Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 05-07-2011) 30-09-2011, n. 35618

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Napoli rigettava la richiesta di riesame proposta da C.V. avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale che aveva applicato al predetto la misura cautelare della custodia in carcere, in quanto raggiunto da gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen..

Secondo l’ipotesi accusatoria, il C. avrebbe partecipato alla consorteria camorristica, denominata De Falco-Di Fiore, operante in Acerra a far data dal 2005, quale diretto collaboratore dei vertici del sodalizio in particolare per le attività estorsive in danno di operatori commerciali, ricevendo anche direttive dal carcere dal detenuto D.F.M., figura apicale del clan. Il Tribunale rilevava preliminarmente che la provvisoria contestazione mossa al C. aveva tenuto conto delle indicazioni date dal G.i.p. nell’ordinanza del 29 giugno 2010, che, nel rigettare una precedente richiesta di misura cautelare – avanzata con riferimento alla sua ritenuta appartenenza ad un diverso sodalizio criminale (il clan De Sena) – aveva sottolineato che il compendio indiziario agli atti non autorizzasse a ritenere avvenuto il "transito" del C., avendo costui mantenuto la perdurante intraneità nel clan De Falco-Di Fiore.

Nel quadro indiziario tracciato dal Tribunale, assumeva particolare spicco una lettera intercettata in carcere scritta da D.F. M. e diretta al C., con la quale il primo veniva ad investire quest’ultimo della reggenza del clan in attesa della sua liberazione ("tieni tutto come era prima", "vedi chi devi mettere al Rione Gescal come responsabile che fa capo a te per le cose nostre").

Le indagini successive avevano dimostrato che il C. aveva effettivamente svolto il compito affidatogli, figurando quale mandante di attività estorsive. Inoltre, il collaboratore S. V. aveva confermato che il C. aveva operato per conto e nell’interesse del clan De Falco-Di Fiore, al quale inviava una parte dei proventi estorsivi.

2. Avverso la suddetta ordinanza, ricorre per cassazione il difensore dell’indagato, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:

– la violazione degli artt. 291 e 310 cod. proc. pen., in quanto il P.M., con l’escamotage di modificare solo formalmente la imputazione provvisoria, avrebbe reiterato una richiesta cautelare respinta dal G.i.p., anzichè ricorrere agli ordinari rimedi di impugnazione.

– la violazione dell’art. 273 c.p.p., comma 1-bis, per l’inconsistenza degli indizi rivelatori della affiliazione del C. al sodalizio criminale Di Fiore-De Falco. La lettera inviata dal D.F. e mai consegnata al C. potrebbe essere non genuina e artatamente costruita dal D.F. per sopprimere il C. del clan rivale. Quanto alle dichiarazioni del collaborante S., il Tribunale non avrebbe affrontato il vaglio della loro attendibilità, con riscontri esterni.

– la mancanza o mera apparenza della motivazione, in quanto risulterebbe omessa qualsiasi valutazione o esplicitazione delle ragioni circa la sussistenza della gravita indiziaria, rinviando l’ordinanza impugnata acriticamente alla motivazione dell’ordinanza genetica.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il primo motivo è manifestamente infondato, in quanto sia l’ordinanza genetica che la stessa ordinanza impugnata avevano evidenziato che con la seconda richiesta cautelare il P.M. aveva operato un "riposizionamento" del C. in una differente associazione camorristica, con conseguente diversità dei fatti per i quali era stato invocato il provvedimento coercitivo. Sul punto è lo stesso ricorrente a riconoscere che nella nuova richiesta cautelare era stato modificato il provvisorio capo di imputazione con la collocazione del C. nel clan De Falco-Di Fiore, anzichè nel clan De Sena.

Trattandosi di "fatto diverso", nel caso in esame non opera, pertanto, la invocata preclusione alla reiterazione della istanza cautelare, che ricorre invece nell’ipotesi in cui il pubblico ministero non abbia impugnato un’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione di una misura cautelare personale in ordine allo "stesso fatto". 2. Quanto al secondo ed al terzo motivo, giova premettere che il controllo di legittimità sulle ordinanze cautelari emesse in sede di riesame è diretto ad accertare che alla base della pronuncia esista un concreto apprezzamento delle risultanze processuali e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da errori logico-giuridici, mentre restano escluse da tale controllo le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza dei fatti indizianti, la valutazione comparativa della loro attendibilità, la scelta di quelli determinanti.

Spetta pertanto alla Corte suprema il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravita del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, nella peculiare prospettiva dei procedimenti incidentali de libertate (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828).

Fatta questa necessaria premessa, appare manifestamente infondata la doglianza con cui ci si deduce il vizio di motivazione apparente, per aver il giudice del riesame omesso qualsiasi valutazione sulla sussistenza dei gravi indizi. La motivazione apparente è infatti ravvisabile soltanto quando il discorso giustificativo sia del tutto avulso dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Sez. 6, n. 6839 del 01/03/1999, Menditto, Rv. 214308). Deve inoltre ritenersi mancante la motivazione che, a fronte di specifici ed articolati motivi di gravame, ometta di valutare detti motivi, limitandosi o a riprodurre talune delle argomentazioni del primo giudice ovvero a fare generico riferimento "… alla motivazione della ordinanza impugnata".

Diversamente, ben può il giudice del riesame, qualora ritenga decisivi proprio quegli elementi indicati e valutati dal G.i.p. e non oggetto di precise contestazioni, richiamare e ribadire gli stessi come idonei o legittimare la misura imposta.

Contrariamente alle doglianze contenute nel ricorso, nella specie deve ritenersi che il giudice di merito ha adeguatamente e logicamente motivato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato (il ricorrente non lamenta l’omessa considerazione di argomentazioni difensive dirette ed inficiare la valenza dei dati già valutati), deducendoli segnatamente: a) dalla missiva che il capo clan D.F.M., all’indomani degli arresti determinati dall’ordinanza cautelare per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. (febbraio 2008), aveva cercato di far recapitare dal carcere ad " E. (OMISSIS)", con la quale quest’ultimo veniva investito della reggenza del clan, così da assicurare al gruppo i profitti spettanti dall’attività di racket;

b) dalle indagini di P.G. (annotazione del 7 agosto 2008), che avevano portato all’emissione di precedenti provvedimenti cautelari nei suoi confronti, dalle quali era emerso lo svolgimento da parte del C. di attività estorsive di concerto con l’emergente D. F.P. (in particolare, la convivente dell’indagato aveva consegnato agli inquirenti un lungo elenco di esercizi estorti, la cui attendibilità era stata confermata dal servizio di osservazione espletato dalle forze dell’ordine); e) dalle propalazioni di S.V., che aveva dichiarato che a metà 2008 il C., detto " E. (OMISSIS)", operava per conto e nell’interesse del gruppo De Falco-Di Fiore, al quale inviava una parte dei proventi estorsivi.

A fronte di tale motivazione, che evidenzia congruamente e logicamente che l’effettiva investitura del C. quale reggente del D.F. aveva trovato preciso riscontro nello svolgimento da parte di costui di un’attività estorsiva riconducibile al clan De Falco-Di Fiore, inammissibili appaiono le censure riguardanti la portata dimostrativa della suddetta missiva, restando preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto.

Manifestamente infondate sono le doglianze relative alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni accusatorie dello S., posto che, come evidenziato dai giudici di merito, esse vengono a saldarsi perfettamente con l’oggetto della missiva sopra citata e con quanto emerso dalle indagini di p.g..

Quanto al rilievo che il C., contrariamente a quanto riportato nell’ordinanza impugnata, non risulterebbe indagato per i fatti di estorsione, la censura appare del tutto generica, in quanto, come rilevato dalle Sezioni unite, per i fatti processuali, ciascuna parte ha l’onere di provare quelli che adduce, quando essi non risultino documentati nel fascicolo degli atti di cui il giudice dispone (Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, Esposito, in motivazione). Nel caso di specie va dato atto che il ricorrente non ha adempiuto agli oneri impostigli con la prospettazione difensiva contenuta nel ricorso, essendosi limitato ad asserire che il C. non risulterebbe indagato per nessuna estorsione.

3. All’inammissibilità del ricorso, per le ragioni esposte, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000. La cancelleria provvederà agli adempimenti previsti dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 alla cassa delle ammende.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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