Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-02-2012, n. 2737 Cosa gravata da garanzie reali o altri vincoli Vendita di immobili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 7-4-1997 S.M., promissario acquirente di un’area edificabile in località (OMISSIS), promessagli in vendita da C.L. con scrittura privata del 29-1-1997, a corpo e per il prezzo di L. 265.000.000, con versamento contestuale di una caparra confirmatoria di L. 50.000.000, conveniva in giudizio il predetto C. L., chiedendo la risoluzione del contratto, la restituzione del doppio della caparra e il risarcimento dei danni, essendo risultato che l’area promessa in vendita era sottoposta a vincolo paesaggistico che la rendeva inidonea allo scopo prefissato dall’attore, il quale aveva intenzione di trasferire ivi il proprio opificio industriale.

Nel costituirsi, il convenuto contestava la fondatezza della domanda, pur dicendosi disposto a sciogliere il contratto preliminare restituendo la caparra.

Con sentenza n. 180 del 2006 il giudice adito rigettava la domanda.

Avverso la predetta decisione proponeva appello il S..

Con sentenza depositata il 27-7-2009 la Corte di Appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto, rigettava il gravame. In motivazione, la Corte territoriale osservava che l’espressione usata nel preliminare, secondo cui "il prezzo della vendita promessa, che avviene a corpo e non a misura, nonostante qualsiasi indicazione di superficie, è stato convenuto…" rendeva incontrovertibile che il prezzo non aveva avuto alcuna stretta relazione con l’estensione dell’immobile, pur essendo stata tale estensione indicata nel contratto ai fini di una migliore identificazione del bene; e che, pertanto, l’acquirente avrebbe potuto eventualmente avvalersi del rimedio previsto dall’art. 1538 c.c., comma 2, ove ne ricorressero le condizioni, ma non dell’azione generale di risoluzione per inadempimento. Sotto altro profilo, il giudice del gravame, nel dare atto che da tutte le certificazioni sindacali risultava inequivocabilmente che le particelle oggetto del preliminare erano sottoposte a vincolo paesaggistico, rilevava che i vincoli imposti e recepiti dal piano regolatore generale non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo la previsione dell’art. 1389 c.c., e non sono conseguentemente invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non li abbia dichiarati nel contratto.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il S., sulla base di tre motivi.

Il C. ha notificato alla controparte controricorso contenente ricorso incidentale condizionato, ai quale ha resistito con controricorso il S..

Motivi della decisione

1) Preliminarmente, va rilevato che il ricorso principale risulta tempestivo, essendo stato notificato il 16-11-2009, e cioè il sessantesimo giorno successivo alla notifica della sentenza impugnata, effettuata al procuratore del S. il 10-8-2009.

Poichè, infatti, la notifica della sentenza di appello è avvenuta nel periodo di sospensione feriale dei termini, il termine breve di sessanta giorni per l’impugnazione, prescritto dagli artt. 325-326 c.p.c., ha cominciato a decorrere il 16-9-2009 e veniva, quindi, a scadere il 15-11-2009; ma, poichè tale giorno cadeva di domenica, la scadenza, ai sensi dell’art. 155 c.p.c., u.c., è stata prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo (il 16-11-2009).

2) Al contrario, si palesa fondata l’eccezione di inammissibilità del controricorso, contenente ricorso incidentale, sollevata dal ricorrente principale nel controricorso depositato ai sensi dell’art. 371 c.p.c., comma 4.

La notifica del controricorso del C., infatti, è stata effettuata il 5-1-2010 e, quindi, oltre il termine di quaranta giorni dalla notifica del ricorso principale (eseguita, come si è rilevato, il 16-11-2009), stabilito dall’art. 370 c.p.c., comma 1. 3) Passando all’esame dei motivi del ricorso principale, si osserva che con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1489, 1497, 1538, 1362 c.c., art. 12 disp. gen., nonchè il difetto e la contraddittorietà della motivazione.

In primo luogo, sostiene che la Corte di Appello, in violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale dettati dall’art. 1362 c.c., non ha valutato il contenuto complessivo della scrittura privata del 29-1-1997 e non ha ricercato la reale volontà delle parti, le quali avevano stipulato il preliminare in vista della possibilità di realizzare sul terreno un capannone industriale.

Deduce che, anche se il prezzo era stato stabilito a corpo, la minore estensione del fondo, unitamente all’esistenza – nonostante la specìfica garanzia, da parte del promittente venditore, della libertà del suolo da vincoli ed oneri – del vincolo paesaggistico, comportando la riduzione della capacità volumetrica necessaria per la realizzazione di tale capannone, incideva sulla specifica destinazione del bene e su una qualità ritenuta essenziale dal promittente acquirente.

In secondo luogo, deduce che la Corte di Appello ha errato nel ritenere che i vincoli esistenti non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo la previsione dell’art. 1489 c.c.. Sostiene che il riferimento al principio di apparenza non può essere invocato allorchè, come nel caso in esame, il venditore abbia garantito espressamente l’inesistenza di oneri, vincoli o diritti di terzi sul bene.

4) Il motivo, nella prima parte, è inammissibile.

Questa Corte ha ripetutamente avuto modo di affermare che, in tema di interpretazione dei contratti, l’accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, che è incensurabile in sede di legittimità se non quando la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto o per violazione delle regole ermeneutiche stabilite dall’art. 1362 c.c., e segg.; e che il ricorrente per cassazione che censuri l’erronea interpretazione di clausole contrattuali da parte del giudice del merito, per il principio di autosufficienza del ricorso, ha l’onere di trascriverle integralmente, in quanto al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura (tra le tante v. Cass. 6-2-2007 n. 2560; Cass. 13-2-2006 n. 3075; Cass. 18-11-2005 n. 24461).

Nella specie il ricorrente, pur addebitando al giudice di appello di non aver valutato adeguatamente il contenuto complessivo della scrittura privata del 29-1-1997 e di non aver ricercato la reale volontà delle parti, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione non ha trascritto il testo integrale del contratto preliminare, di cui ha riportato solo pochi e frammentari passaggi. Questa Corte, pertanto, non è posta nelle condizioni di valutare se sussista o meno la dedotta violazione delle norme di ermeneutica indicate nel ricorso.

5) La seconda censura è infondata.

La Corte di Appello, nel dare atto, con apprezzamento in fatto non sindacabile in questa sede, che da tutte le certificazioni sindacali in atti risulta che il terreno promesso in vendita ricade in zona L ed è sottoposto a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 1497U939 nel piano regolatore generale approvato, ha correttamente escluso che tale vincolo possa essere qualificato come onere non apparente, ai sensi dell’art. 1489 c.c., e possa conseguentemente essere invocato dal ricorrente come fonte di responsabilità del promittente venditore, per averne quest’ultimo taciuto l’esistenza.

L’impugnata sentenza, nel ritenere i vincoli prescritti da piano regolatore generale non riconducibili agli oneri non apparenti di cui all’art. 1489 c.c., si è uniformata al principio costantemente affermato da questa Corte, secondo cui le prescrizioni del piano regolatore generale, una volta approvate e pubblicate nelle forme previste, hanno valore di prescrizione di ordine generale di contenuto normativo, e come tali sono assistite da una presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari; sicchè i vincoli da essi imposti non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile ai sensi dell’art. 1489 c.c., e non sono, conseguentemente, invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto (Cass. 2-3-2007 n. 4971; Cass. 16-9-2004 n. 18653; Cass. 19-1-2001 n. 793; Cass. 5-2-1993 n. 1469).

Non giova alla tesi del ricorrente il precedente giurisprudenziale invocato nel ricorso (Cass. 23-5-1980 n. 3400), con il quale si è affermato che il compratore è esentato da qualsiasi onere di diligenza e di indagine qualora l’inesistenza di pesi o di diritti altrui sia stata positivamente dichiarata dal venditore nel contratto. Con tale pronuncia, infatti, è stata ritenuta la non apparenza del vincolo di inamovibilità inerente ad una servitù di elettrodotto, non richiamato nè dichiarato nell’atto di alienazione;

laddove, nel caso in esame, si è in presenza di un vincolo che, in quanto imposto dal piano regolatore generale, è assistito da una presunzione legale di conoscenza.

La presunzione assoluta di conoscenza dei vincoli gravanti su un immobile, infatti, ha efficacia erga omnes quando sia stato imposto dalla legge o da atti aventi forza di legge, quale il piano regolatore nel quale il vincolo sia stato inserito; mentre, qualora il vincolo risulti imposto in forza di uno specifico provvedimento amministrativo, stante il carattere particolare, e non generale e normativo, dell’atto impositivo, può presumersene la conoscenza solo da parte del proprietario del bene, che, quale soggetto interessato, può venirne a conoscenza con l’ordinaria diligenza, ma non anche da parte del compratore, il quale quindi può far valere nei confronti del venditore l’obbligo di garanzia derivante dall’art. 1489 c.c. (Cass. 4-10-2004 n. 19812).

Nella specie, pertanto, la clausola (di stile) inserita nel contratto preliminare, con la quale il promittente venditore garantiva la libertà del suolo in questione da "iscrizioni, trascrizioni pregiudizievoli, vincoli ed oneri in genere", si riferiva, a tutta evidenza, agli oneri e vincoli non apparenti, rilevabili dal compratore solo attraverso particolari indagini; ma non poteva riferirsi ai vincoli imposti da atti aventi forza di legge, assistiti da una presunzione legale di conoscenza da parte di tutti i cittadini.

6) Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia e la mancanza di motivazione in ordine al motivo di appello con cui si censurava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto nuove e, quindi, inammissibili, le richieste formulate all’udienza di precisazione delle conclusioni del 4-10-2000, di declaratoria di legittimità del recesso operato dall’attore e di restituzione del doppio della caparra versata, nonchè la richiesta, avanzata in via gradata, di declaratoria di risoluzione del contratto preliminare per sopravvenuta carenza d’interesse delle parti, con condanna del C. alla restituzione della somma di L. 50.000.000.

Il motivo difetta del requisito di autosufficienza, non riportando gli esatti termini delle censure mosse con l’atto di appello avverso la decisione di primo grado. Si richiama, al riguardo, il principio affermato dalla giurisprudenza, secondo cui, affinchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, è necessario, da un lato, che al giudice di merito fossero state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande o eccezioni siano state riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, per il principio dell’autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. per tutte Cass. Sez. Un. 28-7-2005 15781). Ciò perchè, pur configurando la violazione dell’art. 112, c.p.c., un error in procedendo, per il quale la Corte di Cassazione è giudice anche del "fatto processuale", non essendo tale vizio rilevabile d’ufficio, il diretto esame degli atti processuali è sempre condizionato ad un apprezzamento preliminare della decisività della questione (tra le tante v. Cass. 16-4-2003 n. 6055; Cass. 18-7-2002 n. 10410; Cass. 11/1/2002, n. 317; Cass. 10-5-2001, n. 6502).

In ogni caso, si osserva che, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, in tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative (Cass. Sez. Un. 14-1-2009 n. 553).

Pertanto, avendo la Corte di Appello dato atto che con la citazione introduttiva l’attore aveva chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento del convenuto, la restituzione della caparra e il risarcimento danni, costituiva domanda nuova, come tale non proponibile all’udienza di precisazione delle conclusioni, la richiesta volta alla declaratoria di legittimità del recesso.

Il motivo in esame, di conseguenza, si palesa inammissibile anche per carenza d’interesse, vertendo su questioni non rilevanti ai fini della decisione.

7) Le considerazioni da ultimo svolte valgono anche con riferimento al terzo motivo, con il quale il ricorrente si duole dell’omessa pronuncia e della mancanza di motivazione in ordine al motivo di appello con cui si denunciava l’eccessività delle spese liquidate con la sentenza di primo grado, che superavano i massimi tariffari previsti per le controversie di valore sino ad Euro 51.700,00, avendo la causa il valore di Euro 51.645,69 (pari a L. 100.000.000).

Anche in tal caso, la censura mossa ha ad oggetto una questione che, così come prospettata, risulta irrilevante ai fini della decisione.

La denunciata violazione dei massimi tariffari, infatti, è basata sull’erronea affermazione secondo cui il valore della presente controversia, ai fini della individuazione dello scaglione della tariffa professionale applicabile, sarebbe di Euro 51.645,69, corrispondenti alla somma chiesta in restituzione dall’attore;

laddove, avendo quest’ultimo chiesto un’espressa pronuncia di risoluzione per inadempimento del contratto preliminare, il valore di tale domanda, ai sensi dell’art. 12 c.p.c., comma 1, andava determinato tenendo conto non solo dell’importo della somma chiesta in restituzione dal S., ma del valore del contratto (pari a L. 265.000.000). Premesso, infatti, che, ai fini della liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, ai sensi degli artt. 5 e 6 della tariffa professionale di cui al D.M. 5 ottobre 1994, n. 585 (e altrettanto è a dirsi in relazione al D.M. 8 aprile 2004, n. 127, art. 6), il valore della causa deve essere determinato a norma del codice di procedura civile, si osserva che, in tema di competenza per valore, il principio posto dall’art. 12 c.p.c., comma 1 – secondo il quale il valore delle cause relative all’esistenza, alla validità o alla risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che è in contestazione – subisce deroga nell’ipotesi in cui il giudice, come nel caso di specie, sia chiamato ad esaminare con efficacia di giudicato le questioni relative all’esistenza o alla validità del rapporto, il cui valore va, pertanto, interamente preso in considerazione ai fini della determinazione del valore della causa (Cass. 10-9-1998 n. 8958; Cass. 12-11-2004 n. 21529).

8) Per le esposte ragioni il ricorso principale deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Data l’inammissibilità del controricorso, vanno escluse dal rimborso le spese e gli onorari relativi a tale atto, potendo essere liquidati solo le spese per il rilascio della procura e gli onorari per lo studio della controversia, la consultazione con il cliente e la partecipazione alla discussione orale in udienza, alla quale il difensore della resistente era comunque legittimato dalla procura rilasciata a margine del controricorso (cfr. Cass. 26-11-2001 n. 14944; Cass. 15-4-1982 n. 2272).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.800,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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