Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-02-2012, n. 2892 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (qui di seguito, per brevità, indicato anche come Istituto) propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Napoli a favore di R.S. a titolo di retribuzioni non percepite dal novembre 1998 al settembre 1999 e della tredicesima mensilità relativa all’anno 1998.

Con separato ricorso il R. impugnò il licenziamento per giusta causa irrogatogli dall’Istituto il 30.12.1999, instando per la condanna della parte datoriale al pagamento delle retribuzioni maturate e al risarcimento del danno, anche da illegittima dequalificazione.

Il Tribunale di Napoli, previa riunione dei giudizi, revocò il decreto ingiuntivo opposto e rigettò le domande del lavoratore.

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 12.5 – 14.7.2009, in parziale accoglimento del gravame proposto dal R., dichiarò l’illegittimità del licenziamento, condannando l’Istituto alla riassunzione o, in alternativa, al versamento di un’indennità pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre agli interessi legali dalla data del licenziamento.

A sostegno del decisum la Corte territoriale, per ciò che ancora qui rileva, osservò quanto segue:

– ciascuna delle parti aveva dedotto l’inadempienza contrattuale dell’altra: il R. assumendo la mancata corresponsione delle retribuzioni a fronte della messa a disposizione delle energie lavorative, attribuendo al datore di lavoro l’aver reso impossibile l’esecuzione della prestazione, costringendolo ad una forzata inoperosità nella sede di lavoro; l’Istituto sostenendo invece che la prolungata assenza del R. fosse da qualificare come manifestazione di dimissioni di fatto, mai formalizzate, da far risalire al novembre 1998, e, in subordine, formulando l’eccezione di inadempimento sfociata poi nel licenziamento;

– il comportamento delle parti induceva a ritenere che vi era stata una consensuale riduzione dell’attività, culminata addirittura nella sua sospensione; lo stesso R. aveva affermato che gli incarichi gli provenivano esclusivamente dal Presidente M. e che quest’ultimo, a far data dal 1997, aveva troncato ogni rapporto personale e di lavoro nei suoi confronti;

– d’altro canto non era stata fornita alcuna prova che l’attività che il R. aveva dedotto di aver continuato ad effettuare per conto dell’Istituto fosse stata svolta per conto di quest’ultimo;

– al contempo dalle deposizioni testimoniali era emerso che il R. si era allontanato dalla sede dell’Istituto, contrattualmente prevista come sede di lavoro con una permanenza in città per almeno cinque giorni lavorativi alla settimana; in particolare, secondo quanto riferito da un teste, il R. dalla fine del 1997 non era stato più visto con frequenza presso la sede dell’Istituto, non era stato proprio più visto ivi nel periodo successivo all’estate del 1998 e, dal novembre 1998, non aveva più svolto alcuna attività per l’Istituto;

– il decorso di diversi mesi prima che il R. rivendicasse il mancato versamento delle retribuzioni, il riferimento nella lettera del 20 aprile 1999 solo a richieste economiche senza alcuna messa a disposizione delle energie lavorative, l’astensione da parte dell’Istituto dall’adottare provvedimenti disciplinari per l’inadempimento per detto periodo, il versamento dei contributi e la compilazione del modello 101 con riferimento anche ai mesi di novembre e dicembre 1998, erano tutte circostanze univoche che inducevano a ritenere verosimilmente che, più che di dimissioni di fatto o di licenziamento orale, si fosse trattato di una concordata sospensione del rapporto, che poteva trovante spiegazione nell’incontestato momento di crisi finanziaria attraversato dall’Istituto a causa delle difficoltà dei rapporti con il Ministero della ricerca scientifica e del diradarsi dei finanziamenti;

– conseguiva a tale ricostruzione dei fatti che: a) correttamente era stata disposta la revoca del decreto ingiuntivo opposto, stante la non debenza delle retribuzioni al lavoratore in virtù del principio sinallagmatico che regola i contratti a prestazioni corrispettive; b) del tutto indimostrati dovevano ritenersi il lamentato demansionamento e la pretesa dequalificazione; c) doveva ritenersi l’insussistenza della condotta contestata come giusta causa di recesso, siccome relativa proprio al periodo dal novembre 1998 al settembre 1999, di concordata sospensione del rapporto;

– in ordine alle conseguenze dell’illegittimità del recesso, trattandosi di organizzazione di tendenza, trovava applicazione la L. n. 108 del 1990, art. 4 con esclusione quindi della tutela reale;

– in forza della residuale tutela obbligatoria, l’Istituto andava condannato all’immediata riassunzione o, in mancanza, al versamento di una indennità pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto corrisposta, tenuto conto della durata del rapporto e del ruolo ricoperto dal lavoratore.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi.

L’intimato R.S. ha depositato procura, partecipando alla discussione.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., assumendo che la Corte territoriale aveva pronunciato ultra petita nel ritenere intervenuta fra le parti una sospensione consensuale del rapporto di lavoro, mai dedotta, allegata o domandata in giudizio e in totale contrasto con la causa petendi.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle circostanze che avevano indotto la Corte territoriale a ritenere che fosse intervenuta fra le parti una tacita sospensione consensuale del rapporto di lavoro.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 3 dolendosi che la Corte territoriale abbia escluso la giusta causa di licenziamento.

2. I primi due motivi di ricorso, tra loro strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

2.1 Secondo la giurisprudenza di questa Corte il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato non osta a che il giudice d’appello operi una ricostruzione dei fatti diversa da quella prospettata dalle parti, o renda una qualificazione giuridica autonoma rispetto a quella della sentenza impugnata, e criticata dalle parti, con il limite attinente al divieto del giudice stesso di attribuire un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nei fatti di causa e che si basi su elementi di fatto non ritualmente acquisiti in giudizio come oggetto del contraddittorio e non tenuti in alcun conto dal primo giudice (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 6006/1994; 10542/2002;

14734/2002; 12750/2003). Va poi rilevato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie. Per conseguenza il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 824/2011; 13783/2006; 11034/2006; 4842/2006; 8718/2005; 15693/2004;

2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002). Al contempo va considerato che, affinchè la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12121/2004).

2.2 Nel caso che ne occupa la Corte territoriale ha statuito nei limiti delle domande svolte, accogliendo quella di impugnazione del licenziamento e confermando le statuizioni di prime cure reiettive delle altre.

Inoltre si è basata esclusivamente sui fatti ritualmente introdotti in causa, dando loro una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti, ma esaminando le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici.

Pertanto le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte da un lato non concretizzano la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e, dall’altro, configurano un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch’esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010;

14911/2010). In definitiva, quindi, le doglianze dei ricorrenti si sostanziano nella infondata deduzione di un error in procedendo, nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del gravame e nella richiesta di un riesame di merito del materiale probatorio, inammissibile in questa sede di legittimità. I motivi all’esame non possono quindi ritenersi fondati.

3. L’inaccoglibilità dei precedenti motivi comporta l’infondatezza anche del terzo, risultando coerente con la premessa, vale a dire l’intervenuta concordata sospensione del rapporto, la valutazione dell’insussistenza dell’inadempienza del lavoratore per il relativo lasso di tempo.

4. In definitiva il ricorso deve essere rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 20,00, oltre ad Euro 1.500,00 (millecinquecento/00) per onorari, spese generali, Iva e Cpa come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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