Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-02-2012, n. 2736 Distanze legali tra costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 24 novembre 1981, T. M., M.G., M.L., Ma.

L. e Ma.Lu. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Vicenza, B.L. e N.G. affinchè, previo accertamento che questi ultimi avevano costruito, in (OMISSIS), un fabbricato in difformità del progetto approvato con riferimento all’altezza (risultata in mt. 8,60 anzichè in mt. 6,50) ed in violazione della distanza minima prescritta dal fabbricato di essi attori (imposta in mt. 10, mentre quella concretamente osservata era di mt. 5), gli stessi venissero condannati all’arretramento dell’edificio di loro proprietà a distanza di mt. dieci rispetto a quello di loro proprietà, oltre che al risarcimento dei danni per le violazioni alle norme urbanistiche non integrative del codice civile.

Nella costituzione di entrambi i convenuti, la Sezione stralcio del Tribunale adito, con sentenza n. 155 del 2002, dichiarava cessata la materia del contendere nei confronti del convenuto N.G. ed accoglieva la domanda nei riguardi della B.L. (cui erano subentrati gli eredi B.F. e Bo.Li.), ordinando l’arretramento della sua costruzione alla distanza minima di dieci metri dal fabbricato degli attori (stante la natura integrativa del codice civile delle disposizioni del PRG approvato dalla Giunta della Regione Veneto n. 2818 del 4 agosto 1976) e condannando gli eredi della suddetta B. al risarcimento dei conseguenti danni liquidati equitativamente in L. cinque milioni.

A seguito di rituale appello interposto da B.F., la Corte di appello di Venezia, nella resistenza degli appellati ed ordinata l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di Bo.Li. (i quali rimanevano, peraltro, contumaci), con sentenza n. 705 del 2005 (depositata il 2 maggio 2005), accoglieva il gravame e, in riforma dell’impugnata sentenza, respingeva le domande proposte da T.M., M.L., Ma.

L., Ma.Lu. e M.G., i quali venivano condannati, in solido, alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

A sostegno dell’adottata sentenza, la Corte territoriale rilevava che, per effetto della variante al P.R.G. del Comune di Chiampo approvata il 20 marzo 1984 (in forza della quale era stata prevista la possibilità, nel concorso delle condizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, u.c., di una distanza inferiore a quella risultante dalle norme del PRG ove contenuta nelle previsioni del piano attuativo), la costruzione dell’appellante si sarebbe dovuta considerare legittimata pur se realizzata a distanza inferiore a quella consentita in forza del previgente strumento urbanistico.

Peraltro, la Corte veneta osservava che la previsione del citato D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, u.c. (richiamato anche nella variante al PRG) in merito alla possibilità per il piano di recupero di derogare alle distanze tra fabbricati previste nei commi precedenti ove si fosse trattato (come nella fattispecie) di "gruppi di edifici formanti oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche" escludeva che lo strumento urbanistico adottato dal Comune di Chiampo dovesse essere ritenuto illegittimo, per violazione delle distanze di cui ai commi precedenti dell’art. 9 del citato D.M. ed escludeva, altresì, la conseguente disapplicazione del medesimo e la sussistenza delle condizioni per procedere alla diretta applicazione di detta disposizione normativa.

Avverso la suddetta sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione T.M., M.L., Ma.

L., Ma.Lu. e M.G., articolato in due motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato B.F..

Motivi della decisione

1. Si deve, innanzitutto, dare atto che il difensore dei ricorrenti ha tempestivamente depositato l’istanza – prevista dalla L. n. 183 del 2011, art. 26 – recante le sottoscrizioni di tutti i ricorrenti e dal medesimo autenticate, con la quale è stata manifestata la volontà della persistenza dell’interesse alla trattazione del ricorso.

2. Con il primo motivo i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione di norma di diritto (con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3), avuto riguardo all’erronea applicazione, da parte della Corte territoriale, della disciplina attinente ai Piani di recupero, travisandone la natura e le caratteristiche e considerandola idonea a consentire qualsivoglia tipo di sanatoria. In particolare, gli stessi ricorrenti deducono l’erroneità della sentenza della Corte di appello di Venezia, nella parte in cui, pur riconoscendo che l’immobile del B. distava dal loro fabbricato solo sei metri e dando per pacifica la circostanza che lo stesso edificio, al momento della sua realizzazione, fosse del tutto illegittimo, aveva affermato che lo stesso sarebbe divenuto in seguito legittimo, in quanto conforme alla normativa urbanistica sopravvenuta (coincidente con l’approvazione del piano di recupero del Comune di Chiampo divenuto esecutivo il 19 maggio 1985) rispetto al momento di costruzione del manufatto. Con la stessa doglianza i ricorrenti assumono, altresì, l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva escluso il riconoscimento del risarcimento del danno (concesso con la sentenza di primo grado), non tenendo conto che, in ogni caso, l’illegittimità della costruzione degli eredi B. si era protratta per otto anni prima della sua ritenuta legittimazione sopravvenuta.

2.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

Con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato, oltre che supportato dagli specifici rilievi compiuti e dalle conferenti conclusioni raggiunte con la c.t.u., la Corte di appello di Venezia ha verificato che, ancorchè l’immobile degli eredi B. violasse, al momento dell’introduzione del giudizio di primo grado (nel 1981), la distanza minima tra fabbricati di 10 mt. prescritta dalla normativa regolamentare all’epoca vigente, nel corso dello svolgimento della causa (nel 1984), il Comune di Chiampo aveva approvato una variante generale del P.R.G., dalle cui previsioni era derivato che l’immobile dei B. veniva a ricadere in zona centro storico – residenziale di degrado, il cui art. 19 delle norme tecniche di attuazione prevedeva, per detta zona, tra l’altro, che le distanze fra edifici non potevano essere inferiori a quelle intercorrenti fra i volumi edificati preesistenti, "salvo che il piano attuativo contenesse diverse previsioni planovolumetriche come previsto dal D.M. 2 aprile 1968, art. 9. Risulta, altresì, idoneamente accertato dalla Corte territoriale che il piano attuativo esecutivo delle previsioni del P.R.G., divenuto esecutivo nel 1985, aveva definito con previsioni planovolumetriche i distacchi tra fabbricati, stabilendo che essi erano corrispondenti a quelli risultanti dalle tavole di progetto; pertanto, per come emerso dalla relazione di c.t.u., sul presupposto che sia la variante al P.R.G. che il piano di recupero avevano considerato il fabbricato in questione come esistente (siccome già costruito), era stato riscontrato che le tavole di progetto dello stesso piano di recupero riportavano, quanto al distacco dell’edificio dell’appellante da quello degli appellati (odierni ricorrenti), la medesima distanza alla quale l’edificio era stato costruito, con ciò rimanendo esclusa la sussistenza di qualsiasi violazione in tema di distanze.

Sulla scorta di questi conferenti accertamenti di fatto (fondati su specifici riscontri tecnici rispettosi della normativa urbanistica concretamente applicabile, in conseguenza dei sopravvenuti piani attuativi legittimamente adottati e, quindi, vigenti), la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, ha ritenuto correttamente che la sopraggiunta modifica regolamentare aveva legittimato la costruzione degli eredi B. ancorchè realizzata a distanza inferiore rispetto a quella consentita da previgente strumento urbanistico, giustamente argomentando che il richiamo operato dalla variante al P.R.G. del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, u.c., espressamente applicato dal piano attuativo, escludesse l’illegittimità di quest’ultimo e la conseguente sua disapplicazione. Argomentando in tal senso e pervenendo alla riportata conclusione la Corte territoriale non è incorsa nel travisamento della natura e delle caratteristiche dei piani di recupero, ma ha ritenuto che, in concreto, potesse applicarsi – così come fatto salvo dall’approvata variante al P.R.G. e recepito dal piano attuativo – l’ultimo comma, ultima parte, del citato D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, che espressamente consente ai Comuni per "gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche" di derogare alle distanze previste nei precedenti commi, ovvero a quella di 10 mt. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Dei resto anche la più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr., in particolare, Cass. n. 56 del 2010) ha sostenuto la legittimità dell’adozione, nei Comuni dotati di P.R.G. (o, l’eventualmente, del solo regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione), di strumenti attuativi di quest’ultimo maggiormente dettagliati, volti a disciplinare l’attività urbanistico-edilizia in particolari zone del territorio comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici, organici e funzionali, adeguati alla specificità di singoli settori urbani, con la conseguenza che, in tali casi, siffatti strumenti attuativi possono legittimamente derogare alle prescrizioni generali sulle distanze contenute nel D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9.

Alla stregua di tanto, quindi, la Corte veneta ha ritenuto correttamente legittimata, per sopravvenuta modifica regolamentare concretamente applicabile nel caso di specie, la costruzione degli eredi B. con riferimento all’osservanza delle distanze legali.

A tal proposito, infatti, il giudice di appello si è uniformato alla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, Cass. n. 4828 del 1988 e Cass. n. 4980 del 2007), in base alla quale, in caso di successione nel tempo di norme edilizie, la nuova disciplina, se meno restrittiva, è applicabile anche alle costruzioni realizzate prima della sua entrata in vigore, con l’unico limite dell’eventuale giudicato formatosi nella controversia sulla legittimità della costruzione stessa (circostanza, questa, rimasta esclusa nella fattispecie), onde la illegittimità dell’eventuale ordine di demolizione degli edifici originariamente illeciti alla stregua delle precedenti norme, nei limiti in cui siano consentiti dalla normativa sopravvenuta.

Quanto al profilo della doglianza relativa alla pronuncia di rigetto della domanda risarcitoria, evidenzia il collegio che, al di là della genericità della prospettazione di tale motivo, la Corte territoriale ha correttamente sottolineato che: – se la domanda si fosse dovuta intendere come ricollegata alla violazione di norme integrative del codice civile, essa (oltretutto non specificamente formulata in primo grado: cfr. pag. 15 della sentenza impugnata) era evidentemente infondata in quanto travolta dall’accettata sopravvenuta insussistenza della violazione attinente alle distanze;

– se essa, invece, si fosse dovuta intendere come ricondotta alla violazione di norme non integrative del codice civile (quale è la norma relativa all’altezza dell’edificio), gli appellanti avrebbero dovuto fornire la prova della sussistenza di un concreto pregiudizio, che la Corte territoriale, con un accertamento di merito adeguatamente e logicamente motivato, ha escluso che potesse essere ipotizzabile, avuto riguardo alla circostanza che la doglianza atteneva alla violazione, per difetto, dell’altezza minima del fabbricato fronteggiante sicchè alcun pregiudizio gli appellanti avrebbero potuto lamentare in virtù della realizzazione, di fronte al loro fabbricato, di un edificio più basso di quello previsto dallo strumento urbanistico.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno denunciato il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), in relazione all’illegittimità della loro condanna alle spese di entrambi di giudizio, senza considerare che l’azione iniziale era stata introdotta il 24 novembre 1981 mentre il Piano di recupero, in base al quale erano state considerati sanati gli abusi compiuti dalla dante causa degli eredi B., era stato approvato il 19 maggio 1985. 3.1. Anche questo motivo è infondato e deve, perciò, essere respinto.

La Corte territoriale, provvedendo alla condanna alle spese degli appellati (attuali ricorrenti) per entrambi i gradi di giudizio (considerandosi, peraltro, che la "legittimazione urbanistica sopravvenuta" si era venuta già a verificare nel corso del giudizio di primo grado), si è conformata alla condivisa giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 406 del 2008; Cass. n. 17145 del 2009 e, da ultimo, Cass. n. 25270 del 2009), alla stregua della quale, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e il suddetto criterio non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole. Si è ulteriormente precisato, al riguardo, che, con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di Cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi. Del resto, le Sezioni unite di questa Corte (con la sentenza n. 14989 del 2005; in senso conforme v., successivamente, Cass. n. 7607 del 2006) hanno statuito che, in materia di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti (avuto riguardo al testo dell’art. 92 c.p.c. "ratione temporis" applicabile nella specie, ovvero nella formulazione anteriore alla modifica apportata con la L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 11) rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (come dedotto nella fattispecie).

4. In definitiva, alla stregua delle esposte ragioni, il ricorso deve essere integralmente rigettato. Sussistono, tuttavia, in relazione al particolare sviluppo del processo e alla controvertibilità delle questioni trattate, le condizioni per disporre l’integrale compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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