass., n. 15981 del 2009, Cass., n. 21063 del 2008, v. anche Cass., n. 9245 del 2006, Cass. n. 4862 del 2005, Cass. n. 14011 del 2004).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass., n. 18383 del 2006, Cass., n. 7745 del 2005, Cass., n. 2866 del 2004), per cui, come ripetutamente affermato da questa Corte, deve ritenersi che "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass., n. 20608 del 2007, Cass., n. 7979 del 2008).

Peraltro, tale limite temporale (del 30 aprile 1998) non riguarda i contratti stipulati ex art. 8 ccnl 1994 per "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie" (per i quali v. fra le altre Cass. 2 marzo 2007 n. 4933), mentre, per quanto riguarda la proroga di trenta giorni prevista dall’accordo 27 aprile 1998, per i contratti in scadenza al 30 aprile 1998, la giurisprudenza costante di questa Corte ne ha affermato la legittimità, sulla base della sussistenza, riconosciuta in sede collettiva, delle esigenze contingenti ed imprevedibili, connesse con i ritardi che hanno inciso negativamente sul programma di ristrutturazione (v. fra le altre Cass., n. 19696 del 2007).

3.2. Correttamente, in attuazione dei suddetti principi di diritto, e con congrua motivazione, la Corte d’Appello ha ritenuto che i contratti a termine, essendo stati conclusi dopo il 30 aprile 1998, non rinvenivano una valida fonte collettiva – attuativa dell’autonomia introdotta dalla delegificazione del 1987 -idonea legittimare l’assunzione a termine della R., nell’ottobre 2000, e della P., nel giugno 1999. 4. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata nullità del procedimento ( art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Il quesito di diritto è così articolato: se il giudice, ove ritenga che la prova da acquisire abbia una rilevanza decisiva per la definizione della controversia, abbia il potere dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò sia di ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti.

4.1. Il motivo, che, occorre precisare, attiene ad una mancata valutazione delle deduzioni istruttorie, è inammissibile in ragione della genericità dello stesso, tenuto conto, altresì che – in ragione di vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, 4 – "qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di quelle fasi, la produzione può avvenire per il tramite della produzione di tale fascicolo, ferma restando la necessità di indicare nel ricorso la sede in cui esso ivi è rinvenibile e di indicare che il fascicolo è prodotto, occorrendo tali indicazioni perchè il requisito della indicazione specifica sia assolto" (Cass., n. 22726 del 2011).

Parte ricorrente pur censurando la sentenza in quanto riteneva irrilevanti le prove articolate in primo grado, da un lato non specificava le modalità di deduzione ed allegazione delle stesse ai fini del necessario vaglio della Corte, dall’altro non ne indicava il contenuto al fine di offrire argomenti per una valutazione sulla rilevanza, ciò soprattutto in ragione della ratio decidendi della pronuncia d’appello come sopra richiamata. Analogamente generico e non circostanziato è il richiamo alla copiosa documentazione allegata al fascicolo di primo grado e ai contratti di assunzione depositati in atti, quali prova della legittimità dell’assunzione.

5. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ( art. 360 c.p.c., comma 3, n. 1); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Ad avviso della ricorrente, in ordine alla richieste economiche, la domanda di condanna non appariva supportata dal benchè minimo elemento probatorio ex art. 2697 c.c..

Il quesito di diritto ha il seguente oggetto: se in caso di domanda di risarcimento danni proposta dal lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore di lavoro fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da "scioglimento del rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale nulla" e se tale danno può equivalere alle retribuzioni perdute – detratto l’aliunde perceptum – a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, e se presuppone che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le abbia illegittimamente rifiutate.

5.1. Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la società ricorrente, invoca, altresì, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32. 5.2. Il motivo è inammissibile.

Occorre precisare che la Corte d’Appello statuiva che, in ragione della nullità del termine, alle ricorrenti spettava una somma pari alle retribuzione maturata dal momento in cui esse offrirono la loro prestazione, fino all’effettiva riammissione al lavoro.

Va premesso che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.

In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Il quesito di diritto, che la norma del codice di rito richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve infatti essere formulato, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass., S.U., n. 36 del 2007), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico o non pertinente.

In proposito, come rilevato da Cass., S.U., n. 2658 del 2008, a fini indicativi "potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata", le ragioni della cui erroneità sono adeguatamente illustrate nel motivo.

Il quesito di diritto sopra richiamato è generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto di regole vigenti in materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Ciò tenuto conto che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, a condizione che il datore stesso sia stato posto in una condizione di "mora accipiendf (individuata nella specie nella notifica del ricorso, contenete la esplicita domanda di riammissione in servizio) senza, peraltro, che si configuri l’automatica equivalenza del risarcimento ai compensi retributivi perduti, poichè tale automatismo è da escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita della retribuzione) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti per prestazioni lavorative svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro.

Dunque, nel caso in esame la genericità, astrattezza e quindi non pertinenza del quesito ne determina l’inammissibilità del relativo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

6. In ordine all’aliunde perceptum, la ricorrente eccepisce, quale motivo di ricorso assistito dal prescritto quesito, la violazione degli artt. 210 e 421 c.p.c., nell’avere omesso la Corte d’Appello qualsivoglia decisione in merito alla richiesta formulata da Poste italiane spa di ottenere l’esibizione della documentazione (libretti di lavoro, buste paga), al fine di consentire una corretta determinazione degli eventuali corrispettivi percepiti dalla dipendente per attività svolte alle dipendenze e/o nell’interesse di terzi.

6.1. Il motivo è inammissibile, in quanto del tutto generica e priva di autosufficienza è la censura relativa all’aliunde perceptum.

Al riguardo la ricorrente non specifica le modalità con cui ha dedotto davanti ai giudici di merito l’eccezione relativa all’aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto dì eccezione in senso lato), limitandosi a riportare il contenuto della istanza istruttoria che assume disattesa, non meglio collocandola processualmente, nè offre argomenti per valutarne la rilevanza, palesandosi la richiesta per la sua ampiezza e mancanza di riferimenti a specifiche attività lavorative, meramente esplorativa.

7. Pertanto il ricorso deve essere rigettato.

8. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro tremila per onorario, Euro 50,00 per esborsi, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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