Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-02-2012, n. 2884 Associazione in partecipazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 22.10.2008/12.11.2009 la Corte di appello di Potenza, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta da A.P. per far accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra lo stesso e la società Anglomagi e a r.l.

Osservava in sintesi la corte territoriale che gli esiti dell’istruttoria dimostravano che fra le parti si era costituita una associazione in partecipazione e che la prestazione lavorativa dell’ A. era ascrivibile a tale rapporto, con conseguente esclusione della fattispecie della subordinazione, i cui indici sintomatici non avevano trovato riscontro nelle acquisizioni istruttorie.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso A.P. con due motivi.

Resiste con controricorso la società Anglomagic.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione di legge ed, al riguardo, rileva che la corte territoriale aveva mancato di considerare che l’intenzione di dar vita ad un rapporto societario non si era concretato in un accordo negoziale, nè scritto, nè per fatti concludenti, e che, in ogni caso, aveva omesso di accertare se esistessero gli elementi qualificanti del rapporto di associazione in partecipazione (a fronte della mancata allegazione e prova della erogazione e partecipazione agli utili, dell’assolvimento dell’obbligo di rendicontazione, della partecipazione al rischio di impresa ed alla gestione della stessa, della espressa esclusione del lavoratore dalle perdite), dovendosi, in caso contrario, presumere l’esistenza di un contratto di lavoro subordinato.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione per avere la corte di merito ritenuto che il mero versamento di una somma di denaro e la sua restituzione potessero costituire prova dell’avvenuta costituzione e dello scioglimento dell’associazione , nell’assenza di alcun effettivo riscontro circa la sussistenza, anche in via di mero fatto, di tale figura contrattuale, con la conseguente necessità di dare al rapporto altra sistemazione negoziale.

2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione sul piano logico e giuridico, risultano infondati.

Giova, al riguardo, preliminarmente osservare come, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, ai fini della distinzione fra il contratto di associazione in partecipazione e quello di lavoro subordinato, è necessario che il giudice di merito accerti che l’associato che conferisca attività lavorativa non sia sottoposto ad un vincolo di dipendenza che comporti l’assoggettamento al potere organizzativo, direttivo e disciplinare dell’imprenditore, che la prestazione sia contenuta entro i limiti del conferimento dovuto, senza assumere i caratteri della collaborazione ex art. 2094 c.c., che sia ravvisabile la compartecipazione al rischio di impresa (così già Cass. n. 6750/1981) In tal contesto viene, pertanto, rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito, attraverso un accertamento delle caratteristiche del rapporto contrattuale che si vuole puntuale e concreto, la identificazione degli elementi tipici della subordinazione, qualificati essenzialmente dalla sottoposizione al potere direttivo, organizzativo e gerarchico del datore di lavoro, ritenendosi, invece, compatibile con lo schema dell’associazione, e, quindi, non dirimente rispetto al problema qualificatorio, la possibilità per l’associante di impartire istruzioni e direttive (v. ad es. Cass. n. 2932/2005; Cass. n. 13013/2003; Cass. n. 20002/2004).

Alla luce di tali rilievi, si è, quindi, ulteriormente precisato, con riferimento ai tratti tipizzanti dell’associazione in partecipazione, che la causa di tale contratto è ravvisabile, in definitiva, nello scambio fra un determinato apporto dell’associato all’impresa dell’associante ed il vantaggio economico che l’associante si impegna corrispondere al primo.

Laddove, invece, si assume che non rivestono carattere qualificante nè la partecipazione alle perdite (in quanto ove anche tale partecipazione sia esclusa non vien meno la condivisione del rischio di impresa, sia pure nelle forme della mancata remunerazione del lavoro svolto), nè la commisurazione della partecipazione del lavoratore associato al ricavo dell’impresa, anzichè agli utili netti (dal momento che l’art. 2553 c.c. consente alle parti di determinare la misura di partecipazione dell’associato agli utili), nè la mancanza di un effettivo controllo sulla gestione dell’impresa (giacchè la legge prevede il diritto dell’associato al controllo e al rendiconto annuale di gestione, ma lascia libero lo stesso di esercitare o meno tali poteri) (cfr. ad es. da ultimo Cass. n. 24871/2008; Cass. n. 3894/2009).

Tale quadro interpretativo va detto subito (ma vedi amplius sub n. 4) – non ha subito sostanziali modifiche, nelle sue linee portanti, neppure a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2. 3. La sentenza impugnata risulta conforme agli indirizzi ermeneutici esaminati e resta esente dalle censure mosse dal ricorrente.

I giudici di appello, senza operare alcuna inversione logica, hanno, infatti, puntualmente ricostruito gli esiti dell’istruttoria, dando atto che gli stessi non evidenziavano univocamente gli elementi tipizzanti la subordinazione, ed hanno, quindi, correttamente affermato che tale circostanza concorresse ad escludere la simulazione del rapporto associativo, la cui esistenza (che non presuppone un accordo che rivesta la forma scritta ad substantiam) è stata argomentata, attraverso un’opportuna selezione degli indici normativi a tal fine rilevanti, in particolare attribuendo rilievo al versamento della quota sociale e alla sua successiva restituzione.

E tale motivazione, che individua le fonti del convincimento del giudice e giustifica in modo logicamente plausibile la decisione, non risulta sindacabile in sede di legittimità.

Dovendosi, al riguardo, ribadire che, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, il controllo di logicità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice di merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe, in realtà, che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità, risultando del tutto estraneo all’ambito di operatività del vizio di motivazione la possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. ad esempio da ultimo Cass. n. 11789/2005; Cass. n. 4766/2006;

Cass. n.6064/2008; Cass. n. 7394/2010 ).

Giusto in quanto l’art. 360 c.p.c., n. 5 "non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e , all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione" (così SU n. 5802/1998), non incontrando, al riguardo, il giudice di merito alcun limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le allegazioni che, sebbene non menzionati specificatamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. ad es. Cass. n. 11933/2003; Cass. n. 9234/2006).

Sulla base di tali principi, la sentenza impugnata risulta immune dalle censure denunciate.

4. Quanto, infine, all’applicabilità , nel caso in esame, della fattispecie del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2 deve ritenersi che correttamente è stata esclusa l’ammissibilità della relativa domanda, perchè nuova e, comunque, incompatibile con il petitum dell’azione avanzata dal ricorrente, in quanto intesa ad accertare l’esistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato. Stabilisce la norma invocata che "al fine di evitare fenomeni elusivi della disciplina di legge e contratto collettivo, in caso di rapporti di associazione in partecipazione resi senza una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni a chi lavora, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, o in mancanza di contratto collettivo, in una corrispondente posizione secondo il contratto di settore analogo, a meno che il datore di lavoro, o committente o altrimenti utilizzatore non comprovi, con idonee attestazioni o documentazioni, che la prestazione rientra in una delle tipologie di lavoro disciplinate nel presente decreto ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto dall’ordinamento".

Per come si è notato, tale disposizione, inserita "a sorpresa" fra le disposizioni transitorie della legge, è stata ritenuta in tal senso, comunque, obbligata ed opportuna, in quanto estranea al contenuto della Legge Delega n. 30 del 2003 e non funzionale ad un diverso inquadramento giuridico della fattispecie, ma solo all’individuazione di alcuni tratti tipizzanti della stessa (in particolare, la partecipazione del lavoratore e la sua remunerazione) idonei a consentire un uso corretto del contratto, con la previsione delle relative conseguenze sul piano del trattamento economico e contributivo e del relativo onere probatorio.

Resta il fatto che la norma, di complessa interpretazione, appare, comunque, di incerta effettività.

Ed, al riguardo, basta pensare alle difficoltà che si sono prospettate rispetto alla rilevanza che vengono ad assumere gli elementi sintomatici di un uso elusivo dello schema contrattuale, quanto alla influenza che la sussistenza degli stessi assume riguardo alla permanenza della fattispecie associativa.

Sotto il primo aspetto, si deve ritenere che la norma si inserisce all’interno del processo giurisprudenziale di selezione degli indici sintomatici della fattispecie legale e privilegia, attraverso una presunzione suscettibile, comunque, di prova contraria, quelli che, secondo il legislatore, appaiono più idonei a svelare fenomeni elusivi della disciplina di legge e di contratto.

Sotto il secondo, la lettera della norma, oltre che la sua collocazione, induce a ritenere che la stessa non configura, tuttavia, quale sanzione di tali fenomeni la conversione del contratto di associazione in contratto di lavoro, quanto l’estensione all’associato delle corrispondenti tutele minime, senza incidere, pertanto, sulla qualificazione giuridica della fattispecie (che resta pur sempre una fattispecie associativa), dando conferma, nonostante ogni contraria apparenza, a quegli orientamenti giurisprudenziali che hanno sottolineato l’irrilevanza che assumono, rispetto alla causa del contratto di associazione, la partecipazione dell’associato agli utili ed alle perdite e le forme di controllo sulla gestione dell’impresa, che vengono ad incidere, piuttosto, su specifici effetti di disciplina.

Resta fermo, comunque, che la norma non può introdurre alcuna limitazione rispetto al potere del giudice di qualificare la fattispecie in relazione all’effettivo tipo contrattuale che emerge dalla concreta attuazione della relazione negoziale, e che, pertanto, non vien meno la possibilità per lo stesso di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, secondo i criteri già elaborati dalla giurisprudenza in materia, trattandosi di un potere costituzionalmente necessario, alla luce della regola di effettività della tutela (cfr. Corte Cost. n. 115 del 1994) e del tutto funzionale, peraltro, alle stesse finalità di contrasto dell’uso fraudolento dell’istituto perseguite dal legislatore.

Ne deriva, in conseguenza, che la norma in esame si pone su un piano distinto, tanto con riferimento ai presupposti, che al regime probatorio e alle conseguenze di disciplina, rispetto all’accertamento della subordinazione, svolgendo, piuttosto, una funzione integrativa della disciplina dell’associazione in partecipazione, tanto sul piano sostanziale che processuale.

E, sotto quest’ultimo aspetto, merita di essere sottolineato come la legge gravi il lavoratore associato di uno specifico onere probatorio (incentrato sulla dimostrazione di una adeguata partecipazione e remunerazione), cui corrisponde una specifica prova liberatoria del datore di lavoro, committente o utilizzatore (incentrata sulla riconducibilità della prestazione ad una tipologia altra dal lavoro subordinato), laddove la prova della subordinazione presuppone un ben diverso e complesso tema di indagine e di prova, che essenzialmente rinvia alla eterodirezione della prestazione.

Resta, così, confermato che deve considerarsi come nuova la domanda proposta dal lavoratore associato per far accertare che il rapporto di associazione in partecipazione sia stato reso senza una effettiva partecipazione e remunerazione, ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2 laddove in precedenza lo stesso aveva richiesto di accertarsi la sussistenza di un rapporto di subordinazione, trattandosi di norma distinta, quanto ai presupposti, al regime probatorio e alle conseguenze di disciplina, rispetto all’accertamento della subordinazione ed avente, piuttosto, una funzione integrativa della disciplina dell’associazione in partecipazione.

5. Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 50,00 per esborsi ed in Euro 3000,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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