Cons. Stato Sez. IV, Sent., 27-10-2011, n. 5778 Appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze del T.A.R Giustizia amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.1. Con nota prot. n. 19198 dei 9 – 12 luglio 2010, il Comune di Giussano (Mb), odierno appellante, ha comunicato ai signori N. Z., G. Z. e M. S. l’avvio del procedimento finalizzato all’accertamento della compatibilità della destinazione d’uso della porzione d’immobile ubicata in Giussano, via Cavour n. 85, distinta in catasto al foglio 13, mappale 54, subalterni nn. 701 e 702, concessa in locazione dai predetti Signori Z. al Signor S., legale rappresentante dell’Associazione culturale Da’awa, rispetto all’attività ed alle pratiche ivi di fatto esercitate (cfr. doc.ti 2 e 3, già prodotti nel fascicolo processuale di primo grado).

La medesima Amministrazione Comunale rimarca che l’Associazione Culturale Da’awa (da tradursi letteralmente come "Invito"), sarebbe ad oggi priva dell’iscrizione al Registro Nazionale istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri -Dipartimento per gli Affari Sociali, e pertanto essa non può accedere al regime agevolato di cui all’art. 32, comma 4, della L. 7 dicembre 2000 n. 383, à sensi del quale "la sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968 indipendentemente dalla destinazione urbanistica".

Consta dallo statuto dell’Associazione Culturale Da’awa che la medesima persegue le seguenti finalità: "rafforzare il legame di fratellanza umana tra comunità e i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di un quadro di rispetto e di integrazione";"organizzare preghiere individuali e collettive"; "far rivivere gli insegnamenti del Profeta (Sunna) e la rivelazione Divina (Corano)"; "essere un elemento di una area di convivenza e di pace, promuovendo una condotta morale che porti alla pratica del bene"; "organizzare e facilitare la procedura di sepoltura dei musulmani", con lo specifico proposito, fra l’altro, di "ospitare gruppi affini di provenienza sia nazionale, sia internazionale"; il tutto, peraltro, con l’espressa limitazione dell’ammissione ai soli "fedeli musulmani" (cfr. ibidem, doc. 4).

Da’awa svolge la propria attività nell’unità immobiliare di via Cavour n. 85 a Giussano, di proprietà dei Signori G. e N. Z., costituita da un negozio con affaccio diretto su strada e

ubicato al piano terra e seminterrato in un edificio a prevalente destinazione residenziale, a sua volta ricadente in ambito che il vigente strumento urbanistico del Comune di Giussano destina a "tessuto consolidato monofunzionale residenziale ad alta densità da mantenere" (cfr. ibidem, doc. 5).

Il Comune afferma che l’elevata frequenza di persone nelle vicinanze del negozio (il quale sarebbe stato chiuso per molti mesi a seguito di una serie di vicende tra la proprietà ed il Condominio, note alla comunità sebbene estranee alla vicenda per cui è ora lite) hanno indotto la Polizia Locale di Giussano ad effettuare taluni sopralluoghi presso gli anzidetti locali.

Tali sopralluoghi avrebbero consentito di accertare "al piano seminterrato l’esecuzione di un tavolato interno senza avere presentato regolare richiesta di permesso o denuncia di inizio di attività ed un cambio di destinazione d’uso funzionale da negozio ad edificio adibito a luogo di culto": e ciò in quanto "il piano terra del negozio era coperto di tappeti che venivano utilizzati

per pregare, com’è stato precedentemente accertato dalla Polizia Locale con relazioni di servizio n. 147 del 10 luglio 2010, n. 144 del 12 luglio 2010 e n.152 del 17 luglio 2010", e come sarebbe pure confermato dalle evidenze fotografiche ivi allegate (cfr. ibidem, doc. 6).

Il Comune espone inoltre che in data 10 luglio 2010, gli Agenti della Polizia Locale hanno effettuato un controllo in via Cavour, dove hanno riscontrato la "presenza di persone di religione islamica presso la struttura che dovrebbe ospitare un centro di culto" (cfr. ibidem, doc. 7).

In data 17 luglio 2010 sono stati ancora identificati nei locali taluni fedeli "che, all’arrivo degli

scriventi, si trovavano al piano interrato raccolti in preghiera" (cfr. ibidem, doc. 8).

L’Amministrazione Comunale afferma, quindi, che a margine dell’effettuazione di alcuni lavori interni privi di titolo abilitativo, sarebbe pertanto emersa la definitiva destinazione dell’immobile stesso a fini di culto: e ciò, in difetto del permesso di costruire cui all’art. 52, comma 3 bis, della L.R. 11 marzo 2005 n. 12 come introdotto dall’art. 1 della L.R. 14 luglio 2006 n. 12 e necessario

per i "mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto" (che l’art. 70 e ss. della stessa L.R. disciplinano puntualmente) "e luoghi destinati a centri sociali".

Gli Z. e l’Associazione Culturale Da’awa non hanno prodotto alcuna osservazione nel procedimento avviato con la predetta nota Prot. 19198 del 9 luglio 2010, e in conseguenza di ciò, con ordinanza n. 133 del 22 luglio 2010, notificata ai destinatari il giorno successivo, il Dirigente preposto al Settore Urbanistica, Edilizia, SUE/SUAP del Comune di Giussano ha contestato agli odierni appellati la violazione dell’anzidetto art. 52, comma 3bis della L.R. 12 del 2005, ingiungendo l’immediato ripristino dello stato originario dei luoghi e della destinazione d’uso originaria del negozio e del seminterrato, nonché la sospensione in tali locali dell’attività cultuale incompatibile con la destinazione d’uso originaria e con le previsioni del vigente strumento urbanistico.

Va soggiunto che in data 31 luglio 2010, alle ore 21.15, gli agenti della Polizia Locale si sono recati sul posto al fine di verificare il rispetto di tale ordinanza e hanno rinvenuto – rilevandone le generalità – ben trentuno persone di nazionalità Pakistana, Marocchina, Ghanese, Ivoriana, Tunisina, Algerina e del Togo, tutte residenti nei paesi circostanti la città di Giussano, le quali "all’arrivo degli scriventi erano intente a dialogare" (cfr. ibidem, doc. 9, non prodotto nel primo grado di giudizio).

In data 3 agosto 2010, alle 20.40, la Polizia Locale ha constatato che tutte le saracinesche dell’immobile in questione erano abbassate ed i vetri schermati da fogli di carta bianca, in modo da rendere impossibile guardare all’interno (cfr. ibidem, doc. 10, non prodotto nel primo grado di giudizio).

Il 5 agosto 2010, alle ore 20.35 circa, la Polizia Locale ha effettuato un nuovo accesso all’immobile al fine di verificare il rispetto dell’ordinanza n. 133 del 2010, ivi rinvenendo, oltre al Signor M. S., legale rappresentante dell’Associazione Da’awa, tale Rahmoon Bachir, di nazionalità marocchina, seduto a terra su alcuni tappeti (cfr. ibidem, doc. 11, non prodotto nel primo grado di giudizio).

I due sono state poi raggiunti da altre 19 persone, tutte a loro volta identificate, ed il Signor

M. S., interrogato sulla motivazione della riunione, "rispondeva che si incontrano abitualmente per parlare tra di loro ed all’arrivo dell’orario prestabilito si riuniscono in preghiera"; e, infatti, tutti i presenti all’interno dei locali sono stati poi trovati "inginocchiati

sul tappeto con testa rivolta a sudest bisbigliando delle frasi in coro in lingua straniera" (cfr. ibidem).

Il giorno 10 agosto 2010, alle 20.35 circa, nell’approssimarsi dell’ora prevista per la preghiera del tramonto ("Maghrib") la Polizia Locale ha effettuato un nuovo sopralluogo presso i locali con l’assenso del Signor Maman Seibu il quale, dapprima solo, è stato poi raggiunto da altre 18 persone, molte delle quali già presenti il 31 luglio 2010 (cfr. ibidem, doc. 12, non prodotto nel primo grado di giudizio).

Nella loro relazione di servizio gli Agenti hanno riferito che "sebbene gli scriventi si trattenessero in possibilità dei locali dalle ore 20.35 fino alle ore 21.05 nessuno dei presenti si disponeva in atteggiamento di preghiera" e che, tuttavia, "nel salone era stato incrementato l’allestimento di tappeti che ricoprono il pavimento" (cfr. ibidem).

In data 11 agosto 2010 ha avuto inizio il Ramadan, e il giorno successivo, alle ore 20.45, con l’ausilio dei Carabinieri della stazione di Giussano, la Polizia Locale ha nuovamente verificato il rispetto dell’ordinanza anzidetta, rinvenendo sul posto tre persone "intente a dialogare", le quali peraltro non risultavano essere soci dell’Associazione Da’awa, il cui legale rappresentante era, al momento, assente (cfr. ibidem, doc. 13, non prodotto nel primo grado di giudizio).

In data 13 agosto 2010, alle ore 20.05, i Carabinieri della locale stazione, recatisi

presso l’immobile in questione, "accertavano che tutte le saracinesche dell’immobile erano abbassate e le vetrate erano state oscurate da fogli di carta appesi dall’interno, rendendo quindi impossibile vedere dentro i locali"; peraltro, "la porta d’ingresso era aperta" e i militari sono entrati all’interno del salone al piano terra, nel quale hanno notato "la presenza di 7 (sette) persone di sesso maschile, fra i quali anche un minore, inginocchiati sui tappeti posti sul pavimento… tutti a piedi scalzi… con la testa rivolta verso sud est…., pronunciavano frasi in coro in lingua straniera ed in contemporanea, appoggiavano e rialzavano ripetutamente la fronte a terra"

Al termine della preghiera gli astanti sono stati identificati (cfr. ibidem, doc. 14, non prodotto nel primo grado di giudizio).

1.2. Ciò posto, con ricorso proposto sub R.G. 2020 del 2010 proposto innanzi al T.A.R. per la Lombardia, Sede di Milano, i Signori G. e N. Z., nonché il Sig. M. S., in proprio nonchè quale legale rappresentante dell’Associazione Da’awa, hanno chiesto l’annullamento dell’anzidetta ordinanza n. 133 dd. 22 luglio 2010 del Dirigente preposto al Settore Urbanistica, Edilizia, SUE/SUAP del Comune di Giussano, nonché della presupposta comunicazione Prot. 20344 dd. 20 luglio 2010 della Polizia Locale, nonché di ogni altro atto presupposto e consequenziale, tra cui – segnatamente – delle relazioni di servizio n. 147 dd. 10 luglio 2010, n. 144 dd. 12 luglio 2010 e n. 157 dd. 20 luglio 2010 n. 157.

Con un primo motivo di ricorso è stata dedotta l’avvenuta violazione dell’art. 3 della L. 7 agosto 1990 n. 241, dell’art. 31 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 e dell’art. 52 della L.R. 12 del 2005, oltrechè di diverse norme costituzionali ed eccesso di potere sotto svariati profili, assumendo che i locali non sarebbero stati affatto destinati a "luogo di culto" posto che il culto medesimo si porrebbe in termini di mera occasionalità e, comunque, nell’alveo della complessiva attività statutaria dell’Associazione, espressione a sua volta di libertà costituzionalmente garantite; di conseguenza, la realizzazione asseritamente abusiva del tavolato andrebbe ricondotto nell’ambito dell’attività edilizia libera e sarebbe irrilevante sotto il profilo strettamente edilizio, anche perché lo spazio destinato alle riunioni dei fedeli sarebbe inferiore al 50% della superficie dell’immobile.

Con un secondo motivo di ricorso, la violazione dell’art. 3 della L. 241 del 1990 e l’eccesso di potere per indeterminatezza dell’azione amministrativa sussisterebbero in quanto l’atto repressivo dell’abuso edilizio menzionerebbe la violazione del vigente strumento urbanistico senza peraltro mai indicare quale ne sia la norma concretamente violata.

Ad ogni buon conto, gli stessi ricorrenti in primo grado hanno pure dedotto la violazione dell’art. 42 delle N.T.A. dello strumento urbanistico del Comune di Giussano, assumendo che, all’epoca dei sopralluoghi, l’Associazione Da’awa stava completando i lavori di adeguamento dell’immobile al fine di destinarlo a propria sede associativa (asseritamente del tutto compatibile con quella attuale di "negozio"): donde la continua presenza di persone "per vedere lo stato d’avanzamento dei lavori d’imbiancatura" (così a pag. 8 del ricorso in primo grado).

I ricorrenti hanno anche sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 52, comma 3bis della L.R. 12 del 2005 per asserita violazione degli artt. 2, 3, 8, 9, 18, 19 e 20 Cost., ed hanno proposto domanda risarcitoria del danno esistenziale asseritamente patito dai fedeli, in relazione al turbamento loro causato dai sopralluoghi effettuati dalle Forze dell’ordine.

1.3. In tale primo grado di giudizio non si è costituito il Comune di Giussano; né si è costituita la parimenti intimata Regione Lombardia.

1.4. Con sentenza n. 7050 dd. 25 ottobre 2010 resa in forma semplificata à sensi degli artt. 60 e 74 cod. proc. amm. la Sezione II^ del T.A.R. per la Lombardia ha accolto in parte il ricorso degli Z. e del S., annullando segnatamente l’impugnata ordinanza n. 133 dd. 22 luglio 2010 del Dirigente preposto al Settore Urbanistica, Edilizia, SUE/SUAP del Comune di Giussano ma respingendo la domanda risarcitoria contestualmente proposta dai ricorrenti medesimi.

In tale senso il T.A.R. ha evidenziato che l’unità immobiliare di cui trattasi è stata data in locazione per lo svolgimento di attività che non comportano contatti diretti con il pubblico, e che i ricorrenti hanno impugnato l’anzidetta ordinanza dirigenziale n. 133 del 2010 e gli atti ad essa presupposti e conseguenti "assumendo che: non vi è stato alcun mutamento di destinazione d’uso finalizzato alla creazione di un luogo di culto, e la realizzazione di un divisorio interno rientra nell’ambito dell’attività edilizia libera ex art. 6 del T.U. dell’edilizia, approvato con D.P.R. 380 del 2001 (primo motivo); l’ordinanza omette ogni indicazione della norma urbanistica che il Comune reputa violata (secondo motivo); il mutamento d’uso, da negozio a sede associativa, è conforme alla destinazione urbanistica dell’immobile (B1.4), normata dall’art. 42 n.t.a. del PGT (secondo motivo bis)", nonché deducendo "l’incostituzionalità dell’art. 52, comma 3 bis, della legge regionale Lombardia n. 12/2005, per violazione degli artt. 2, 3, 8, 9, 18, 19, 20 e 21 Cost., per il fatto che detta disposizione, ove intendesse subordinare a permesso di costruire i mutamenti di destinazione d’uso (anche senza opere) finalizzati alla creazione di luoghi di culto, comprendendo in tale nozione anche i centri culturali in cui si eserciti privatamente ed occasionalmente la preghiera religiosa, discriminerebbe inammissibilmente l’uso di culto rispetto ad ogni altro genere di usi, in violazione del diritto costituzionale alla libertà di espressione del pensiero, alla libertà di associazione nonché alla libertà religiosa in tutte le sue manifestazioni, in particolare violando l’art. 20 della Costituzione, secondo cui il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, nè di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività".

Il giudice di primo grado ha, quindi, "considerato che: l’ordinanza muove dal presupposto che sia stata abusivamente modificata la destinazione d’uso dell’immobile da negozio a luogo di culto, in contrasto con il PGT e in violazione dell’art. 52, comma 3 bis, della legge regionale lombarda 11 marzo 2005 n. 12 (legge per il governo del territorio); in punto di fatto il Comune trae il proprio convincimento al riguardo da rapporti di servizio della Polizia Locale dai quali emerge (per quanto è dato ricavare dalle copie prodotte in giudizio, rilasciate ai ricorrenti con la schermatura delle generalità dei presenti) che in occasione di sopralluoghi e di controlli in loco gli agenti verbalizzanti hanno riscontrato la "presenza in sede di persone di religione islamica" (rapporto dd. 12 luglio 2010) ovvero di persone "raccolte in preghiera" (rapporto dd. 20 luglio 2010)".

Il T.A.R. ha conseguentemente "ritenuto che: l’art. 52, comma 3 bis, della legge regionale (il quale stabilisce che "i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire"),per la sua collocazione e la sua ratio è palesemente volto al controllo di mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni; la norma non pare quindi applicabile nel caso in cui l’immobile venga utilizzato da un’associazione culturale in cui il fine religioso rivesta carattere di accessorietà e di marginalità nel contesto degli scopi statutari;la previsione statutaria (art. 3) che comprende tra gli scopi dell’Associazione l’ "organizzare preghiere individuali e collettive" ovvero il "far rivivere gli insegnamenti del Profeta (Sunna) e la rivelazione Divina (Corano)" non costituisce elemento sufficiente a identificare detta sede con un "luogo di culto" assoggettabile alla predetta disciplina; del pari insufficiente è la circostanza che nella sede dell’associazione sia stata occasionalmente riscontrata la presenza di "persone di religione islamica" ovvero di "persone raccolta in preghiera", non potendosi qualificare, ai predetti fini, "luogo di culto" un centro culturale o altro luogo di riunione nel quale si svolgano, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose, tanto più ove si consideri che – come questo Tribunale ha avuto modo di statuire in una fattispecie similare (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 17 settembre 2009 n. 4665) – non rileva di norma ai fini urbanistici l’uso di fatto dell’immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare; ove altrimenti interpretata, la norma regionale si esporrebbe a dubbi di legittimità costituzionale".

Per quanto, da ultimo, attiene alla domanda risarcitoria il T.A.R. ha "considerato che il danno economico derivante dalla necessità di difendersi in giudizio trova rifusione all’interno del processo, nella disciplina delle spese di causa", nel mentre "il danno esistenziale (turbamento emotivo e psicologico) derivante dal divieto di esercitare in loco attività di culto non è comprovato, né nell’an né nel quantum, e non può essere comunque fatto valere dall’Associazione insostituzione dei singoli associati che avrebbero subito la compressione di diritti garantiti dalla carta costituzionale".

Nell’espressa considerazione della parziale soccombenza del Comune, il giudice di primo grado ha condannato quest’ultimo al pagamento delle spese del giudizio, complessivamente liquidate nella misura di Euro 2.000,00., oltre ad I.V.A. e C.P.A.

2.1. Con l’appello in epigrafe il Comune di Giussano chiede la riforma della sentenza sopradescritta, deducendo in via preliminare che l’atto introduttivo del relativo giudizio è stato notificato a mezzo del servizio postale da Ufficiale giudiziario incompetente, addetto infatti nella specie all’Ufficio notifiche del Tribunale di Monza anziché addetto all’Ufficio notifiche della Corte d’Appello di Milano.

Dalla nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado discenderebbe pertanto ad avviso dell’appellante Amministrazione Comunale l’inammissibilità del relativo ricorso, tenendo in considerazione la circostanza che la nullità medesima non è stata nella specie sanata dalla costituzione delle parti intimate, ossia dello stesso Comune e della Regione Lombardia, per l’appunto non costituitisi nel giudizio di primo grado.

Nel merito, con un primo ordine di censure il Comune deduce l’avvenuto travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, nonché difetto di istruttoria per quanto segnatamente attiene all’interpretazione dello statuto associativo fatta dal giudice di primo grado e alla reputata "occasionalità" dell’attività di culto praticata nella sede associativa.

Con un secondo ordine di censure il Comune deduce invece eccesso di potere per illogicità manifesta e travisamento dei presupposti di fatto e di diritto per quanto attiene alla destinazione d’uso dell’immobile.

2.2. Si sono costituiti in giudizio gli appellati Z. e S., eccependo preliminarmente, a loro volta, l’inammissibilità dell’appello proposto dal Comune per invalidità della procura ad litem apposta in calce all’atto introduttivo del presente giudizio, e ciòin quanto la sottoscrizione della procura medesima non risulta autenticata da un avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori, à sensi dell’art. 33 del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 convertito con modificazioni in L. 22 gennaio 1934 n. 36.

Sempre in via preliminare gli appellati hanno chiesto l’inammissibilità di tutte le nuove produzioni documentali del Comune di Giussano non presenti nel fascicolo processuale di primo grado, e segnatamente identificate nelle relazioni di polizia susseguenti alla data del 23 luglio 2010.

Nel merito gli appellanti concludono per la conferma della sentenza resa in primo grado e, per tuziorismo, ripropongono comunque anche nel presente grado di giudizio la questione di costituzionalità dell’art. 52, comma 3bis della L.R. 12 del 2005 già sollevata innanzi al T.A.R.

3. Alla pubblica udienza del 7 giugno 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

4. Il Collegio deve innanzitutto farsi carico di disaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso dedotta dagli appellati, secondo la quale risulterebbe nulla la procura ad litem apposta in calce all’atto introduttivo del presente giudizio in quanto la sottoscrizione della procura medesima non risulta autenticata da un avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori.

Tale eccezione è infondata.

In effetti, un’ormai remota giurisprudenza condivide la tesi degli appellati (cfr., ad es., Cass, Sez. II, 16 maggio 1975 n. 1904 e, soprattutto, Cass., SS.UU., 19 dicembre 1989 n. 5664, secondo la quale – per l’appunto – qualora la firma della parte, nella procura in calce od a margine del ricorso per cassazione, sia certificata autografa da un difensore non iscritto all’albo dei patrocinanti in cassazione, cui sia stato conferito il mandato unitamente ad altro difensore iscritto a tale albo, si verifica l’inammissibilità del ricorso medesimo, pure se sottoscritto da quell’altro difensore, considerato che tale certificazione è affetta da invalidità, perché il potere di effettuarla presuppone la sussistenza dello ius postulandi, e che, inoltre, l’invalidità o mancanza della certificazione stessa implica divergenza dell’atto d’impugnazione dal modello legale di cui all’art. 365 c.p.c., con il difetto del requisito essenziale costituito dall’esistenza di procura certa ed anteriore alla notificazione; cfr., altresì, più recentemente, Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2003 n. 2515, secondo cui è inammissibile il ricorso al Consiglio di Stato sottoscritto dal solo difensore iscritto nell’albo speciale allorquando l’autenticazione del mandato speciale, rilasciato a suo favore in calce al ricorso, sia stata effettuata invece da avvocato non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori)..

Tuttavia, più recentemente, la giurisprudenza ha affermato che la domanda giudiziale è sempre valida ogni qual volta, anche in mancanza di sottoscrizione da parte di un difensore abilitato, sussistono concorrenti elementi idonei ad imputare l’atto, sul piano sostanziale, ad altro difensore munito di ius postulandi e, in particolare, quando l’atto di appello sia stato sottoscritto – come, per l’appunto, nel caso di specie – anche da un altro procuratore competente (o destinatario della procura) che abbia svolto attività difensiva (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. V, 8 marzo 2006, n. 2873): e ciò in quanto la nullità della certificazione di autenticità della procura eseguita da procuratore non abilitato non determina l’inammissibilità dell’atto allorquando la procura stessa sia stata conferita anche ad altro avvocato abilitato e questi abbia sottoscritto l’atto stesso nella cui epigrafe sia richiamata la procura a margine (o in calce), giacché, in tale ipotesi, il difensore abilitato con la sottoscrizione dell’atto cui è incorporata la procura certifica, altresì, l’autenticità della firma di colui che risulta aver conferito la procura medesima (cfr. ibidem, con richiamo ai puntuali precedenti in tal senso di Cass. Civ., Sez. III, 2 maggio 1996 n. 4009 e di Cons. Stato, Sez. V, 17 maggio 2000 n. 2873).

5. Sempre in via preliminare, il Collegio deve pure farsi carico di disaminare l’eccezione sollevata dall’appellante Comune in ordine all’ammissibilità del ricorso proposto in primo grado dagli attuali appellati, reputato a sua volta inammissibile in quanto notificato a mezzo posta da ufficiale giudiziario incompetente.

Il Collegio, pur evidenziando che la questione risulta recessiva nell’economia di causa in quanto – come sarà evidenziato nel successivo Par. 7 – il ricorso proposto in primo grado dai Signori Z. e S. è comunque infondato nel merito, non sottace che, per giurisprudenza ormai prevalente, la violazione delle norme sulla competenza degli ufficiali giudiziari non comporta la nullità della notificazione, bensì una mera irregolarità che assume rilievo soltanto nei confronti dell’ufficiale giudiziario incompetente, nel mentre è ininfluente sulla ritualità della notificazione (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 2007 n. 2849 e 14 dicembre 2004 n. 8072; Sez. V, 25 febbraio 1999 n. 224 e 1 ottobre 1982 n. 692; A.P. 23 marzo 1982 n. 4), prescindendo anche dal contemplare (come viceversa seguita a fare la Corte di Cassazione: cfr. sul punto, ad es., Cass. Sez. lav., 11 giugno 2004 n. 11140) la necessità di sanatoria con effetto retroattivo mediante costituzione della parte intimata anche nel caso in cui la costituzione stessa avvenga dichiaratamente al solo scopo di eccepire tale incompetenza.

6. Ancora in via preliminare e in dipendenza di quanto disposto dall’art. 104, comma 2, cod. proc. amm. va accolta l’istanza degli appellati in ordine all’inammissibilità di tutte le nuove produzioni documentali dell’appellante Comune di Giussano non presenti nel fascicolo processuale di primo grado e segnatamente identificate nelle relazioni di polizia susseguenti alla data del 23 luglio 2010.

7. Tutto ciò doversosamente premesso, e come detto innanzi, la sentenza resa in primo grado va riformata e – per l’effetto – il ricorso ivi proposto va respinto.

Il Collegio ribadisce in tal senso che, come evidenziato anche nella recente ordinanza cautelare n. 2008 dd. 10 maggio 2011, se un immobile non risulta sia utilizzato in via esclusiva quale luogo di culto (diritto, questo, il cui esercizio è comunque garantito anche ai non cittadini à sensi e nei limiti dell’art. 19 Cost.), in linea di principio non è possibile affermare la sussistenza di un’incompatibilità ediliziourbanistica della destinazione d’uso dell’immobile medesimo, il quale peraltro consterebbe sia a tutt’oggi nella specie adibito a "negozio",anche se poi divenuto sede dell’Associazione Culturale Da’awa.

L’esame dello statuto di tale Associazione e delle circostanze di fatto documentate sino alla predetta data del 23 luglio 2011 convincono tuttavia il Collegio della circostanza che, a differenza del caso definito in sede cautelare da questa stessa Sezione mediante l’anzidetta ordinanza n. 2008 del 2001, nella fattispecie non risulta materialmente comprovato lo svolgimento da parte della Associazione medesima di attività diverse da quelle proprie della preghiera, nondimeno reputata in via del tutto apodittica dal T.A.R. come accessoria e marginale nel contesto degli scopi statutari perseguiti da Da’awa.

In effetti, nell’estrema genericità dei pur commendevoli scopi di carattere generale enunciati dallo statuto di Da’awa ("rafforzare il legame di fratellanza umana tra comunità e i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di un quadro di rispetto e di integrazione"; "essere un elemento di una area di convivenza e di pace, promuovendo una condotta morale che porti alla pratica del bene"; "far rivivere gli insegnamenti del Profeta – Sunna e la rivelazione Divina – Corano"), la specifica attività di "organizzare preghiere individuali e collettive" assume all’evidenza un carattere non occasionale ma del tutto preminente: e ciò inderogabilmente impone, pertanto, l’applicazione nella specie dell’art. 52, comma 3bis della L.R. 11 marzo 2005 n. 12 come introdotto dall’art. 1 della L.R. 14 luglio 2006 n. 12, laddove si dispone la necessità del rilascio del permesso di costruire per i "mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali".

Né va sottaciuto che l’art. 70 e ss. della medesima L.R. 12 del 2005 reca una specifica disciplina urbanistica per i luoghi di culto e che, medio tempore, lo ius superveniens contenuto nell’art. 71, comma 1, lett. c – bis, della L.R. 11 marzo 2005 n. 12, così come inserito dall’art. 12 della L.R. 21 febbraio 2011 n. 3, ha comunque ricondotto nella categoria delle "attrezzature di interesse comune per servizi religiosi… gli immobili (comunque) destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali".

In tale contesto, pertanto, la trasformazione – inoppugnabilmente avvenuta nella specie – del preesistente "negozio" in luogo preminentemente adibito a culto non poteva che richiedere, anche a prescindere dalla concomitantemente contestata realizzazione al piano seminterrato di un tavolato interno, il rilascio del titolo edilizio abilitante al mutamento della destinazione d’uso dei relativi locali.

Né la disciplina contenuta nel testè citato art. 52, comma 3bis della L.R. 12 del 2005 come introdotto dall’art. 1 della L.R. 12 del 2006 può reputarsi incostituzionale secondo la prospettazione svolta in tal senso dagli appellati.

Secondo questi ultimi, infatti, tale disciplina violerebbe l’art. 2 Cost. (riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali; tra i diritti inviolabili dell’uomo vi è il diritto alla preghiera religiosa ed al culto); l’art. 3 Cost. (violazione del principio d’eguaglianza e ragionevolezza in quanto sarebbe chiara la discriminazione che la Regione Lombardia pone a coloro che vogliano destinare i locali, anche senza opere, a luogo di culto – necessità di operare con permesso di costruire – rispetto a tutti gli altri cittadini che vogliano effettuare un mutamento di destinazione d’uso d’altro genere – il permesso di costruire non necessita. è sufficiente la denuncia d’inizio attività, o la semplice comunicazione) l’art. 8 Cost. (libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge); l’art. 9 Cost. (promozione dello sviluppo della cultura); gli artt. 18 e 19 Cost. (a mezzo della contestata disciplina regionale si inciderebbe e si annullerebbe il diritto di associarsi liberamente ed il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa al fine di farne propaganda – anche a mezzo di associazioni culturali- ed anche per esercitare in pubblico ed in privato il proprio culto); l’art. 20 Cost. (si violerebbe il divieto costituzionale di non porre speciali limitazioni legislative per ogni forma d’attività dell’associazione con fine di culto); e, da ultimo, l’art. 21 Cost. (si inciderebbe e si annullerebbe il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero costituito anche dall’esercizio del culto.

Il Collegio a tale ultimo riguardo evidenzia che lo stesso giudice di primo grado ha convenuto che l’art. 52, comma 3bis della L.R. 12 del 2005 per la sua collocazione e la sua ratio è palesemente volto al controllo di mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, le quali richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni: se non altro agli effetti dell’altrettanto necessario e conseguente rilascio del certificato di agibilità (cfr. art. 23 e ss. del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380) dell’immobile destinato al nuovo uso, nonchè della parimenti necessaria e conseguente pratica di prevenzione incensi di cui al D.P.R. 12 gennaio 1998 n. 37 di competenza dei Vigili del Fuoco.

Pertanto non sussiste, nel contesto del medesimo comma 3bis, alcuna discriminazione di carattere politicoculturale e religioso, anche per il fatto che la disciplina sopradescritta è uniformemente applicata ad ogni luogo di culto, anche cattolico, nonché ad ogni centro sociale, di qualsivoglia tendenza sociopolitica, al fine di salvaguardare l’incolumità di tutti coloro che frequentano tali luoghi di riunione.

8. Le spese e gli onorari possono essere integralmente compensati per entrambi i gradi di giudizio, nel mentre il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 è posto a carico degli attuali appellati, sempre per entrambi i gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado.

Compensa integralmente le spese e gli onorari dei due gradi di giudizio, nel mentre pone a carico degli appellati il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 per entrambi i gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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