Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-02-2012, n. 2560 Riparazione per errore giudiziario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.L., Ma.Br. ed T.A. chiesero al Tribunale di Rieti, con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., la cessazione dell’attività di un impianto di lavaggio di autovetture, ovvero l’adozione delle misure idonee a ricondurre le immissioni acustiche dallo stesso prodotte nei limiti di legge.

Il giudice G.G., disposta consulenza tecnica d’ufficio, respinse il ricorso.

Il collegio, investito del reclamo ex art. 669 terdecies cod. proc. civ., confermò siffatta statuizione.

Con ricorso depositato il 5 febbraio 2009 i ricorrenti citarono in giudizio lo Stato Italiano, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri, allegando la responsabilità della dottoressa G. per dolo, o almeno per colpa grave. Chiesero il risarcimento dei danni patrimoniali e non da essi subiti tra il deposito del ricorso d’urgenza e il provvedimento di sequestro preventivo dell’impianto, disposto in data 18 marzo 2008, dal GIP del Tribunale di Perugia (territorialmente competente, ex art. 11 cod. proc. pen., per la qualifica rivestita da uno dei ricorrenti), nell’ambito del procedimento penale che vedeva imputati i gestori dei reati di cui all’art. 659 c.p., comma 1 e art. 674 cod. pen..

Il Tribunale di Perugia, con decreto del 28 maggio 2010, dichiarò inammissibile il ricorso, ai sensi della L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 4, comma 2, affermando che l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato Italiano era esperibile, come statuito dal giudice di legittimità nella sentenza 23 novembre 2001, n. 14860, con riguardo ai provvedimenti cautelari e sommari, solo quando fosse intervenuta la decisione di merito che li aveva revocati, o comunque contraddetti.

La Corte d’appello, investita del reclamo proposto avverso tale provvedimento, lo ha respinto in data 25 febbraio 2001, pur avendo ritenuto fondati i rilievi critici formulati dai reclamanti in punto di limitazione dell’operatività del principio enunciato dalla Corte di cassazione, nell’arresto richiamato dal giudice di prime cure, ai soli provvedimenti di accoglimento e comunque ai soli casi un cui alla definizione del procedimento cautelare debba necessariamente seguire quella del giudizio di merito.

Per la cassazione di detta pronuncia ricorrono a questa Corte M.L., Ma.Br. ed T.A., formulando sei motivi, illustrati anche da memoria. La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha resistito, chiedendo il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano vizi motivazionali con riferimento all’affermazione della Corte territoriale secondo cui era palesemente infondato l’assunto che il giudice G. avesse favorito le controparti, mantenendo nelle funzioni di consulente il dott. m., benchè lo stesso avesse preannunciato l’esito dell’indagine. Richiamano i gravissimi, dettagliati e documentati elementi di riscontro da essi forniti sulle anomalie della condotta dell’ausiliario, per inferirne che la sua mancata sostituzione era frutto di dolo o, almeno, di colpa grave.

2. Le critiche sono, per certi aspetti inammissibili, per altri affatto inconsistenti.

La Corte d’appello ha ritenuto palesemente infondato l’assunto che il giudice G. avesse favorito le controparti, omettendo di rimuovere dall’incarico di consulente tecnico d’ufficio il dott. m., benchè lo stesso avesse preannunciato l’esito dell’indagine, segnatamente osservando che l’istanza di ricusazione venne esaminata per ben due volte dal decidente (la seconda a seguito di una richiesta di revoca della prima decisione) , e che essa fu respinta perchè, secondo il giudice della cautela, le affermazioni dei ricusanti non evidenziavano rapporti tra il c.t.u. e la controparte ed erano comunque prive di elementi di riscontro.

Ora, i rilievi degli impugnanti ignorano del tutto il nucleo intorno al quale, su questo specifico punto, ruota il provvedimento impugnato, e cioè il rigetto dell’istanza di ricusazione e le ragioni addotte dal giudice G. a supporto di tale decisione.

Le censure sono pertanto, prima ancora che carenti sotto il profilo dell’autosufficienza, eccentriche, rispetto alla ratio decidendi della decisione della Corte territoriale, e volte, in sostanza, a sollecitare una diretta rivalutazione del comportamento del consulente, sia pure in chiave di responsabilità del magistrato che si rifiutò di rimuoverlo: obliqua forma di neutralizzazione delle conclusioni alle quali l’ausiliario approdò e della decisione del giudice che ritenne di condividerle.

3.1 Con il secondo mezzo gli impugnanti tornano a prospettare vizi motivazionali con riferimento all’asserito espletamento di analisi microbiologiche delle acque prelevate dai pozzetti di scarico dell’impianto in contestazione, analisi che, invece, agli atti di causa non esistevano affatto, incorrendo così quanto meno in colpa grave, avendo affermato un fatto la cui esistenza era incontrovertibilmente esclusa dall’esame del fascicolo processuale.

3.2 Con il terzo lamentano insufficienza e contraddittorietà della motivazione in relazione alla affermata assenza di zanzare, anche allo stato larvale, nei campioni esaminati, senza considerare che il rilievo era da imputarsi alla bonifica eseguita dai resistenti nei giorni precedenti le operazioni peritali, il che rendeva indispensabili le analisi batteriologiche degli scarichi.

Aggiungono che l’affermazione secondo cui l’habitat dei pozzetti era incompatibile con la presenza di larve era basata su un esame chimico sbagliato, come emergeva dalle indagini effettuate da (OMISSIS), dall’Ufficio Ambiente del Corpo Forestale dello Stato e dalle articolate osservazioni del consulente di parte.

4. Anche le esposte critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro intrinseca connessione, sono prive di pregio.

Sul punto ha rilevato la Corte d’appello: a) che l’asserita assenza di indagini microbiologiche era smentita dalla relazione del consulente, il quale aveva dato atto dell’esito negativo di un esame biologico eseguito con stereomicroscopio, esame volto ad appurare la presenza di zanzare allo stato adulto o larvale; b) che a tale accertamento aveva evidentemente inteso riferirsi il giudice G., impropriamente indicandolo come analisi microbiologica, anzichè, più correttamente, biologica; c) che avendo il c.t.u. accertato l’assenza nei pozzetti di zanzare, anche allo stato larvale, e anzi la formazione di un ambiente anaerobico incompatibile con il loro attecchimento, correttamente era stato ritenuto inutile l’esame biologico, volto ad appurare la presenza di batteri, e cioè di cibo per i predetti insetti.

5. A fronte di tale impianto motivazionale, il collegio rileva, sotto un primo profilo, che le affermazioni degli impugnanti sono prive, ancora una volta, di autosufficienza, laddove richiamano il contenuto dell’ordinanza del giudice della cautela, della relazione del consulente tecnico e di pretesi esami eseguiti da altri uffici pubblici e privati, senza riportarne compiutamente il contenuto e senza indicare la loro esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte. Siffatte deduzioni erano invece assolutamente necessarie soprattutto con riferimento alla pretesa, falsa attestazione dell’esecuzione di analisi che non sarebbero state, invece, espletate, posto che andavano indicati con precisione i termini con i quali l’ausiliario aveva dato atto del loro compimento, al fine di consentire al collegio di apprezzare se l’esito di quelle indagini dovesse plausibilmente emergere da un allegato (in tesi inesistente), ovvero se quei risultati, inerendo ad accertamenti che l’esperto aveva affermato di avere svolto personalmente, fossero stati ragionevolmente inseriti tout court nell’elaborato finale.

Siffatte indicazioni erano poi tanto più necessarie, in quanto, come questa Corte ha ripetutamente evidenziato, il procedimento sulla ammissibilità della azione risarcitoria in dipendenza di responsabilità civile del magistrato, di cui alla L. n. 117 del 1988, mentre ha carattere pieno e definitivo in ordine alla configurabilità, nei fatti contestati, dei requisiti e delle condizioni ai quali la legge la subordina, ha necessariamente natura delibativa relativamente al riscontro della sussistenza degli elementi adotti a sostegno della contestazione, sicchè la relativa indagine può essere condotta, in tale fase, esclusivamente in via esterna, e cioè alla stregua degli atti del procedimento, e segnatamente del contenuto del provvedimento giudiziale che si assume lesivo, rimanendo devoluta al successivo giudizio di merito l’approfondita valutazione della fondatezza della azione (confr.

Cass. civ. 27 novembre 2006, n. 25123; Cass. civ. 30 luglio 1999 n. 8260): con l’ulteriore e decisiva precisazione che, nella fase preliminare del controllo di ammissibilità, la cognizione relativa alla sussistenza dei presupposti per l’attivazione delle tutele accordate dalla L. n. 117 del 1988, e, in particolare, della grave violazione di legge, in concreto dedotta a fondamento della domanda di responsabilità, ha carattere pieno e definitivo, perchè la deliberazione si connota in termini di sommarietà solo in relazione alla latitudine del controllo – il quale non può tracimare dal raffronto tra la condotta ascritta e quella emergente dalla documentazione prodotta – ma non alla sua intensità (confr. Cass. civ. 27 novembre 2006, n. 25123).

A ciò aggiungasi che le censure – il cui nodo è, per il resto, la dolosa e strumentale limitazione dell’esame batteriologico alle sole acque prelevate dal serbatoio, provenienti dall’acquedotto comunale e quindi presumibilmente indenni, anzichè su campioni di acque reflue attinte dai pozzetti – si risolvono nella contestazione del metodo e delle conclusioni del consulente tecnico nonchè dell’apprezzamento del decidente, che quelle conclusioni fece proprie. Esse sono dunque volte a sollecitare un tipo di sindacato precluso, già in via di principio – e a prescindere dai rilievi sin qui svolti – in sede di legittimità. 6.1 Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano vizi motivazionali con riferimento all’affermazione della Corte d’appello secondo cui, quanto alle immissioni acustiche, il giudice G., per discostarsi dalle valutazioni del c.t.u., non si sarebbe avvalso della propria scienza privata, essendosi piuttosto limitato a includere, in applicazione di criteri elaborati dalla giurisprudenza, il traffico veicolare della zona nel rumore di fondo, e a far ricorso, per la conoscenza della topografia cittadina, a nozioni di fatto di comune esperienza. Assumono per contro gli esponenti che, così argomentando, la Corte d’appello non avrebbe considerato che il c.t.u. aveva misurato il rumore di fondo con il metodo statistico;

che, per questa via, non aveva rilevato valori superiori a una certa soglia; che, conseguentemente, e correttamente, aveva escluso dal rumore di fondo il traffico veicolare. Ne deducono che il giudice G., o aveva ignorato, con negligenza inescusabile, i criteri di misurazione adottati dall’esperto, oppure, conoscendoli, li aveva volontariamente e illegittimamente disattesi, ricorrendo alla propria scienza privata.

6.2 Con il quinto mezzo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 115 cod. proc. civ.. Sostengono che il giudice di merito, affermando che la conoscenza della topografia e della situazione di un luogo cittadino, nel cui ambito era inserito un importante edificio pubblico come il tribunale, rientrava nelle nozioni di fatto di comune esperienza, utilizzabili ai fini della decisione, ex art. 115 cod. proc. civ., avrebbe fatto malgoverno della giurisprudenza del Supremo Collegio, che costantemente circoscrive entro limiti estremamente rigorosi l’area di operatività delle predette nozioni.

6.3 Con il sesto lamentano violazione della L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 5, comma 3. Le critiche si appuntano contro quella parte della sentenza impugnata in cui la Corte territoriale, ricordate le figure sintomatiche di colpa grave enucleate nella L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, ha affermato che, in base alle considerazioni svolte per confutare la sussistenza dei profili di dolo denunciati dai ricorrenti, doveva escludersi anche la sussistenza di uno dei casi di colpa grave indicati dalla norma. Sostengono per contro che il giudice G. sarebbe incorso in negligenza inescusabile quanto meno con riguardo alla determinazione del rumore di fondo, al ricorso alla sua scienza privata, nonchè all’affermazione dell’esistenza di analisi microbiologiche dei pozzetti, che in realtà non esistevano.

7.1 Anche gli esposti motivi, che, involgendo questioni connesse, possono essere scrutinati insieme, sono infondati. A ben vedere, essi mirano pur sempre a sollecitare, attraverso la surrettizia deduzione di malgoverno della normativa in tema di responsabilità del magistrato e di erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, un controllo mediato sul merito del provvedimento del giudice della cautela, senza peraltro evidenziare alcuna attività interpretativa e valutativa del magistrato connotata o connotabile in termini di dolo o colpa grave. Ne deriva che il provvedimento impugnato resiste alle critiche relative al metodo di rilevamento della soglia di tollerabilità delle immissioni acustiche nonchè all’applicazione dell’istituto della nozione di fatto di comune esperienza, in ragione dell’operatività, in parte qua, della clausola di salvaguardia di cui alla L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, comma 2, a tenor del quale nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto nè quella di salutazione del fatto e delle prove. Nè è inutile ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, siffatta clausola, giustificata dal carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria e – come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 19 gennaio 1989 – attuativa della garanzia costituzionale dell’indipendenza del giudice, non tollera letture riduttive (Cass. civ., 27 novembre 2006, n. 25123).

7.2 Con specifico riguardo alle censure dei ricorrenti, è poi il caso di rimarcare, da una parte, il carattere di puro apprezzamento della soglia di tollerabilità delle immissioni acustiche, posto che essa non ha, notoriamente, carattere assoluto ma è relativa alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, di talchè spetta, in definitiva, al giudice di merito valutarne, in concreto, il superamento (confr. Cass. civ. 12 febbraio 2010, n. 3438);

dall’altro, che è ormai pacificamente ammesso anche il cd. notorio ristretto, e cioè il fatto acquisito, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, alle conoscenze non già dell’intera collettività, ma di quella sola del luogo in cui abitino il giudice e le parti in causa (confr. Cass. civ. 21 febbraio 2007, n. 4051; Cass. civ. 11 febbraio 1987, n. 1492; Cass. civ. 19 maggio 1986, n. 3307). Ed è addirittura ovvio che i profili problematici di siffatte applicazioni, estremamente fluide, non si prestano a essere apprezzati in termini di colpa, nè grave, nè lieve, del magistrato che ad esse abbia fatto ricorso.

8 Tutte le censure appaiono, in definitiva, inficiate da un errore prospettico di fondo, nella misura in cui i ricorrenti tendono a traslare nel giudizio di responsabilità rilievi che andavano più correttamente spesi nel giudizio a valle. Ora, proprio avendo riguardo alla domanda inizialmente azionata e agli sviluppi della stessa, anche solo potenziali, non può ignorarsi che il provvedimento del giudice G. venne confermato in sede di reclamo; che su tale andamento della vicenda processuale i ricorrenti tacciono del tutto; che, senza volere qui impropriamente ripescare il principio enunciato da questa Corte nella sentenza 23 novembre 2001, n. 14860, la cui operatività è già stata fortemente circoscritta dal giudice a quo, riesce comunque difficile comprendere per quale ragione gli esponenti, tentata senza successo la via del provvedimento d’urgenza, non abbiano poi percorso quella di un ordinario giudizio di cognizione, di un giudizio, cioè, non imbrigliato negli angusti limiti della verifica della ricorrenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, nel quale bene avrebbero potuto far valere, nella pienezza del contraddittorio, le dedotte insufficienze degli accertamenti espletati in sede di procedimento ex art. 700 cod. proc. civ., nonchè il preteso, inappagante approccio del giudice della cautela.

9. Tutto ciò convalida la correttezza logica e giuridica del convincimento maturato dalla Corte d’appello in sede di preventivo vaglio di ammissibilità della domanda. Nè tale approdo si presta a essere ripensato alla luce delle statuizioni contenute nella sentenza 24 novembre 2011 – Causa C-379/10 (segnatamente richiamate nella memoria difensiva depositata dai ricorrenti ex art. 378 cod. proc. civ.), pronuncia con la quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (nel solco di precedenti arresti, quali la sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo, e la sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Kobler e all’esito di una valutazione critica delle pronunce di questa Corte 18 marzo 2008, n. 7272 e 5 luglio 2007, n. 15227), ha affermato che la Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 1 e 2, è venuta meno agli obblighi su di essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione.

Tanto per l’assorbente ragione che l’arresto della Corte lussemburghese propriamente riguarda la responsabilità dello Stato italiano per violazioni manifeste, da parte dell’organo giurisdizionale di ultimo grado, del diritto dell’Unione. La soluzione del caso sottoposto all’esame del collegio non pone, dunque, alcun problema di armonizzazione ermeneutica tra la disciplina dell’azione di responsabilità civile dei magistrati, come configurata dall’ordinamento e ricostruita dal diritto vivente, e gli obblighi comunitari dello Stato italiano. E ciò al di là del rilievo che, per quanto sin qui detto, nel comportamento del giudice G. non è dato riscontrare alcuna violazione del diritto vigente, men che mai grave e manifesta, e quindi alcun profilo di colpa.

Per le stesse ragioni, e conclusivamente, qualsivoglia dubbio di legittimità costituzionale della limitazione ai soli casi di dolo o colpa grave dell’area della responsabilità civile del magistrato, è, nella fattispecie, privo di ogni rilevanza.

10.- Il ricorso è respinto.

I ricorrenti rifonderanno alla controparte le spese del giudizio, nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.200,00 (di cui Euro 4.000,00 per onorari), oltre IVA e CPA, come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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