Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-02-2012, n. 2887 Trasferimento di azienda

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 30.10.2009, in accoglimento dell’appello principale del Calzaturificio Zeis s.p.a. e di quello incidentale della Compagnia della Moda s.r.l., in riforma della sentenza del Tribunale di Parma, rigettava la domanda di B.A.M., accolta invece in primo grado, con accertamento della intervenuta cessione del ramo d’azienda in data 23.12.1998, declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato alla predetta il 19.11.1998 per giustificato motivo oggettivo e riconoscimento del conseguente diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro presso l’acquirente del ramo d’azienda, Compagnia della Moda srl., condannata alla reintegrazione nel posto di lavoro della B. ed, in solido con il Calzaturificio, al risarcimento del danno pari alle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla reintegra. La Corte territoriale, nel riformare tale pronuncia, premessi i principi validi in tema di interpretazione degli atti unilaterali, rilevava che, pur essendosi la lavoratrice opposta, con lettera del 2.12.1998, sia al trasferimento che al licenziamento, aveva sottoposto ad impugnazione soltanto quest’ultimo, onde la questione della cessione del ramo di azienda non poteva esercitare alcuna influenza ai fini della decisione, in quanto, non coltivando l’impugnazione del trasferimento presso la sede centrale del Calzaturificio Zeis in (OMISSIS), la lavoratrice non ne aveva contestato le comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive addotte dal datore e poste alla base del provvedimento. In ogni caso, l’intenzione di intimare il licenziamento era condizionata alla mancata accettazione del trasferimento, che era fondato su motivazione – chiusura del punto vendita cui era addetta la B. – effettiva e mai smentita ed idonea ad integrare le ragioni giustificatrici dello ius variandi del datore di lavoro, ex art. 2103 c.c.. Nè poteva ritenersi che il rifiuto a trasferirsi fosse giustificato dal fatto che nella specie dovesse ravvisarsi un trasferimento di ramo d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., non essendo sufficienti ai fini della ravvisabilità di tale fattispecie sia il riferimento all’intestazione del contratto come cessione di ramo di azienda, sia quello delle tabelle merceologiche, che, peraltro, comprovavano la differenza tra l’attività aziendale del Calzaturificio e quella concretamente esercitata dalla Compagnia della Moda. In particolare, secondo la Corte del merito, non era sufficiente, ai fini del trasferimento d’azienda, solo il trasferimento di proprietà dei singoli beni produttivi, ma occorreva anche che il soggetto subentrante nella titolarità dei beni proseguisse la medesima attività imprenditoriale del cedente, laddove l’istruttoria espletata aveva confermato che la Compagnia della Moda svolgeva un’attività commerciale in settore diverso.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la B., con sei motivi, illustrati con memoria.

Resistono, con controricorsi, sia il Calzaturificio che la Compagnia della Moda s.r.l. ed il primo ha depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la B. denunzia il vizio di motivazione – per omissione o, comunque, per insufficienza della stessa – circa il fatto controverso e decisivo costituito dal contenuto effettivo della lettera del 19.11.1998, evidenziando l’erronea ricognizione della fattispecie concreta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sul rilievo che la Corte del merito non avrebbe esaminato l’atto da interpretare e non avrebbe identificato gli errori ermeneutici del Tribunale, nè spiegato la loro rilevanza ai fini del decidere, tutto ciò in relazione ad un documento la cui esatta portata è decisiva per stabilire le circostanze e le ragioni del licenziamento.

Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dei canoni interpretativi dettati dagli artt. 1362, 1363 e 1367 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, osservando che l’affermazione secondo cui la lettera del 19.11.1998 andava interpretata nel senso che, in forza dell’avvenuto trasferimento, il rapporto non era più sussistente presso il punto vendita di (OMISSIS), ossia che v’era stato solo un trasferimento ad altra unità produttiva e non un licenziamento, è in palese contrasto con i criteri suindicati e che, nel ritenere che la lettera del 19.11.1998 non contenesse l’intimazione di un licenziamento, la Corte territoriale abbia violato l’art. 1362 c.c., perchè non ha tenuto conto che nella missiva è precisato che essa era da intendere quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ritenendo che fosse stato disposto solo un trasferimento, è stato violato il canone della interpretazione complessiva dell’atto, dettato dall’art. 1363 c.c., senza considerare che, limitando il contenuto della lettera al solo il trasferimento, la parte finale della stessa resterebbe senza effetto, in contrasto con l’art. 1367 c.c..

Non si è tenuto, poi, conto, a dire della ricorrente, neanche del comportamento successivo del Calzaturificio Zeis, il quale ha fatto risultare risolto il rapporto alla data del 31.12.1998, senza procedere ad alcuna ulteriore comunicazione, con ciò indirettamente confermando che con la lettera de qua era stato disposto, voluto e posto in essere il licenziamento. In definitiva, la ricorrente assume la violazione da parte della Corte dei su citati criteri allorchè ha ritenuto che il primo giudice avesse interpretato erroneamente la lettera del 19.11.1998 ed erroneamente ritenuto sussistente il rapporto presso il punto vendita di (OMISSIS), nonostante l’avvenuto trasferimento.

Con il terzo motivo, la B. lamenta la violazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c. e denunzia error in procedendo, ex art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c, sul rilievo che l’affermazione che occorreva coltivare la questione dell’illegittimità del trasferimento, attraverso espressa impugnazione giudiziale dello stesso, era tale da denotare il convincimento che esistesse una connessione necessaria tra decisione sul trasferimento e decisione sulla declaratoria di illegittimità del licenziamento, e che è principio pacifico quello secondo il quale una istanza, pur se non espressamente proposta, può ritenersi implicitamente contenuta nel thema decidendum quando si trovi in rapporto di connessione con la materia del contendere e ne estenda l’ambito soggettivo ed oggettivo di riferimento. Per giudicare dell’illegittimità del licenziamento occorreva necessariamente sindacare la legittimità del trasferimento.

Con il quarto motivo, è denunziato il vizio di motivazione – per omissione o, comunque, per insufficienza della stessa – circa il fatto controverso e decisivo della avvenuta proposizione, da parte della ricorrente, della questione della invalidità del suo trasferimento da (OMISSIS), sulla base dell’osservazione che, nell’interpretare la domanda, occorre tenere conto del contenuto sostanziale della stessa e che l’avere denunciato come illegittima ed inveritiera tale comunicazione, essendovi in realtà una cessione di ramo d’azienda, e che il trasferimento non confermato dal dipendente non costituisce giustificato motivo oggettivo, allorquando attratto nell’ambito della cessione di azienda con le conseguenze di cui all’art. 2112 c.c., equivale a contestare la situazione descritta dalla datrice, che aveva falsamente rappresentato una chiusura dell’unità produttiva, causativa e giustificativa del trasferimento, mentre in realtà vi era stato un trasferimento d’azienda. Assume la ricorrente che la domanda deve necessariamente intendersi come riferita anche alla volontà di fare affermare l’inidoneità della mancata accettazione del pretesamente legittimo trasferimento a (OMISSIS), in realtà strumentale a sfuggire alla doverosa applicazione dell’art. 2112 c.c. e che, peraltro, l’omessa motivazione sul trasferimento da parte del giudice di primo grado è smentita dalla circostanza che quest’ultimo aveva affermato che del trasferimento mancavano i presupposti di legittimità.

Con il quinto motivo la B. si duole della violazione dell’art. 2112 c.c. e della connessa violazione degli artt. 1362, 1363 e 1367 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, evidenziando che non costituisce circostanza ostativa all’applicabilità dell’art. 2112 c.c. il fatto che i beni ceduti siano integrati e riorganizzati nella più ampia struttura dell’impresa cessionaria . Chiede affermarsi che la Corte territoriale ha errato nel ritenere rilevante la continuazione della stessa attività della cedente, senza prendere in considerazione le disposizioni del contratto intervenuto tra Zeis e Compagnia della Moda del 23.12.1998, la cui interpretazione, ove condotta in base al’ art. 1362 c.c. e segg., avrebbe portato a ritenere voluto e realizzato un trasferimento d’azienda.

Infine, con l’ultimo motivo, la ricorrente denuncia la insufficiente motivazione sul fatto decisivo costituito dal contenuto del contratto del 23.12.1998, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e la connessa violazione degli artt. 1362, 1363 1367 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando la significatività di elementi quali la avvenuta cessione della autorizzazione amministrativa relativa all’attività commerciale del punto vendita, la pattuizione di un importo da imputare ad avviamento, la avvenuta cessione anche del contratto di locazione, che, in caso contrario, doveva avvenire con il consenso del proprietario dell’immobile.

Il primo motivo mira a contestare la decisione sulla base di una asserita carenza ed illogicità della motivazione e sulla base di rilevi che attengono alla contrapposizione di una diversa ricostruzione fattuale della vicenda, con la quale si sollecita una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, posto che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia idoneamente specificato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà della motivazione nei termini consentiti in sede di legittimità, indicati dalla pronunzia di legittimità richiamata. Ed invero, deve evidenziarsi la linearità dell’iter logico seguito dalla Corte nel ritenere effettiva e mai smentita la circostanza della chiusura del punto vendita, che aveva indotto la società a disporre un trasferimento della B. legittimo e non contestato ed un successivo licenziamento per g.m.o. determinato dalla indicata chiusura dell’esercizio commerciale e dalla mancata accettazione del trasferimento.

Il secondo motivo, con il quale si deduce la erronea applicazione dei criteri ermeneutici in tema nell’interpretazione dell’atto unilaterale è ugualmente infondato, in quanto la Corte del merito ha considerato che il giustificato motivo oggettivo quale dedotto nel provvedimento di trasferimento della B. presso altra sede lavorativa non era stato oggetto di specifica impugnazione e che, pertanto, le ragioni poste a fondamento dello stesso erano da ritenere sussistenti. D’altronde, In tema di negozio giuridico, poichè le norme sull’interpretazione dei contratti ( art. 1362 c.c. e segg.) si applicano agli atti unilaterali con il limite della compatibilità, non può aversi riguardo nei negozi unilaterali alla comune intenzione delle parti, che non esiste, ma deve indagarsi l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, senza che possa farsi ricorso, per determinarlo, alla valutazione del comportamento dei destinatari dell’atto stesso (cfr. Cass. 20.1.2009 n. 1387). L’interpretazione dell’atto unilaterale, la quale consiste, allo stesso modo dell’ermeneusi del contratto, nell’accertamento della volontà del dichiarante, si risolve in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, la cui valutazione è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche, sicchè non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale, operata dallo stesso giudice di merito, che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli elementi di fatto già esaminati (v. Cass 19.12.2006 n. 27168). Peraltro, la parte che voglia denunciare un errore di diritto od un vizio di ragionamento nella detta interpretazione non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui al cit. art. 1362 c.c. e segg., ad essa incombendo, invece, l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto e il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (cfr., in tale senso, Cass. 22.3.2001 n. 4147). La consequenzialità del licenziamento alla mancata accettazione del trasferimento risulta correttamente desunta dall’esame complessivo delle clausole, in conformità anche al criterio dettato dall’art. 1363 c.c., che non può pertanto ritenersi disatteso, analogamente all’altro criterio ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., non indicandosi specificamente i termini della relativa asserita violazione.

Vero è che l’esercizio del potere discrezionale spettante all’imprenditore di trasferire il dipendente da un luogo di lavoro ad un altro è strettamente condizionato dalla sussistenza di obbiettive ragioni organizzative, tecniche o produttive dell’impresa e che, ove tale sussistenza sia esclusa, il rifiuto del dipendente di eseguire il provvedimento di trasferimento non ne giustifica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, tuttavia, nel caso considerato, correttamente è stato osservato da giudice del gravame che la circostanza della chiusura del punto vendita non è stata smentita e correttamente pertanto il datore ha esercitato lo ius variandi di cui all’art. 2103 c.c., senza che il dipendente abbia giudizialmente impugnato l’atto datoriale. Onde non è caratterizzata da salti logici e vizi motivazionali la sentenza che abbia ritenuto, a fronte della mancata deduzione dell’arbitrarietà del trasferimento – che peraltro risultava connesso all’effettiva chiusura del punto vendita ove la B. esercitava la propria attività lavorativa – che la sussistenza delle ragioni che giustificavano tale provvedimento abbiano reso arbitrario il rifiuto del lavoratore fungendo da elemento costitutivo del giustificato motivo di licenziamento.

Quest’ultimo non è stato preceduto da alcuna ulteriore comunicazione preventiva proprio perchè connesso, nella ricostruzione operata dalla Corte del merito, agli stessi motivi posti a fondamento del trasferimento ed alla impossibilità, al cospetto di un rifiuto della lavoratrice di accettare una diversa collocazione aziendale, di impiegare in altro modo le energie lavorative della dipendente.

Peraltro, anche a volere ritenere che il licenziamento abbia assunto i connotati di un licenziamento disciplinare – prospettazione mai in realtà neanche avanzata – alcuna doglianza in merito alla mancanza di procedimento disciplinare è stata formulata in sede di contestazione del recesso e di impugnativa dello stesso, in conformità alla regola di specificità dei motivi di impugnazione, non potendo quindi ritenersi illegittimo il recesso neanche sotto tale profilo (al riguardo , cass 7.6.2003 n. 9167).

Quanto alla censura riferita alla erronea qualificazione della impugnazione giudiziale, ritenuta implicitamente riferita anche al trasferimento e contenuta nella domanda e costituente oggetto del thema decidendum, deve rilevarsi che la Corte territoriale ha, nella sostanza, reputato la inidoneità ai fini considerati della connessione del licenziamento con il trasferimento, atto presupposto, e che occorresse specifica impugnativa anche e proprio del secondo, valutando in tal modo che non potesse considerarsi l’impugnazione del licenziamento estesa anche al trasferimento, attesi anche i termini dell’impugnazione.

In presenza di specifica motivazione al riguardo, il vizio dedotto deve ritenersi riferibile all’interpretazione della domanda giudiziale, la quale, tuttavia, consistendo in un giudizio di fatto, è incensurabile in sede di legittimità, essendo la Corte di cassazione abilitata all’espletamento di indagini dirette al riguardo soltanto allorchè il giudice di merito abbia omesso l’indagine interpretativa della domanda, ma non se l’abbia compiuta ed abbia motivatamente espresso il suo convincimento in ordine all’esito dell’indagine (cfr., in tali termini, Cass. 11.3.2011 n. 5876). E’ stato, con riferimento a tale questione, precisato che, qualora in sede di legittimità si lamenti la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omesso esame della domanda, la Cassazione (che in tal caso è anche giudice del fatto) ha il potere – dovere di procedere all’esame diretto degli atti, laddove tale principio non trova applicazione quando viene dedotto, come nella specie, il vizio relativo all’interpretazione della domanda che, comportando un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, è sottratto al controllo di legittimità se non sotto il profilo della correttezza della motivazione. Ne consegue che soggiace alla sanzione d’inammissibilità il ricorso che censuri l’operazione compiuta dal giudice di merito nell’interpretazione della domanda senza prospettare vizi motivazionali (cfr., tra le altre, Cass 20.4.2004 n. 7533).

Ogni altro rilievo prospettato nel quarto motivo rifluisce nelle assorbenti considerazioni già svolte circa l’incensurabilità della interpretazione qualificatoria della domanda giudiziale, dovendosi avere riguardo anche alla rilevata scansione temporale dei fatti di causa ed, in particolare, alla evidenziata circostanza che il licenziamento era stato intimato in data 19.11.1998, in relazione ad una situazione aziendale delineatasi in conseguenza della chiusura del punto vendita in Parma. La connessione del trasferimento con la cessione intervenuta tra le società Zeis e Compagnia della Moda il 23.12.1998 e la strumentalità del primo rispetto alla seconda in funzione del reale intento di "sfuggire alla doverosa applicazione dell’art. 2112" avrebbe richiesto la dimostrazione della anteriorità o, quanto meno, della contestualità della seconda, e tale prova è stata ritenuta inesistente secondo la ricostruzione effettuata nella sentenza di secondo grado, compatibile con la successione degli eventi delineata. Deve, poi, anche considerarsi che il datore di lavoro cedente, che, in seguito a cessione di un ramo dell’azienda, continui un’attività economica nel complesso dei residui beni organizzati, ha il potere sia di recedere in tempo utile (sussistendone le ragioni giustificative) dai rapporti di lavoro con i dipendenti che già prestavano la propria opera nell’ambito dei beni trasferiti, sia di trattenere tali lavoratori presso di sè, impiegandoli nel complesso dei beni non ceduti, senza che la prosecuzione del detto rapporto di lavoro con l’imprenditore alienante necessiti del consenso del lavoratore (cfr. Cass 24.1.1991 n. 671) e che, in conformità a principio giurisprudenziale sancito da questa Corte, il trasferimento di azienda o di un suo ramo non può essere di per sè ragione di licenziamento, conservando il datore di lavoro il potere di recesso di cui alla normativa generale, sempre che questo abbia fondamento nella struttura aziendale e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo (cfr, in tal senso, Cassi 1.6.2008 n. 15495).

Ogni doglianza espressa con riguardo alla rilevanza da attribuirsi, ai fini della ravvisabilità della cessione del ramo di azienda, alla continuazione della stessa attività della cedente, ed alla possibilità, ammessa dalla giurisprudenza di questa Corte, di riorganizzare il complesso degli elementi trasferiti che conservino un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine sia pure con successiva integrazione del cessionario, all’esercizio dell’impresa (v. Cass 9.10.2009 n. 21481), non è diretta a censurare un vizio della pronunzia che abbia carattere di decisività. Così come la dedotta mancata valutazione dell’atto intercorso tra le società controricorrenti e delle sue specifiche clausole non muta i termini della questione, da esaminarsi ed esaminata con riferimento alla cronologia della vicenda ed alla possibilità per il cedente di collocare, come già osservato, prima della cessione di un ramo della sua azienda, alcuni dei dipendenti addetti allo stesso presso altra sede della struttura aziendale, sempre che ciò non nasconda un intento elusivo, che nel caso considerato è stato escluso dal giudice del merito, una volta ritenuta circostanza effettiva e non smentita la chiusura – cronologicamente antecedente – dell’esercizio, che aveva indotto il Calzaturificio a disporre il trasferimento della B..

Quindi, ai fini considerati poco rileva se nel caso in esame si sia realizzata o meno una cessione di un ramo dell’azienda e, tuttavia, anche la qualificazione del detto contratto è operazione che contempla in primo luogo, tra le fasi in cui essa si articola, la ricerca della comune volontà dei contraenti, che si traduce in un accertamento in fatto, come tale riservato al giudice di merito e sindacabile in cassazione solo sotto il profilo del difetto di motivazione o della violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, (cfr., in tal senso, Cass. 10.2.2003 n. 1928; Cass. 5.7.2004 n. 12289; Cass. 7.12.2005 n. 2700). Nella specie non si ravvisano lacune motivazionali o profili di censura idonei a ritenere violate le regole ermeneutiche richiamate, nè si sottolinea il carattere di decisività delle questioni prospettate nel contesto del complessivo impianto motivazionale anche ai fini del giudizio di rilevanza giuridica qualificante gli elementi di fatto in concreto accertati.

Il ricorso va, in conclusione, rigettato e l’onere delle spese di lite del presente giudizio, per il principio della soccombenza, deve essere posto a carico della ricorrente, nei confronti di ciascuna delle società controricorrenti, nella misura rispettivamente indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la B. al pagamento delle spese del presente giudizio in favore delle resistenti, liquidate per ciascuna di esse in Euro 40,00 per esborsi ed in Euro 2500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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