Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-02-2012, n. 2712 Licenziamento per riduzione del personale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 30/10/08 – 23/1/09 la Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto l’appello proposto da A.G. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Cosenza, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a I. G. per riduzione del personale, condannandolo al pagamento di quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto erogata al dipendente, oltre che alla somma di Euro 28.515,46 per differenze retributive relative al periodo 15/5/95 – 10/1/01, ed ha conseguentemente respinto sia la domanda proposta col ricorso di primo grado dal lavoratore, sia quella riconvenzionale del datore di lavoro per presunti danni causati dal dipendente, compensando le spese di entrambi i gradi del giudizio.

La Corte territoriale ha spiegato il proprio convincimento sulla base delle seguenti considerazioni: le buste-paga prodotte risultavano essere state firmate tutte dal lavoratore per quietanza, tranne quella di dicembre del 1995 e della relativa tredicesima; a fronte dei pagamenti ricevuti il lavoratore non aveva provato di aver effettuato una maggiore prestazione di lavoro, nè ordinario, nè straordinario, nè, tantomeno, aveva dimostrato di non aver goduto delle ferie; la scelta datoriale di riduzione del personale era insindacabile da parte del giudice, il quale avrebbe dovuto limitarsi a verificare la legittimità formale del provvedimento e l’impossibilità di adibizione del dipendente a mansioni equivalenti, oltre che la effettività della riduzione del personale, vale a dire che non vi fossero state nuove assunzioni nei tempi prossimi al licenziamento a copertura dei posti di lavoro soppressi. In definitiva, secondo il giudice d’appello, non era emerso dall’istruttoria che il datore di lavoro avesse proceduto a nuove assunzioni, nè il lavoratore aveva provato, da parte sua, la possibilità di essere adibito anche a mansioni diverse o equivalenti nell’ambito dell’azienda; inoltre, non erano stati provati i danni contestati al lavoratore con la domanda riconvenzionale.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso I. G., il quale affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso A.G..

Il ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Il lavoratore denunzia come primo motivo di censura l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Nel fare ciò egli parte dalla constatazione che appare superficiale la valutazione operata dal giudice d’appello allorquando il medesimo, esprimendosi in maniera difforme dal primo giudice, ha ritenuto che nessuna differenza retributiva poteva competergli per avere firmato tutte le buste-paga, trascurando, altresì, di considerare il suo svolgimento, in epoca successiva al 31/7/98, di una prestazione lavorativa a tempo pieno, caratterizzata dall’espletamento di 7/8 ore di lavoro al giorno che apparivano obiettivamente incompatibili con un sistema di lavoro part-time. La superficialità della decisione deriva, secondo il ricorrente, anche dalla considerazione che il giudice d’appello non ha nemmeno esaminato la questione del T.F.R. e delle altre indennità (festività, preavviso e 13A mensilità), ossia delle somme richieste per tali titoli, in modo da poterle raffrontare con le somme indicate nell’atto di transazione del 5/3/2001. In definitiva, il ricorrente imputa alla Corte d’appello di aver disatteso le risultanze testimoniali di primo grado in ordine alla quantità di lavoro giornaliero prestato e di non aver disposto un accurato conteggio delle ore effettivamente lavorate, così come emerse dall’istruttoria di primo grado. Un tale conteggio avrebbe dovuto essere esguito, secondo il ricorrente, rispetto alle ore lavorative indicate nelle buste-paga anche per il periodo antecedente al 31/7/98, riconosciuto dallo stesso convenuto come caratterizzato dalla prestazione di lavoro full-time. In particolare, l’esito complessivo della suddetta operazione contabile avrebbe consentito, secondo il ricorrente, di appurare che gli erano dovute considerevoli differenze retributive, con innegabili riflessi sull’ammontare del TFR e delle altre summenzionate indennità.

Osserva la Corte che il motivo è infondato.

Invero, le doglianze appena illustrate si traducono in una inammissibile rivisitazione nel merito delle risultanze istruttorie adeguatamente valutate dal giudice d’appello attraverso argomentazioni immuni da vizi di natura logico-giuridica e si rivelano inidonee a scalfire la validità della "ratio decidendi" sottesa alla soluzione offerta al riguardo dalla Corte di merito, la quale, con argomentazione assolutamente congrua, ha posto in rilievo quanto segue: il datore di lavoro aveva esibito le buste paga mensili inerenti tutto il periodo lavorativo in questione e le stesse, di diverso importo oscillante tra lire 1.100.000 e lire 1.400.000 mensili, risultavano tutte firmate per quietanza dal lavoratore, eccetto quella di dicembre del 1995 e della relativa tredicesima, per cui la difforme conclusione cui era giunto il primo giudice era verosimilmente dipesa da una svista determinata dal fatto che per la maggior parte delle buste-paga la firma per quietanza del lavoratore risultava essere stata apposta sul retro delle stesse; i testi non avevano dato indicazioni certe e concordanti sull’espletamento di un orario di lavoro superiore a quello ordinario che, dalla lettura delle buste-paga, risultava essere stato integralmente retribuito. Ne consegue il rigetto di tale motivo.

2. Oggetto della seconda censura è, invece, la violazione o falsa applicazione, in relazione alla sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, della L. n. 604 del 1966, art. 3, dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ( L. n. 300 del 1970) e dell’art. 41 Cost., comma 2, (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Nel formulare tale censura il ricorrente parte dalla constatazione che la Corte d’appello, contrariamente a quanto risultante dall’atto di licenziamento e dalle memorie difensive di controparte, atti nei quali la causale del provvedimento risolutivo era stata ricondotta alla riduzione del personale, è pervenuta ad affermare, senza alcuna ragione, che il licenziamento era dovuto ad un nuovo assetto organizzativo dell’azienda. Inoltre, secondo l’odierno ricorrente, una tale discrepanza è resa ancor più evidente dal fatto che il giudice di primo grado aveva inteso la riduzione del personale come riferentesi ad un calo di attività e di fatturato, giungendo, però, alla conclusione che queste ultime circostanze non erano state provate. In ogni caso, prosegue il ricorrente, anche a voler accedere alla soluzione ravvisata dalla Corte territoriale, non emerge che quest’ultima abbia effettuato una concreta verifica della incompatibilità della professionalità del lavoratore licenziato con il nuovo assetto organizzativo dell’azienda, anche perchè il datore di lavoro non aveva indicato in che cosa consistesse il nuovo assetto aziendale; inoltre, la stessa Corte avrebbe fatto cattivo governo del riparto degli oneri probatori nel ritenere che il lavoratore non aveva comprovato la possibilità di essere adibito a mansioni diverse ed equivalenti nell’ambito dell’azienda. In definitiva, ci si duole del fatto che il giudicante non ha operato il dovuto controllo sulla reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore a sostegno dell’intimato licenziamento, cioè la riduzione del personale, e non ha tenuto conto del fatto che il datore di lavoro non aveva nemmeno addotto uno specifico motivo della riduzione del personale, per cui non si era raggiunta la prova, nè del calo del fatturato, nè di qualsiasi riassetto organizzativo nel senso inteso dalla Corte di merito.

A conclusione del motivo viene posto il seguente quesito di diritto:

"Dica la Corte se è corretta l’interpretazione e l’applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 nel senso di considerare legittimo il licenziamento del lavoratore dipendente, per giustificato motivo oggettivo, qualora esso sia stato intimato "per riduzione del personale", senza ulteriore motivazione, intesa tale riduzione, nella sentenza di primo grado, come riferentesi ad un calo di attività e fatturato, il cui relativo onere probatorio incomberebbe sul datore di lavoro, e non venendo tale riferimento contestato dall’impresa neanche nel ricorso in appello, mentre successivamente, con la sentenza di secondo grado, viene ricondotto invece ad una nuova e diversa organizzazione aziendale, senza peraltro verificare in concreto l’oggettiva incompatibilità del nuovo assetto produttivo, come detto mai allegato nè illustrato nè dimostrato dal datore di lavoro, con la professionalità del lavoratore licenziato, e ritenendo decisivi da un lato il mancato assolvimento da parte del lavoratore dell’onere, a lui addossato, di dedurre e comprovare la possibilità di essere adibito a mansioni diverse, e dall’altro lato la circostanza che l’azienda, nel breve periodo "prossimo al licenziamento" non abbia assunto altri lavoratori".

Il motivo è fondato.

Al riguardo si è, invero, statuito (Cass. sez. lav. n. 12514 del 7/7/2004) che "il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, della L. 15 luglio 1966, n. 604, ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto a che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, la impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, con motivazione insufficiente e incompleta, aveva ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo desumendolo dall’avvenuta riorganizzazione delle mansioni affidate al lavoratore licenziato, nell’ambito dell’ufficio cui questi era addetto, attraverso una redistribuzione delle stesse tra il personale occupato nel medesimo ufficio, e comunque da un generale programma di riduzione dei costi aziendali), (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 21282 del 2/10/2006, nonchè Cass. sez. lav. n. 19616 del 26/9/2011) Inoltre, si è precisato (Cass. sez. lav. n. 7381 del 26/3/2010) che "in materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo determinati da ragioni inerenti all’attività produttiva, il datore di lavoro ha l’onere di provare, con riferimento alla capacità professionale del lavoratore ed alla organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento, anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come "extrema ratio". (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte territoriale che, con riferimento ad azienda di grandi dimensioni, aveva ritenuto non assolto dal datore di lavoro l’onere probatorio, sul rilievo delle numerose assunzioni nell’anno seguente a quello del licenziamento, di personale con la medesima qualifica del lavoratore licenziato, e dell’elevato livello di istruzione di questo, che ne consentiva l’utilizzazione in settori diversi da quello in cui era stato precedentemente addetto) (conforme in tal senso anche a Cass. sez. lav. n. 11720 del 20/5/2009).

Orbene, tali essendo i principi ispiratori della materia in esame, se ne deve dedurre che nella fattispecie non risulta che la Corte d’appello abbia compiuto la dovuta verifica della effettività della circostanza della riduzione del personale, dedotta dalla difesa del datore di lavoro a giustificazione dell’intimato licenziamento.

Invero, la preliminare considerazione per la quale la necessità della riduzione del personale non poteva in alcun modo essere meramente strumentale a fini imprenditoriali di puro profitto, dovendo, invece, essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti di carattere produttivo – organizzativo, alla cui sussistenza doveva essere ricondotta la prova della inevitabilità del licenziamento, stante la impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale, imponeva alla Corte di merito di non limitare la propria indagine alla verifica del fatto che in tempi prossimi al licenziamento non erano state fatte nuove assunzioni, potendo una tale circostanza dipendere anche dalla volontà del datore di lavoro di differire nel tempo la copertura del posto soppresso. Inoltre, la Corte d’appello non poteva pretendere che fosse il lavoratore a dover dimostrare di non poter essere adibito a mansioni equivalenti o diverse nell’ambito dell’azienda. Al riguardo è anche il caso di ricordare che "in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, – in relazione al quale non sono utilizzabili nè il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, nè il criterio dalla impossibilità di "repechage" – il datore di lavoro deve pur sempre improntare l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse." (Cass. sez. lav. n. 7046 del 28/3/2011).

In definitiva, il primo motivo va respinto, mentre va accolto il secondo ed in relazione a tale accoglimento l’impugnata sentenza va cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, la quale provvederà ad un nuovo esame della questione della legittimità del licenziamento, oltre che alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Reggio Calabria che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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