Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 20-04-2011) 30-09-2011, n. 35636 Nuove prove

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. R.E.H.S., cittadino cingalese, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza dell’11 gennaio 2010, con la quale la Corte d’appello di Milano ha confermato nei suoi confronti la sentenza del 4 dicembre 2006 del Tribunale di Milano, che l’aveva dichiarato responsabile, in concorso con altri, del reato di cui al capo 1) dell’Imputazione, quale partecipe dell’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di delitti di immigrazione clandestina e di sequestri di persona a scopo di estorsione di cittadini cingalesi, con specifica ripartizione dei ruoli e di competenze e disponibilità di mezzi e risorse umane, e l’aveva condannato alla pena di un anno di reclusione.

2. Il compendio probatorio, rappresentato da intercettazioni telefoniche, testimonianze degli operanti della Polizia di Stato, informative e annotazioni relative a servizi di o.p.c, acquisite con il consenso delle parti, aveva consentito di accertare che:

– la base dell’associazione era a Milano, con collegamenti e diramazioni in varie città Italiane, tra le quali Roma e Verona, e all’estero, Austria, Francia, Grecia e Cipro, dove i clandestini, provenienti dallo Sri Lanka, facevano più spesso scalo;

– l’organizzazione era in grado di garantire a coloro che intendevano entrare in Europa dallo Sri Lanka un’assistenza completa, resa possibile dalle conoscenze, dall’esperienza, dai contatti e dalla disponibilità di appartamenti per l’ospitalità dei clandestini, di documenti e di permessi di soggiorno falsi, ed era in grado di curare i rapporti con parenti e amici dei clandestini immigrati;

– l’attività dell’associazione era stata continua e incessante dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003.

Di detta associazione avevano avuto un ruolo direttivo e preminente K.P.A., detto A., e un ruolo di stabile collaboratore T.H.D.P., detto P., coimputati e giudicati nel medesimo processo.

All’imputato R.E.H.S., detto S., per quanto qui interessa, essendo l’unico ricorrente, è stato contestato e attribuito il ruolo di collaboratore dei detti A. e P. e di stabile referente del sodalizio con i compiti di procacciare documentazione falsificata, controllare i documenti contraffatti, organizzare gli imbarchi, decidere le rotte e le modalità dei viaggi e risolvere i problemi connessi allo svolgimento dell’attività criminosa del sodalizio.

3. Detto Imputato è stato giudicato colpevole all’esito del giudizio che, in primo e in secondo grado, aveva riguardato anche altri coimputati, nei confronti di quattro dei quali, giudicati anche in appello, la sentenza di condanna è divenuta definitiva per non essere stato interposto ricorso per cassazione. La sussistenza dell’organizzazione criminosa volta all’ingresso clandestino di cittadini cingalesi in Italia è stata anche accertata in via definitiva nei confronti di altri partecipi separatamente giudicati.

4. La Corte d’appello, che ha richiamato le censure svolte dal predetto con l’atto d’appello, ha ritenuto che andava disattesa la richiesta difensiva di espungere dal giudizio le telefonate ammesse ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., rilevando, dopo aver richiamato i principi di diritto pertinenti, che il giudice del dibattimento aveva ritenuto nella sua piena sindacabilità che era necessario, sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, integrare le trascrizioni delle telefonate con i progressivi indicati dal Pubblico Ministero e inerenti le intercettazioni telefoniche disposte nel procedimento, contenute in bobine già facenti parte del compendio probatorio presentato dal Pubblico Ministero, e che era stato dato un termine ai difensori per controdedurre eventuali prove contrarie.

La consuetudine nei rapporti con A. e P., la piena conoscenza da parte dell’imputato del tipo di attività illecita posta in essere dai predetti cui lo stesso aveva collaborato attivamente e a pagamento, la circostanza che egli era sempre stato a disposizione, l’ampio arco temporale di detta collaborazione (novembre 2002/marzo 2003), emergenti dalle conversazioni intercettate e richiamate in sentenza, costituivano prova certa della consapevole partecipazione dell’imputato all’associazione criminosa, mentre erano assolutamente prive di logicità e non credibili le spiegazioni addotte dal predetto in ordine al contenuto delle conversazioni che lo stesso aveva ammesso essere a lui riferibili.

Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte riteneva che la pena di un anno di reclusione allo stesso inflitta era congrua, essendo la pena base molto prossima al minimo edittale ed essendo state riconosciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla circostanza aggravante contestata.

5. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione personale l’imputato, chiedendone l’annullamento e sviluppando tre motivi.

5.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia illogicità e mancanza della motivazione, nella parte relativa alla mancata giustificazione dell’applicazione dell’art. 507 cod. proc. pen., e inosservanza della legge processuale penale.

Secondo il ricorrente, la decisione impugnata è caduta nello stesso errore di quella di primo grado ritenendo che l’art. 507 cod. proc. pen., consentendo l’assunzione d’ufficio di qualunque prova, può colmare la lacuna probatoria determinata dal Pubblico Ministero e introdurre nel processo alcune telefonate, delle quali non era stata richiesta la trascrizione.

Nè si è data adeguata motivazione all’assoluta necessità di far ricorso a tale strumento, rispetto al quale il Pubblico Ministero aveva rinunciato all’utilizzo processuale, e illogicamente procedendosi a excursus generico sulla astratta funzione giuridica della norma, piuttosto che all’analisi dei suoi limiti di applicazione, con conseguente concreta inosservanza della legge processuale penale.

Nè, secondo il ricorrente, la questione prospettata era risolvibile come ritenuto dalla Corte facendo riferimento alle bobine, già parte del compendio probatorio presentato dal Pubblico Ministero.

5.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia illogicità della motivazione, nella parte relativa alla prova della sua colpevolezza, già denunciata con i motivi d’appello, senza che l’assenza di prova sia stata superata dal giudice d’appello, che ha interpretato le telefonate ascritte all’imputato come prova di partecipazione a presunta compagine criminale, senza il conforto di elementi probativi in tal senso.

Secondo il ricorrente, le conversazioni telefoniche in cui egli è interlocutore lo rappresentano come persona interessata ad avere certe informazioni mentre quelle in cui altri soggetti parlano di S., detta persona non si identifica con lui, per cui non possono avere valenza probatoria della stabilità dell’organizzazione le prime e del suo ruolo nell’organizzazione le seconde.

5.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia illogicità della motivazione nella parte relativa alla sua mancata identificazione in numerose telefonate attribuite alla sua paternità, atteso che il giudice d’appello ha omesso di affrontare la prospettata questione, rilevando che era suo onere indicare quali specifiche telefonate non gli sarebbero attribuibili e che esso stesso con le sue dichiarazioni In sede di esame ne avrebbe confermato la paternità.

Secondo il ricorrente, viceversa, dalle telefonate ascrittegli in numero limitato è possibile facilmente estrapolare quelle nelle quali egli non è compiutamente identificato, senza che possa porsi a suo carico un onere di controdeduzione, non previsto o codificato, mentre le giustificazioni rese in sede di esame non integrano ammissione della paternità delle conversazioni telefoniche.

5.4. Il ricorrente, nel concludere con il ricorso per l’annullamento della sentenza, chiede anche verificarsi se alla data dell’udienza il reato non sia estinto per intervenuta prescrizione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è manifestamente infondato.

2. Con riferimento al primo motivo di doglianza, si osserva che, secondo l’orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 41281 del 17/10/2006, dep. 18/12/2006, P.M. in proc. Greco, Rv.

234907), anche dopo la riforma dell’art. 111 Cost., permane integro il potere del giudice del dibattimento di disporre d’ufficio, ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., l’acquisizione di nuovi mezzi di prova pure nel caso di inerzia delle parti, sempre che l’iniziativa probatoria sia assolutamente necessaria, cioè miri all’assunzione di una prova decisiva nell’ambito della prospettazione delle parti.

La modifica dell’art. 111 Cost. ha accolto il principio fondante del processo accusatorio, ossia la formazione della prova nel contraddicono delle parti, ma nulla ha innovato sul principio dispositivo che, pur essendo uno dei principi cui si ispirano i sistemi accusatori, non li caratterizza in modo così decisivo come i criteri che riguardano la formazione della prova. La ratio sottesa all’art. 507 cod. proc. pen. è, infatti, quella di consentire al giudice, che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità e insufficienza del materiale probatorio di cui dispone, di ammettere prove che gli consentano un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire.

Il riconoscimento di un potere officioso d’iniziativa probatoria non mina nè la terzietà del giudice, proprio perchè il processo è regolato dal principio dispositivo ed è stata cancellata la figura di un giudice istruttore che va in cerca delle fonti di prova necessarie per formulare l’ipotesi di accusa, nè il principio della parità delle armi, dal momento che quel potere può essere esercitato anche per colmare le lacune probatorie della prospettazione difensiva, per evitare che si pervenga a condanne ingiuste. Del resto una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione del pubblico ministero.

Tali principi sono del tutto conformi all’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 11227 dei 06/11/1992, dep. 21/11/1992, Martin, Rv. 191606 e 191607), condiviso anche dalla Corte costituzionale con sentenza n. 111 del 993, che aveva rilevato, a conferma della correttezza dell’orientamento di ritenere il potere del giudice esercitabile anche in caso di inerzia delle parti, che nel giudizio di appello al giudice è consentito ( art. 603 c.p.p., comma 3) di disporre d’ufficio la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in tutti i casi previsti dai commi precedenti e, quindi, anche nel caso di prove che, benchè conosciute, non erano state assunte.

2.1. In tale ottica, le condizioni necessarie per l’esercizio dell’indicato potere sono l’assoluta necessità dell’iniziativa del giudice (sia l’art. 507 che l’art. 603 usano la stessa espressione "assolutamente necessario"), da correlare a una prova avente carattere di decisività, e il suo esercizio nell’ambito delle prospettazioni delle parti, che mantengono integro, ai sensi dell’art. 495 c.p.p., comma 2. Il potere di richiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, la cui assunzione si sia resa necessaria a seguito dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio.

2.2. Alla luce di questi principi, non sussiste, nel caso in esame, alcuna violazione dell’art. 507 cod. proc. pen., avendo il giudice di merito fatto corretta applicazione della disposizione in esame in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, laddove il Tribunale ha ritenuto che "sulla base delle risultanze sin qui acquisite appare necessario integrare le trascrizioni delle telefonate con i progressivi indicati dal P.M. e inerenti le intercettazioni telefoniche disposte in questo procedimento", e tale argomentazione è stata condivisa dalla Corte proprio in base ai predetti principi, correttamente interpretati ed esattamente applicati, non disgiunti dal rilievo, coerente con gli arresti giurisprudenziali pure richiamati, che le conversazioni stesse, contenute nelle bobine, già facevano parte del compendio probatorio, presentato dal Pubblico Ministero, e che l’utilizzazione nel dibattimento delle intercettazioni telefoniche prescinde dalla trascrizione dei loro contenuti.

2.3. Le deduzioni del ricorrente, che esprimono dissenso opponendo una lettura della norma astratta dalla interpretazione fattane da questa Corte e dalla coerente applicazione fattane in concreto in sede di merito, sono manifestamente infondate.

3. Del tutto infondato è anche il secondo motivo che attiene alla congruenza logica del discorso giustificativo della decisione in base al quale è stata affermata la responsabilità dell’imputato per il delitto ascritto.

3.1. E da rilevare preliminarmente che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione deve essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verifica re l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, e di procedere alla "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944, e, tra le successive conformi, da ultimo Sez. 6, n. 29263 del 08/07/2010, dep. 26/07/2010, Capanna e altro, Rv. 248192).

Non integra, infatti, manifesta illogicità della motivazione come vizio denunciabile in questa sede, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali, nè la diversa ricostruzione degli atti ritenuta più logica, nè la minima incongruenza, nè la mancata confutazione di un’argomentazione difensiva.

L’illogicità della motivazione deve, invece, consistere in carenze logico-giuridiche, risultanti dal testo del provvedimento impugnato ed essere evidenti e cioè di spessore tale da essere percepibili ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, dep. 22/10/1996, Di Francesco, Rv. 205621; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, dep. 23/06/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003 dep. 10/12/2003, Petrella, Rv. 226074).

3.2. Nel caso in esame, la sentenza impugnata, con motivazione esente da evidenti incongruenze e da interne contraddizioni, ha diffusamente analizzato le risultanze processuali (indicate nella parte "in fatto" della sentenza), illustrando e coerentemente giustificando la ricostruzione e la logica correlazione delle emergenze delle conversazioni intercettate, che ha specificatamente richiamato riportando parti del loro contenuto ed evidenziando i riferimenti espressi all’imputato, detto S., e rappresentando le ragioni dimostrative della responsabilità del medesimo in ordine al delitto associativo ascrittogli, anche alla luce delle deduzioni difensive fatte oggetto del motivi d’appello, cui ha fornito ampia ed esauriente risposta.

In questo contesto non possono, quindi, trovare accoglimento le r/ prospettazioni difensive volte a impegnare questa Corte in una diversa lettura degli elementi di conoscenza apportati ai Giudici di merito dalle conversazioni intercettate e in una loro differente analisi valutativa, che, inerendo al merito del giudizio ricostruttivo del fatto, è estranea al tema di indagine legittimamente proponibile come oggetto di censura di legittimità. 4. Per le stesse ragioni è manifestamente infondato il terzo motivo.

La Corte d’appello, all’esito della compiuta analisi delle emergenze probatorie acquisite, rappresentate dalle conversazioni intercettate, ritenute tali da dar conto del mantenimento da parte del ricorrente di stabili rapporti con A. e P. e della collaborazione attiva dello stesso nella introduzione di cittadini cingalesi in Italia, ha rilevato l’assoluta genericità delle doglianze difensive circa la non certa attribuibilità al ricorrente di molte telefonate ascrittegli, per l’omessa specificazione delle conversazioni non attribuibili e delle ragioni della dedotta non attribuibilità e per la non negazione della paternità delle stesse.

Le deduzioni del ricorrente, che individuano in tali coerenti argomentazioni l’introduzione di un onere di controdeduzione non previsto o codificato e oppongono una diversa lettura delle dichiarazioni da esso rese in sede di esame, non sono correlate alle ragioni della decisione e tendono a una inammissibile analisi dei dati fattuali in diversa prospettiva logica.

5. La rilevata inammissibilità del ricorso preclude la verifica della eventuale prescrizione del reato, della quale il ricorrente ha chiesto la declaratoria, ove intervenuta a questa data.

5.1. Secondo i principi affermati da questa Corte, se i motivi di ricorso, presentando profili d’inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze, non abbiano consentito la corretta instaurazione del rapporto processuale d’impugnazione in sede di legittimità, non è possibile, infatti, rilevare e dichiarare la prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, dep. 21/12/2000, De Luca, Rv.

217266; e, tra le successive conformi, Sez. 1, n. 7678 del 08/01/2001, dep. 23/02/2001, Campanino, Rv. 218493; Sez. 6, n. 5758 del 27/11/2002, dep. 06/02/2003, Laforè e altri, Rv. 223301; Sez. 4, n. 18641 del 20/01/2004, dep. 22/04/2004, Tricomi, Rv. 228349; Sez. 1, n. 24688 del 04/06/2008, dep. 18/06/2008, Rayyan, Rv. 240594).

6. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – valutato il contenuto dei motivi di ricorso e in difetto della ipotesi di esclusione di colpa nella proposizione della impugnazione – al versamento, in favore della Cassa delle ammende della somma, che si determina, nella misura congrua ed equa, di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *