Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-02-2012, n. 2713 Licenziamento disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 17/4 – 4/8/08 la Corte d’appello degli Abruzzi – L’Aquila ha rigettato l’appello proposto da A.M. avverso la sentenza del giudice de lavoro del Tribunale di Pescara, che aveva dichiarato legittimo il licenziamento irrogatogli dalla Banca Intesa s.p.a. per mancata osservanza delle procedure di verifica della moneta metallica nelle ipotesi in cui aveva sostituito il consegnatario principale, situazione che aveva determinato un ammanco di Euro 80.711,83, oltre che per irregolare registrazione delle banconote ricevute dai clienti a fronte della cessione di moneta metallica, ed ha, pertanto, condannato l’appellante alle spese del grado.

A fondamento della propria decisione la Corte territoriale ha svolto le seguenti considerazioni: la prova testimoniale aveva consentito di appurare che il codice disciplinare era stato affisso già prima dei fatti di causa; l’art. 30 del ccnl 11/7/99 contemplava le procedure lavorative che dovevano essere portate a conoscenza dei dipendenti;

dagli atti risultava che il lavoratore aveva ricevuto una copia integrale del Regolamento per la custodia dei valori e per l’esecuzione delle operazioni di cassa; l’art. 24 del Regolamento, disciplinante le procedure da adottare nei casi di sostituzione del personale, doveva essere letto in consonanza con l’art. 31, comma 2, del predetto ccnl in tema di prescrizioni da osservarsi da parte del personale di cassa o incaricato del maneggio del denaro; non risultava essere stato violato il principio della immediatezza della contestazione ed anche il lasso di tempo trascorso dal momento della contestazione a quello della irrogazione della sanzione si era rivelato compatibile coi tempi richiesti dal procedimento disciplinare; le deposizioni testimoniali avevano dato atto dell’esistenza nella filiale di una macchina conta-soldi che agevolava le operazioni di conteggio; la testimonianza del P., richiamata dal lavoratore a giustificazione del suo operato, non induceva a ritenere che esistesse all’interno della filiale una prassi nel senso sostenuto dal medesimo appellante e, anzi, dal tenore della stessa si ricavano elementi sfavorevoli alla sua tesi difensiva.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’ A., il quale affida l’impugnazione a dodici motivi di censura.

Rimane solo intimata l’Intesa San Paolo s.p.a..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo l’ A. censura la sentenza impugnata per insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), dolendosi della decisione del giudice d’appello di ritenere provata la preesistenza dell’affissione del codice disciplinare ai fatti di causa, nonostante la mancanza di un esplicito riferimento al dato temporale da parte dei testi C. e Ce.. Il ricorrente contesta che un tale convincimento potesse maturare sulla base della sola considerazione che i capitoli di prova che avevano provocato le risposte di questi ultimi testi erano stati formulati dalla difesa della datrice di lavoro al precipuo fine di contrastare l’assunto del lavoratore sulla denunziata mancanza di affissione del suddetto codice. In sostanza, il ricorrente ritiene che solo una deposizione riferentesi specificatamente al dato temporale dell’affissione poteva consentire al giudicante di ritenere provata la previa affissione del suddetto codice, per cui la motivazione adottata sul punto dalla Corte territoriale sarebbe da considerare insufficiente. Il motivo di censura è inammissibile.

Invero, come è stato già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007), "il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse". Nella fattispecie la motivazione oggetto di censura è da ritenere immune da denunziato vizio, essendo sufficientemente motivata la deduzione tratta dal giudicante dalla lettura congiunta del contenuto del capitolo di prova, che verteva sulla visibilità del codice disciplinare all’interno della filiale, e delle deposizioni dei testi, inerenti il luogo esatto dell’avvenuta affissione; infatti, il giudice d’appello ha correttamente osservato che la formulazione del capitolo di prova era stata predisposta all’evidente fine di contrastare l’assunto avversario sulla presunta inosservanza dell’adempimento in esame, per cui, una volta appurato che il codice era ben visibile nei luoghi di lavoro, non poteva essere convincente la tesi del ricorrente sulla inesistenza dello stesso.

2. Col secondo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, (art. 360 c.p.c., n. 3), in quanto si ritiene che l’inosservanza delle procedure che il lavoratore bancario era tenuto ad osservare relativamente alla verifica della consistenza di moneta metallica presa in carico o ceduta e di registrazione delle banconote ricevute dai clienti, condotte, queste, oggetto dell’addebito disciplinare di cui trattasi, non poteva dedursì da una fonte diversa dal codice disciplinare di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, quale quella del Regolamento per la custodia dei valori e per l’esecuzione delle operazioni di cassa al quale ha fatto riferimento il giudice d’appello.

Si osserva che il quesito relativo a tale motivo è inconferente rispetto alla "ratio decidendi" seguita al riguardo dalla Corte territoriale e, pertanto è inammissibile. Invero, nella sentenza è stato posto in evidenza che le contestazioni inerivano alla violazione de principio generale di diligenza nell’esecuzione della prestazione lavorativa, diligenza che avrebbe dovuto estrinsecarsi anche nell’osservanza delle regole dettate dal datore di lavoro nell’esplicazione delle singole mansioni, la specificità delle quali era ricavabile dal suddetto Regolamento, il cui testo integrale risultava essere stato consegnato all’appellante, il quale era stato, in tal modo, messo nelle condizioni di conoscere anche le procedure relative all’attività che veniva chiamato ad espletare in sostituzione del consegnatario principale dei valori. Inoltre, secondo la Corte d’appello, non poteva essere ignorata la norma di cui all’art. 31, comma 2, del contratto collettivo in virtù della quale il personale di cassa, o comunque incaricato del maneggio dei valori, aveva l’obbligo di denunciare, non oltre la presentazione della situazione giornaliera, le eccedenze e le deficienze che si erano verificate nella gestione dei valori ad essi affidati.

In definitiva, l’inammissibilità del quesito dipende dal fatto che il motivo denunziato, per il quale nel codice disciplinare non era ravvisabile un grado di specificità delle attività da compiersi pari a quello delle fonti rappresentate dal Regolamento e dal contratto collettivo, non risolve in radice la responsabilità del dipendente in ordine alle inadempienze contestategli che concernevano, in ogni caso, la violazione del principio generale di diligenza nell’esecuzione della prestazione lavorativa da attuarsi nel rispetto delle regole dettate dal datore di lavoro nell’esplicazione delle singole mansioni già regolamentate e portate a conoscenza dell’ A. per il tramite della consegna del testo integrale del menzionato regolamento.

3. Col terzo motivo, attraverso il quale è reiterata la denunzia di violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, (art. 360 c.p.c., n. 3), il ricorrente chiede di accertare se, allorquando il contratto collettivo preveda nella parte disciplinare che i lavoratore debba fornire all’azienda una collaborazione attiva ed intensa nello svolgimento della sua prestazione ed elenchi i provvedimenti sanzionatori, correlandoli alla gravità della mancanza o ai grado della colpa, sia rispettato o meno il precetto per il quale le sanzioni disciplinari debbono avere un grado di specificità sufficiente ad escludere che la condotta del dipendente sia interamente devoluta ad una valutazione unilaterale ed ampiamente discrezionale del datore di lavoro.

Anche tale motivo è inconferente e, come tale inammissibile, per la ragione che la norma collettiva richiamata dal giudice d’appello e correttamente interpretata, vale a dire l’art. 31, comma 2, detta una regola generale ben precisa, che è quella per la quale il personale di cassa o l’incaricato di turno per il maneggio dei valori ha l’obbligo di denunziare le eccedenze e le deficienze verificatesi nella gestione dei valori ad essòaffidati, non oltre il limite temporale della presentazione della situazione giornaliera. Ne consegue che non è dato ravvisare in tale disposizione collettiva, che è specifica sia nella previsione della condotta da tenere in caso di eccedenze o deficienze di cassa che nei tempi di attuazione della stessa, alcun elemento che induca a ritenere la sussistenza di una valutazione unilaterale ed ampiamente discrezionale della parte datoriale, per cui cade il presupposto stesso in base al quale è articolato il quesito.

4. Col quarto motivo è denunziata l’omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), in quanto si assume che la valutazione della immediatezza della contestazione, avvenuta in data 8/3/204, è priva di congrua motivazione, essendo stata formulata sul presupposto che le indagini tese ad accertare i responsabili dell’ammanco erano iniziate il 19/1/2004, laddove a tale data, come risulta dai documenti in atti non esaminati, quelle indagini erano state già compiute ed il ricorrente era stato individuato come responsabile.

Osserva la Corte che il motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità. Invero, seguendo una motivazione congrua ed esente da vizi di carattere logico-giuridico, come tale immune da rilievi di legittimità, la Corte d’appello ha correttamente posto in risalto che la piena conoscenza dei fatti contestati avvenne solo a seguito della conclusione dell’apposita indagine avviata dal servizio "auditing" e che tale indagine era iniziata immediatamente dopo che il direttore del suddetto servizio aveva provveduto ad effettuare in data 19/1/04 la comunicazione di sua competenza, poi ricevuta il 22/1/2004, la qual cosa era diversa dalla semplice segnalazione di ammanco del dicembre del 2003, per cui il fatto che la contestazione fosse avvenuta T8/3/04 era giustificato dalla complessità dell’accertamento che aveva riguardato anche l’attività del consegnatario principale e di altro dipendente svoltasi nell’arco di un intero anno. Ne consegue che è inammissibile il tentativo del ricorrente di voler operare una rivisitazione nel merito delle risultanze istruttorie documentali già attentamente vagliate dal giudice d’appello con argomentazioni immuni da rilievi di legittimità. 5. Oggetto del quinto motivo di censura è la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 2119, 1175 e 1375 c.c., nonchè di ogni norma e principio in tema di immediatezza del licenziamento per giusta causa rispetto alla contestazione ( art. 360 c.p.c., n. 3). Attraverso la stessa il ricorrente, dopo aver evidenziato che a seguito delle contestazioni dell’8/3/04 egli aveva reso le proprie giustificazioni il 14/3/04 e che era stato mantenuto in servizio fino al momento del licenziamento intimatogli il 24/5/04, pone il quesito di diritto tendente ad accertare se nella fattispecie era stata rispettata la regola della immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla data della lettera di contestazione degli addebiti e se era stato leso il suo affidamento alla conservazione del posto di lavoro a causa del comportamento datoriale che non lasciava più presagire l’adozione della massima sanzione.

Osserva la Corte che il quesito è inammissibile per le seguenti ragioni: anzitutto, per quel che concerne la lamentata tardività della irrogazione della sanzione del licenziamento rispetto all’epoca della contestazione degli addebiti disciplinari, non può non rilevarsi che la formulazione del quesito non contiene alcuna confutazione delle ragioni poste dal giudice d’appello a fondamento del convincimento della giustificazione del lasso di tempo, di poco superiore ai due mesi, intercorso dal momento della contestazione a quello della intimazione del licenziamento. Infatti, il ricorrente si limita a riportare nella parte espositiva del motivo le ragioni indicate dalla Corte di merito a sostegno del suddetto convincimento e a rilevare che sarebbe stato necessario un maggior rigore interpretativo nella verifica del rispetto del principio della tempestività, ma conclude la censura con la semplice richiesta di accertamento dell’avvenuto rispetto di tale principio, dando per scontato che il solo trascorrere di quel lasso temporale deponeva per la sua violazione, senza spiegare per quale motivo le ragioni giustificative specificatamente illustrate dalla Corte di merito erano inidonee ai fini della ritenuta giustificazione del lasso di tempo intercorso tra la contestazione e la sanzione. In effetti, quest’ultima ha chiaramente spiegato che il suddetto lasso temporale si giustificava coi tempi tecnici del procedimento disciplinare, scanditi dalla lettera di giustificazione inviata dal lavoratore, dall’audizione del medesimo e di altri due dipendenti implicati nella vicenda, dalla verbalizzazione delle dichiarazioni orali "all’auditing" e dalle controdeduzioni del responsabile di tale servizio alle difese del dipendente D..

E’ bene ricordare che in siffatta materia questa Corte ha già avuto occasione di affermare (Cass. sez. lav. n. 5546 dell’8 marzo 2010) che "nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. In ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un dipendente di un’azienda telefonica determinato dall’uso scorretto del telefono cellulare di servizio, consistito nell’invio di decine di migliaia di "s.m.s.", aveva escluso l’intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l’esame di complessi tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello illecito)".

(in senso conforme v. anche Cass. Sez. lav. n. 29480 del 17/12/2008).

Se ne deve trarre, dunque, la conclusione che nella fattispecie il giudice d’appello ha adeguatamente valutato il rispetto datoriale del principio della tempestività del recesso e che, invece, il ricorrente non ha indicato per quale motivo, essendo insufficiente solo quello del trascorrere del tempo, le ragioni giustificative illustrate dal medesimo giudicante sarebbero state inidonee a sorreggere il convincimento sulla tempestiva irrogazione della sanzione.

Egualmente inammissibile è la parte del quesito che fa leva sulla asserita lesione della presunta legittima aspettativa alla conservazione del posto di lavoro desunta dal comportamento datoriale che, mantenendo in servizio il dipendente fino al licenziamento, aveva fatto presumere che mai sarebbe stata applicata la massima sanzione.

Invero, è agevole osservare che sul punto la Corte d’appello ha adeguatamente spiegato che la pendenza del procedimento disciplinare doveva far ragionevolmente ipotizzare anche un esito negativo in danno del lavoratore, per cui la supposizione di quest’ultimo in ordine ad una presunta legittima aspettativa di segno opposto, così come formulata col quesito, finisce per tradursi in una petizione di principio non supportata da elementi concreti atti a configurare una tolleranza incondizionata dell’azienda a prescindere dall’esito del procedimento disciplinare.

6. Col sesto motivo ci si duole dell’omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), sostenendosi che nella formulazione del giudizio di tempestività del licenziamento la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare dei documenti dai quali sarebbe stato, invece, agevole dedurre che la questione non era affatto complessa al punto da richiedere oltre due mesi di tempo dal momento della contestazione per pervenire alla decisione di irrogare la sanzione del licenziamento. Il ricorrente si riferisce in particolare ai seguenti documenti: la sua dichiarazione resa il 18/12/03 in sede di ispezione, la lettera di contestazione degli addebiti dell’8/3/04 che già poneva in rilievo la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, la sua lettera di giustificazioni del 14/3/04 con la quale ammetteva i fatti contestatigli ed il verbale di audizione del 30/3/04 contenente dichiarazioni in linea con quelle in precedenza rese alla datrice di lavoro.

Il motivo è infondato.

Invero, non va dimenticato che "in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti)." (Cass. Sez. 3 n. 9368 de 21/4/2006; in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

Orbene, tenuto conto di tali principi, si rileva che nella fattispecie, la Corte d’appello ha attentamente valutato i documenti della cui omessa disamina si lamenta ora il ricorrente, vale a dire quelli che contraddistinsero l’iter procedimentale disciplinare conclusosi con l’impugnato licenziamento, pervenendo, attraverso argomentazioni logiche che si sottraggono ai rilievi di legittimità, alla conclusione che non si era avuta alcuna lesione dei principi di immediatezza della contestazione disciplinare e di tempestività della sanzione irrogata.

Infatti, la stessa Corte ha congruamente evidenziato che la piena conoscenza dei fatti contestati da parte della datrice di lavoro avvenne solo a seguito della conclusione dell’apposita indagine avviata dal servizio "auditing", indagine che era iniziata immediatamente dopo che il direttore del suddetto servizio aveva provveduto ad effettuare in data 19/1/04 la comunicazione di sua competenza, poi pervenuta alla società bancaria il 22/1/2004, la qual cosa era da tener distinta dalla semplice segnalazione di ammanco risalente al mese di dicembre del 2003, per cui il fatto che la contestazione fosse avvenuta T8/3/04 trovava giustificazione nella complessità dell’accertamento svolto che aveva riguardato anche l’attività del consegnatario principale e di un altro dipendente svoltasi nell’arco di un intero anno.

La Corte di merito ha, altresì, posto in rilievo, con argomentazioni altrettanto logiche, che i tempi tecnici del procedimento disciplinare, scanditi dalla lettera di giustificazione inviata dal lavoratore, dall’audizione del medesimo e di altri due dipendenti implicati nella vicenda, dalla verbalizzazione delle dichiarazioni orali "all’auditing" e dalle controdeduzioni del responsabile di tale servizio alle difese del dipendente D., giustificavano il lasso temporale intercorso dal momento della contestazione a quello finale del licenziamento.

7. Col settimo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg., ( art. 360 c.p.c., n. 3), imputando alla Corte d’appello sia di aver male interpretato la norma di cui all’art. 24 del Regolamento, non considerando che il destinatario delle prescrizioni in esso contenute è il consegnatario principale dei valori o il soggetto cui compete di disporre una verifica dei valori in rimanenza col concorso del cassiere principale, sia di non aver fatto corretto uso dei canoni di ermeneutica contrattuale nel ricorrere ad una clausola della contrattazione collettiva, che impone al personale di cassa di denunziare non oltre la presentazione della situazione giornaliera le eccedenze e le deficienze verificatesi nella gestione dei valori ad esso affidati, al fine di individuare il destinatario della suddetta norma regolamentare, così pervenendo ad identificarlo in colui che sostituisce, in occasione di temporanee assenze, il consegnatario principale dei valori.

Osserva la Corte che non può non rilevarsi la inammissibilità del quesito, così come posto con riferimento al motivo di censura in esame: invero, il ricorrente denuncia un errore di diritto ed un vizio di ragionamento nell’interpretazione di un atto negoziale, quale nella fattispecie il "Regolamento per la custodia dei valori e per l’esecuzione delle operazioni di cassa", limitandosi ad un astratto riferimento alle regole di cui all’art. 1362 c.c. e segg., senza la specificazione dei canoni ermeneutici in concreto violati e del punto e del modo in cui il giudice di merito si sia da quei canoni discostato, finendo, in realtà, per esporre una semplice critica della ricostruzione della volontà contrattuale operata dal giudice e la proposta di una diversa interpretazione, come tali insufficiente a concretizzare una censura ammissibile nel giudizio di legittimità, in quanto non si consente in tal modo il controllo della decisività del preteso errore di interpretazione.

Oltretutto, nel tentativo di fornire la propria interpretazione letterale della norma regolamentare in contrapposizione a quella del giudice d’appello, il ricorrente introduce nel quesito di diritto una proposizione che non è riportata nella stessa norma, accentuando, in tal modo, l’inammissibilità dello stesso. Infatti, leggendo il testo della norma in esame, riprodotta nel ricorso, si rileva che nella seconda parte della stessa è contenuta una previsione alternativa a quella principale in cui il Consegnatario principale dei valori e/o l’Operatore di sportello provvedono, allorquando essi cessano dalle loro specifiche funzioni, alla riconsegna dei valori in carico, con contestuale verifica degli stessi. L’ipotesi alternativamente contemplata è quella in cui la cessazione avvenga per motivi contingenti ed i suddetti soggetti responsabili siano assenti, nel qual caso è stabilito che la verifica dei valori in rimanenza debba effettuarsi col concorso dell’incaricato dei controlli, ma la norma non specifica chi debba concorrere con quest’ultimo nell’espletamento di siffatta verifica, in quanto si limita a stabilire che "dovrà essere disposta una verifica", mentre la difesa del ricorrente esclude apoditticamente che il destinatario della disposizione possa identificarsi con la persona di chi sostituisce naturalmente il consegnatario medesimo dei valori. E’ il caso di ricordare che si è già statuito in passato (Cass. Sez. lav. n. 18356 dell’1/12/2003) che "il regolamento del personale del Banco di Napoli ha natura contrattuale, onde la relativa interpretazione da parte del giudice del merito può essere denunciata, in sede di legittimità, solo per vizi di motivazione e violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, con l’onere, per il ricorrente, di indicare specificamente il punto e il modo in cui l’interpretazione si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, non potendosi egli limitare a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative, o comunque diverse, rispetto a quelle proposte dal giudice di merito". 8. Con l’ottavo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, e art. 2119 c.c., nonchè di ogni norma e principio in materia di immediatezza della contestazione ( art. 360 c.p.c., n. 3). Si deduce, in particolare, che il giudice d’appello ha violato il principio della immutabilità della contestazione in quanto, a fronte dell’addebito mosso sia per l’omessa verifica, in occasione delle sostituzioni del titolare della cassa centrale, della effettiva consistenza della moneta metallica presa in carico o ceduta, che per l’impropria registrazione, come moneta metallica, delle banconote ricevute dai clienti che avevano ceduto in cambio le monete, ha ritenuto giustificato il licenziamento per la diversa causale, prevista dall’art. 31 del ccnl, della ritenuta violazione dell’obbligo di denunzia, non oltre la presentazione giornaliera, delle eccedenze e delle deficienze verificatesi nella gestione dei valori affidati al dipendente.

Il motivo è infondato. Infatti, il giudice d’appello non ha allargato il tema di indagine a causali diverse da quelle dell’intimato licenziamento, tant’è vero che la motivazione della sentenza impugnata esordisce con la constatazione che i fatti contestati non erano stati negati, nel loro accadimento storico, dall’appellante, il quale aveva mosso, a fondamento del gravame, le doglianze inerenti la ritualità del procedimento disciplinare e la valutazione della sua responsabilità, sostenendo che questa doveva essere esaminata alla luce della peculiarità rappresentata dalla saltuarietà dello svolgimento delle mansioni in relazione alle quali si erano verificati gli inadempimenti oggetto dei suddetti addebiti.

Che il tema di indagine non risulti dilatato lo si ricava anche dalla circostanza per la quale la norma regolamentare richiamata dal giudicante è quella inerente la verifica dei valori in rimanenza nelle ipotesi di cessazione del consegnatario o dell’operatore di sportello, per motivi contingenti, dalle loro funzioni ed in loro assenza, cioè una norma che attiene sicuramente ai fatti presupposti del licenziamento non contestati nel loro storico accadimento. Questi furono, infatti, l’omessa verifica, in occasione delle sostituzioni del titolare della cassa centrale, della effettiva consistenza della moneta metallica presa in carico o ceduta, oltre che l’impropria registrazione, come moneta metallica, delle banconote ricevute dai clienti che avevano a loro volta ceduto in cambio delle monete.

Analogamente, la norma collettiva di cui all’art. 31 in tema di obbligo di denunzia delle eccedenze o delle deficienze verificatesi nella gestione dei valori affidati al personale incaricato del maneggio degli stessi, non oltre la presentazione della situazione giornaliera, è stata richiamata dal giudice d’appello non come causale di riferimento della contestazione disciplinare, bensì come fonte contrattuale atta a far meglio valutare la portata dei fatti, non contestati nel loro storico accadimento, inerenti gli addebiti costituenti il presupposto dell’intimato licenziamento. In definitiva, non può ritenersi che vi sia stata una violazione del diritto di difesa per il tramite di una supposta non corrispondenza tra fatti contestati e quelli per i quali era stato disposto il licenziamento, atteso che le ragioni per le quali quest’ultimo provvedimento era stato emesso non potevano non presupporre sul piano logico il compimento di quelle violazioni oggetto delle precedenti contestazioni.

9. Col nono motivo è censurata l’omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo ( art. 360 c.p.c., n. 5), vale a dire la riferita esistenza della prassi per la quale le monete metalliche erano già contenute in sacchi sigillati recanti la firma ed il timbro dei singoli cassieri, la qual cosa appariva incompatibile, secondo il ricorrente, con la pretesa osservanza della direttiva che avrebbe imposto di provvedere alla conta ed alla verifica delle monete custodite nel "caveau" all’inizio ed al termine delle sostituzioni.

Tale doglianza è infondata ed è agevole osservare che il giudice d’appello ha posto in evidenza, con argomentazione congrua ed immune da vizi di natura logico-giuridica, che la testimonianza del Ca. aveva consentito di appurare l’esistenza nella filiale in cui operava l’ A. di una macchina conta-soldi atta ad agevolare le operazioni di verifica del contante in moneta, per cui la supposta impossibilità di procedere a siffatta operazione non aveva pregio.

10. Col decimo motivo è censurata l’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), cioè l’aver il giudice d’appello accertato solo il tempo necessario alla conta delle monete, ricavandolo dall’esito delle operazioni di verifica disposte in sede disciplinare, senza considerare se di quel tempo egli aveva disponibilità nel momento in cui aveva la necessità di assicurare allo sportello il servizio alla clientela.

La questione, così come posta è inammissibile, in quanto trascura l’argomentazione logica adoperata dalla Corte di merito nel pervenire al convincimento della insussistenza della giustificazione addotta dal dipendente licenziato.

Infatti, il giudice d’appello, con argomentazione congrua ed immune da rilievi di carattere logico-giuridico, ha osservato che l’appellante non poteva farsi scudo del fatto che anche con l’utilizzo della macchina conta-soldi e l’impiego di due persone in sede ispettiva si erano resi necessari due giorni e mezzo per la conta delle monete, giacchè in quel caso si era trattato di una operazione che era stata ripetuta in considerazione del forte ammanco registrato (Euro 80.711,83). Ne deriva che il fatto indicato dal ricorrente come decisivo, cioè l’omessa verifica del tempo che egli aveva a disposizione per la conta delle monete nelle ore da dedicare al servizio di sportello, tale non è: infatti, non può condividersi la prospettazione difensiva incentrata sulla pretesa di ricavare dal diverso dato evidenziato dal giudice d’appello (cioè quello della tempistica richiesta dalla necessità di una scrupolosa verifica ispettiva in relazione alla totalità degli ammanchi fatti registrare all’esito delle varie sostituzioni del consegnatario principale) elementi di riscontro per la giustificazione della impossibilità temporale di compimento delle operazioni oggetto dei singoli episodi di contestata inadempienza, atteso che questi ultimi non possono paragonarsi alla complessità ed alla delicatezza della verifica postuma della totalità degli ammanchi. 11. Con l’undicesimo motivo è censurata l’omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5) con riferimento alla controversa emanazione, da parte della Banca, di una direttiva concernente la procedura di registrazione della moneta cartacea ricevuta dai clienti in cambio di quella metallica, adducendosi che la esposizione del teste P. non poteva essere intesa dalla Corte di merito come conferma di direttive asseritamente violate di dubbia esistenza.

Anche in tal caso il motivo è inammissibile in quanto la prospettazione del fatto asseritamente decisivo è formulata travisandosi il ragionamento seguito dalla Corte d’appello, in quanto quest’ultima ha valutato la deposizione del teste P. non nell’intento di rinvenire una conferma alla contestata inadempienza della irregolare registrazione delle banconote ricevute in cambio della dazione di moneta metallica ai clienti, come sostiene l’odierno ricorrente, ma al fine di verificare la fondatezza dell’esistenza della prassi indicata a sua discolpa da quest’ultimo. Infatti, sul punto la Corte di merito è chiara nell’affermare che la testimonianza del P., richiamata dall’appellante per giustificare il suo operato, non indica una prassi nel senso da lui sostenuto. La medesima Corte ha aggiunto che il predetto teste aveva parlato di un suo comportamento che, come tale, non poteva costituire una prassi, precisando, nel contempo, che il medesimo aveva riferito di essersi preoccupato di evitare che si accumulassero consistenti importi di moneta cartacea corrispondente alla moneta metallica ricevuta. In ogni caso il motivo di ricorso si risolve in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tende all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

12. Con l’ultimo motivo di doglianza l’ A. imputa al giudice d’appello la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ( art. 360 c.p.c., n. 3), accusandolo di aver omesso ogni pronunzia sulla questione, sollevata nelle fasi di merito, della sproporzione della sanzione del licenziamento rispetto all’entità degli addebiti contestati. Il quesito posto al riguardo è il seguente: "Ove in considerazione di una controversia di impugnativa di licenziamento la sentenza di primo grado affermi la proporzionalità di esso rispetto alla sanzione del licenziamento in tronco ed il lavoratore, censurando la sentenza, devolva la questione al giudice dell’appello con uno specifico motivo, viola l’art. 112 c.p.c., la sentenza di appello che omette di pronunciare su tale motivo?".

Il motivo è inammissibile.

Invero, violando palesemente il principio della autosufficienza che deve contraddistinguere il giudizio di legittimità, il ricorrente omette di indicare i passaggi della sentenza di primo grado ai quali dovevano ritenersi correlati i motivi del gravame vertenti sulla dedotta questione della sproporzione della sanzione del licenziamento, per cui non si consente a questa Corte di verificare la decisività degli stessi motivi rispetto alle statuizioni fatte oggetto di impugnazione e, di conseguenza, la sussistenza o meno del lamentato vizio di omessa pronunzia. Pertanto, il ricorso va rigettato.

Non va adottata alcuna statuizione sulle spese nei confronti del ricorrente in considerazione del fatto che la società bancaria è rimasta solo intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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