Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-02-2012, n. 2725 Licenziamento disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 7.10.2009, la Corte di Appello di Palermo rigettava l’appello avverso la sentenza di primo grado con la quale era stato respinto il ricorso presentato da Z.M., inteso alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli il 22.8.2006 per avere il predetto eseguito, il 18 Aprile 2006, il prelevamento, su un conto corrente di cliente della Banca che non aveva proceduto alla relativa autorizzazione, della somma di Euro 9.000,00 tramite postazione di altro dipendente non presente in quel momento in banca, operazione ratificata dal terminale del direttore della Filiale, anch’egli assente, ed ammessa dallo stesso appellante, che aveva riconosciuto di avere effettuato le registrazioni di cui sopra, dichiarandosi pronto a restituire la somma prelevata, ciò che aveva fatto il 21.4.2006. Rilevava la Corte territoriale che la nullità della testimonianza, resa dal responsabile commerciale dell’istituto, doveva essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2 – salvo il caso, non verificatosi nella specie, in cui il procuratore della parte interessata non sia stato presente all’assunzione del mezzo istruttorio -, e che, pertanto, in mancanza di tempestiva eccezione, la nullità doveva intendersi sanata.

Rilevava la Corte del merito che il ruolo rivestito in ambito aziendale dallo S., teste ritenuto incapace dall’appellante, era stato, peraltro, già indicato nella memoria costitutiva e la relativa eccezione era stata formulata non subito dopo l’assunzione, ma tardivamente, solo nelle note depositate il 24.9.207.

La qualità del teste non era tale poi da denotare, come richiesto da indirizzo giurisprudenziale consolidato, un interesse giuridico e non di mero fatto che comportasse una legittimazione principale dello stesso a proporre l’azione ovvero ad intervenire in giudizio già proposto da altri cointeressati. Inoltre, non poteva ritenersi che lo S. avesse qualche movente per determinarsi ad un’incolpazione calunniosa, nè che avesse una sudditanza psicologica nei confronti del datore di lavoro. Lo Z. aveva anche proceduto a restituire l’importo sottratto e la tesi che la restituzione fosse avvenuta solo per evitare ulteriori conseguenze pregiudizievoli era non solo inverosimile, ma in contrasto con la confessione resa e con le scansioni temporali delle operazioni di registrazione sul conto corrente interessato contestate al predetto.

Non poteva neppure escludersi l’animus confitenti e le ulteriori istanze istruttorie avanzate erano superflue alla luce della confessione resa. La vicenda era, poi, a giudizio della Corte d’appello di Palermo tale da giustificare la massima sanzione disciplinare.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre lo Z. con otto motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resiste la s.p.a. UNICREDIT s.p.a., con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, lo Z. deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 157 c.p.c., dell’art. 246 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, quanto al mancato accoglimento della eccezione relativa alla incapacità a testimoniare del teste S..

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2733, 2735 e 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 5, in relazione all’assoluto difetto di prova della presunta confessione stragiudiziale resa dal ricorrente, assumendo che il datore non ha assolto l’onere probatorio relativo alla confessione resa dallo Z., atteso che lo S., che ha testimoniato in ordine alla circostanza, è soggetto che rappresentava in via esclusiva gli interessi del Banco ed osservando che è mancata una comparazione tra le istanze istruttorie formulate dal ricorrente e quelle (accolte) delle banca resistente.

Con il terzo motivo, denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ad un punto decisivo della controversia relativo alla posizione del teste S., il cui ruolo ispettivo avrebbe dovuto indurre il giudice del merito a rendere ragione esplicitamente del motivo per il quale alla testimonianza veniva attribuita rilevanza decisiva. Assume che l’onere della prova della Banca non sia stato idoneamente assolto, in quanto la confessione stragiudiziale non era stata validamente provata e non era emersa una prova rigorosa della stessa.

Con il quarto motivo, si duole della violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2730 e 2735 c.c., e con il quinto, dell’omessa ed insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ad un punto decisivo della controversia relativo all’animus confitenti. Rileva il ricorrente che non sia stata resa un’adeguata valutazione della sussistenza di tale elemento soggettivo, una volta accertato che era stato raggiunto un precedente accordo con i colleghi di lavoro da parte di esso ricorrente, volto ad evitare che la vicenda avesse una risonanza esterna alla Filiale, senza valutare che, se avesse illecitamente prelevato la somma, esso istante avrebbe provveduto a ripianare l’ammanco in tempi brevi. Da ciò desume che doveva ritenersi che il giudice del merito aveva adottato una tesi predeterminata, senza alcuna considerazione di tutti gli elementi probatori raccolti.

Rileva, ancora, l’omessa valutazione dell’anomalo comportamento del Direttore della Filiale, che aveva utilizzato la somma "restituita" per ripianare l’ammanco, senza informare immediatamente dell’accaduto gli Uffici del Banco competenti ad accertare l’illecito disciplinare, inducendo il cliente a ratificare l’operazione di prelevamento prima disconosciuta attraverso la sottoscrizione di un modulo retrodatato ed osserva che la dichiarazione e la condotta del ricorrente erano risultate strumentali ad una soluzione concordata che rimanesse interna alla Filiale, così dovendo escludersi l’animus confitenti.

Non si era trattato, nella sostanza, di restituzione, ma solo di anticipazione delle somme mancanti, la cui appropriazione, in mancanza di elementi certi, poteva essere imputata a qualunque altro dipendente.

Con il sesto motivo, lo Z. deduce l’omessa ed insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, su un punto decisivo della questione relativo all’assenza del dipendente al momento della registrazione dell’illecito prelevamento, circostanza non accertata a causa della mancata ammissione dei mezzi istruttori formulati al riguardo nel giudizio di merito da esso ricorrente. Osserva che, peraltro, nessuna delle registrazioni oggetto di contestazione era riconducibile al ricorrente, che anche il prelevamento materiale del danaro dal caveau non era soggettivamente riconducibile a lui e che era mancata ogni prova della circostanza che altro dipendente, tale D.M., era stato effettivamente assente nella pausa pranzo, senza considerare che qualsiasi collega avrebbe potuto effettuare l’operazione addebitatagli, essendo i computers degli altri dipendenti accesi e con password inserite. Aggiunge che la testimonianza della dipendente S., non ammessa, avrebbe potuto meglio chiarire i fatti e la sequenza temporale degli stesse e delle operazioni contabili di uscita dal caveau e di entrata a cassetto operatore, indicando circostanze che, se provate, avrebbero, a suo dire, smentito la sequenza temporale come ricostruita e provato l’assenza di esso ricorrente nell’ufficio nel lasso temporale in cui furono effettuate le registrazioni. Analogamente, assume che non sia stato dato ingresso alla prova in ordine a disposizioni aziendali relative alla necessità di inserire valori superiori ad una certa cifra nella cassaforte a scomparsa temporizzata e a combinazione conosciuta solo dall’operatore che la usava, in ordine al mancato possesso delle chiavi del caveau e ad altre circostanze utili a chiarire i fatti di causa.

Con il settimo motivo, lamenta la violazione e la falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7, in relazione alla mancata vantazione della gravità dell’inadempimento e della proporzione della sanzione rispetto alla condotta del dipendente, nonchè in relazione alla genericità e non immediatezza della contestazione disciplinare.

Infine, denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine a fatti decisivi della controversia, concernenti la condotta della banca e del terzo cliente prima della contestazione dell’addebito disciplinare.

Deve rilevarsi l’infondatezza del primo motivo, essendo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui la nullità della testimonianza resa da persona incapace deve essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, ai sensi dell’ari.

157 cod. proc. civ., comma 2 – salva l’ipotesi (non verificatasi nella specie) in cui il procuratore della parte interessata non sia stato presente all’assunzione del mezzo istruttorio, nel qual caso la nullità può essere eccepita nell’udienza successiva – sicchè, in mancanza di tempestiva eccezione, deve intendersi sanata, senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare, proposta a norma dell’art. 246 c.p.c., possa ritenersi comprensiva dell’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione (cfr. in tale senso, Cass. 3 aprile 2007 n. 8358 e, conformi, Cass. 25 settembre 2009 n. 20652, 30 ottobre 2009 n. 23054 e 12 agosto 2011 n. 17272).

Tali considerazioni assorbono il rilievo secondo cui lo S. avrebbe agito su impulso del Direttore della Filiale in adempimento di proprie specifiche funzioni. La posizione di responsabile commerciale di quest’ultimo è stata correttamente valutata dalla Corte del merito come inidonea a determinarne l’incapacità a testimoniare, per l’estraneità del ruolo ricoperto ad una posizione institoria e, comunque, per la tardività di ogni deduzione avanzata al riguardo, per essere i fatti posti a fondamento della stessa conosciuti già prima dell’espletamento della prova.

Infondati sono anche gli ulteriori motivi di ricorso relativi alla confessione stragiudiziale ed alla ritenuta mancanza di valida prova della stessa, posto che le censure articolate attengono o alla impossibilità di conferire valore alla testimonianza dello S., della quale si è innanzi detto, o alla contestazione della preponderanza del valore probatorio attribuito alla confessione stragiudiziale dello Z., contestazione che rifluisce nella inammissibile censura attinente alla generica deduzione di erroneità dell’apprezzamento, da parte del giudice del merito, del materiale probatorio. Sotto tale versante, deve, invero, osservasi che il vizio denunziabile in sede di legittimità ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, è ravvisabile solo qualora nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, non potendo la censura consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., da ultimo, in tali termini, Cass. 18 marzo 2011 n. 6288). E, conformemente ai poteri valutativi attribuiti al giudice del merito, la Corte territoriale ha conferito rilevanza determinante, unitamente ad ulteriori rilievi di ordine logico, alla confessione stragiudiziale resa alla parte, nella persona del direttore della filiale, G.A., alla presenza del responsabile commerciale della Zona, S.F..

Peraltro, deve considerarsi che è stato ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte che anche la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo, avendo, sotto il profilo oggettivo, la stessa struttura della confessione giudiziale e della confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta, poichè la parte dichiarante riconosce la verità di un fatto ad essa sfavorevole e favorevole ad un’altra parte, non ha il valore di un semplice indizio, inteso o nel senso di presunzione o nel senso di elemento indiziario del quale il giudice possa tener conto al fine di completare elementi probatori insufficienti, ma è prova diretta perchè, una volta dimostrata in giudizio, rivela direttamente il fatto posto a fondamento della domanda o della eccezione, e prova diretta che ha un valore particolarmente forte, perchè la verità del fatto da dimostrare è riconosciuta dalla parte alla quale il fatto medesimo e sfavorevole. Sotto tale profilo in relazione al valore di prova diretta, il giudice può fondare esclusivamente su di essa il suo convincimento, ritenendola, nel suo apprezzamento discrezionale, prevalente rispetto alle altre prove offerte od acquisite in causa (cfr. Cass. 10 febbraio 1987 n. 1425, conf. Cass. 11 aprile 2000 n. 4608 e Cass. 4 aprile 2003 n. 5326). A maggior ragione, pertanto, la confessione stragiudiziale fatta alla parte è idonea ad assumere, come ritenuto dalla Corte del merito, valore decisivo nella complessiva valutazione del materiale probatorio acquisito.

Sotto il versante della valutazione poi dell’animus confitendi, ritenuto dal ricorrente, nel quinto motivo, erroneamente considerato sussistente dalla Corte di Palermo, in ragione della emergenza di elementi probatori rivelatori di un intento diverso della stessa, la ricorrenza dell’elemento soggettivo de quo è stato coerentemente dalla Corte desunto anche dal susseguente comportamento del ricorrente, che ha provveduto di fatto alla restituzione della somma della quale si era illegittimamente appropriato, oltre che dalla mancanza di un intento calunnioso da parte del soggetto che ha dichiarato di avere assistito alla confessione stessa e tanto è sufficiente per ritenere che la valutazione compiuta sia stata rispettosa dei criteri logico giuridici e la motivazione conforme ai principi di diritto e priva di salti logici che ne inficino la complessiva concatenazione degli elementi posti a suo fondamento.

Perchè una dichiarazione sia qualificabile come confessione, essa deve constare di un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sè sfavorevole e favorevole all’altra parte, e di un elemento oggettivo, che si ha qualora dalla ammissione del fatto obiettivo che forma oggetto della confessione, escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e al contempo un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione. E’, inoltre, necessario che la confessione abbia per oggetto un fatto storico dubbio, salva restando la possibilità di invalidarla qualora il confitente dimostri sia la inveridicità della dichiarazione, sia che la non rispondenza di questa al vero dipende dall’erronea rappresentazione o percezione del fatto rappresentato (cfr. Cass. 15.novemre 2002 n. 16127, Cass. 29 settembre 2005 n. 19165 e Cass. 19 novembre 2010 n. 23495). Nessuna delle ragioni di una tale invalidazione è stata validamente e tempestivamente dedotta dal ricorrente in giudizio, onde anche sotto il profilo indicato le censure si rivelano infondate.

Il quinto motivo in parte va disatteso sotto il profilo evidenziato e per il resto, analogamente al sesto, sollecita una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, tenuto conto del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’"iter" formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà della motivazione nei termini consentiti in sede di legittimità, indicati dalla pronunzia richiamata. Peraltro, anche il requisito dell’autosufficienza del ricorso non risulta soddisfatto idoneamente con la formulazione di motivi che, anche con riferimento alle prove documentali asseritamente mal valutate non riportano il completo testo dei documenti richiamati e, con riguardo alla prova orale, dei capitoli di prova non ammessi, dei quali, per di più, non si indica il carattere di decisività.

Quanto al principio di proporzionalità, richiamato nella censura espressa nel settimo motivo, deve richiamarsi ulteriore pronunzia di questa Corte, che ha affermato il principio secondo cui spetta al giudice del merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (cfr., in tal senso, Cass. 19 ottobre 2007 n. 21965). Da tale insegnamento discende la correttezza dell’esame della complessiva vicenda fattuale compiuta dal giudice del merito e la incapacità delle denunzie motivazionali dedotte a porne in evidenza vizi che comportino la cassazione della pronunzia impugnata.

Anche la censura riferita alla carenza del requisito di immediatezza della contestazione ed alla mancanza di tempestività del recesso deve ritenersi inammissibile per la rilevata novità della deduzione, ma in ogni caso andrebbe anche disattesa. In tema di licenziamento per giusta causa, l’immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore; peraltro, il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichino o meno il ritardo (cfr. Cass. 1 luglio 2010 n. 15649). Alla luce di siffatto insegnamento, che pone in evidenza il principio del carattere relativo del requisito dell’immediatezza della contestazione e del recesso per motivi disciplinari (cfr. anche Cass. 17 dicembre 2008 n. 29480), deve ritenersi che i fatti riferiti alle registrazioni di operazioni di prelievo non autorizzate e gli accertamenti comunque compiuti circa la utilizzazione di postazioni di altri dipendenti e circa l’assenza degli stessi al momento in cui è fatta risalire ciascuna delle operazioni compiuta in sequenza temporale ravvicinata hanno comportato una indagine di relativa complessità per corroborare la valenza probatoria di per sè decisiva della confessione resa.

Ogni altro rilievo attinente all’entità del danno patrimoniale ed alla mancanza di rilevanza esterna della vicenda deve ritenersi adeguatamente valutato con riferimento all’indubbia rilevanza penalistica della condotta posta in essere in correlazione funzionale con l’attività di dipendente di un istituto di credito, in cui risulta maggiormente valorizzato il requisito della fiducia, da ritenersi lesa anche da mere irregolarità, a tutela dei terzi, del pubblico e dell’interesse pubblicistico alla regolarità dei rapporti bancari.

Infine, non assume rilevanza il contegno del direttore della filiale, il quale aveva cercato con immediatezza di porre rimedio alle conseguenze negative derivanti al cliente dall’appropriazione di somme da parte del dipendente, favorendo la restituzione da parte dello stesso dell’importo prelevato e predisponendo documenti giustificativi dell’operazione con il consenso del cliente stesso, essendo tale comportamento indipendente dall’accertamento del fatto, connotato da indubbia gravità e già confermato dalla confessione dello Z., che aveva reso superfluo procedere con ulteriori segnalazioni agli organi ispettivi dell’istituto.

Le ragioni evidenziate conducono al rigetto del ricorso, con conseguente onere per la parte ricorrente soccombente di pagare le spese del presente giudizio nella misura determinata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna lo Z. al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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