Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 11-07-2011) 03-10-2011, n. 35785

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Procuratore generale della Repubblica presso la corte di appello di Salerno ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della predetta corte che aveva assolto perchè il fatto non sussiste numerosi imputati, medici componenti della commissione di prima istanza per l’accertamento degli stati di invalidità civile, operante presso la USL (OMISSIS), e pazienti che, grazie alla attestazione di invalidità avevano ottenuto la iscrizione negli elenchi per l’avviamento al lavoro delle categorie protette, conseguendo poi effettivamente un lavoro, dai delitti di falso in atto pubblico, truffa e abuso in atti di ufficio loro contestati.

Il ricorso veniva proposto nei confronti di G.A., V.A. e B.G., medici, e di D.R. I., C.G., S.L. e P. G., pazienti.

Il ricorso risultava proposto anche contro il medico Pi.

G., imputato, in concorso con il C., dei reati di falso, abuso in atti di ufficio e truffa, ma il predetto Pi. non risultava condannato nel dispositivo della sentenza di primo grado riportato nella sentenza impugnata, mentre risultava regolarmente indicato nel dispositivo della sentenza di secondo grado.

Il ricorso del pubblico ministero risulta notificato anche al Pi..

Come è detto nella parte motiva dalla sentenza di appello nei confronti del Pi. sarebbe stata emessa sentenza di non doversi procedere per essere estinti i reati per prescrizione, essendo i reati contestatigli stati consumati nel 1985 ed essendo intervenuta la sentenza di primo grado soltanto il 31 maggio 2005, ben oltre la scadenza del termine di prescrizione previsto in anni quindici per i più gravi delitti di falso.

Il giudice di secondo grado ha assolto con formula piena il Pi..

Il presente procedimento, che ha preso le mosse da una denuncia di D.A.M., che si era vista scavalcare dalla collega D.R., ritenuta invalida e che, almeno apparentemente, sembrava godere di ottima salute, ha riguardato l’accertamento delle operazioni, e dalle conseguenti attestazioni, compiute dalla indicata commissione medica negli anni 1984/1985 e 1991/1992, attestazioni di invalidità utilizzate dai beneficiari per accedere ad un posto di lavoro con precedenza su altri lavoratori.

Il Tribunale di Salerno, con decisione del 31 maggio 2005, dopo avere dichiarato la prescrizione di numerosi reati ed assolto, con varie formule D.R., B., G., V. e P. da alcune ipotesi di reato, condannava alle pene ritenute di giustizia per i delitti di falso contestati D.R., G., V., B., P., C. e S..

C. e S. venivano condannati anche al risarcimento dei danni in favore dell’ente Poste e D.R., G., V. e B. al risarcimento dei danni in favore di D.A.M..

Il Tribunale riteneva le attestazioni false sia per la inesistenza di alcune singole patologie, sia per il cattivo uso che i sanitari avevano fatto dei poteri di valutazione discrezionale loro riconosciuti in relazione alle patologie effettivamente riscontrate e riconducibili alla fascia di invalidità tra lo 0% ed il 10%, sia per non avere proceduto ai necessari approfondimenti diagnostici.

La Corte di appello di Salerno, con decisione del 9 febbraio 2010, pur riconoscendo in larga parte la fondatezza dei rilievi del tribunale, ha ritenuto che gli elementi a carico degli imputati non fossero connotati da quel grado di univocità e significatività necessario per pervenire ad una affermazione di responsabilità.

Con più specifico riferimento alle ipotesi di falso contestate i giudici di secondo grado, operando la distinzione tra giudizio non corretto e giudizio falso, hanno rilevato che nel caso di specie non era contestata l’assoluta insussistenza della invalidità, ma la non corretta determinazione della percentualizzazione della stessa, determinazione che rientra nella ampia discrezionalità riconosciuta alle commissioni di cui si discute.

La esclusione dei delitti di falso ha, ovviamente, comportato la assoluzione anche per i delitti di abuso in atti di ufficio e di truffa.

Il Procuratore generale ricorrente ha dedotto la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ancorata peraltro a non corrette regole di giudizio; il ricorrente ha in particolare sottolineato che il dislivello tra la invalidità riconosciuta dalla commissione e quella accertata dai consulenti del pubblico ministero era notevole, cosicchè non si poteva parlare di giudizio non corretto, ma di giudizio falso.

Ricordava, inoltre, il ricorrente che i medici non avevano, a fronte della documentazione prodotta dagli istanti e della apparente buona salute dagli stessi goduta, effettuato i necessari approfondimenti diagnostici accettando, pertanto, il rischio di attestazioni non veritiere.

I reati sono tutti prescritti, essendo decorso da tempo il termine prescrizionale di anni quindici previsto, in base al previgente testo dell’art. 157 cod. pen., applicabile nel caso di specie, per i più gravi delitti di falso in atto pubblico. Tuttavia, a fronte di una sentenza di assoluzione in secondo grado e della necessità di valutare i motivi di ricorso anche ai fini dell’art. 578 cod. proc. pen., essendovi stata in primo grado condanna al risarcimento dei danni, è necessario valutare la fondatezza del ricorso del pubblico ministero (S.U. n. 35490 del 15 settembre 2009).

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto dal Procuratore generale non sono fondati.

A ben vedere sia la corte di merito che il ricorrente Procuratore generale fanno riferimento all’identico, ed oggi prevalente, indirizzo giurisprudenziale in tema di falsità ideologica in atti dispositivi e valutativi.

Essi, infatti, hanno correttamente sostenuto che anche in tema di valutazioni compiute da un medico o da una commissione medica è ben possibile, a determinate condizioni, ritenere la falsità dell’atto.

La impostazione è da condividere perchè quando la valutazione compiuta implichi l’accettazione di parametri normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare anche nella categoria della falsità (così Sez. 5^, 9 febbraio – 18 marzo 1999, n. 3552, CED 213366). Ciò perchè, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione (vedi anche Sez. 5^, n. 48283 del 10 novembre 2004).

Ed anche con più specifico riferimento alla attività delle commissioni mediche la giurisprudenza ha riconosciuto che è ben possibile intravedere ipotesi di falso (Sez. 5^, 30 novembre 1999-31 gennaio 2000, n. 1004) quando la valutazione sia compiuta in base ad accertamenti dalla commissione stessa compiuti.

D’altra parte anche le attestazioni cd. implicite sulle quali poggi la valutazione compiuta può comportare la falsità dell’atto (S.U. 28 giugno – 24 settembre 2007, n. 35488, Scelsi, CED 236867).

Nonostante vi sia una sostanziale condivisione degli indirizzi giurisprudenziali enunciati, la sentenza impugnata ed il ricorrente sono pervenuti a conclusioni difformi.

Le considerazioni del ricorrente, tuttavia, non consentono di annullare la sentenza della corte di merito, che è fondata su condivisibili, come già rilevato, indirizzi giurisprudenziali e su valutazioni di merito sorrette da una motivazione immune da manifeste illogicità.

Deve, infatti, condividersi l’affermazione che il giudizio di percentualizzazione del grado di invalidità – questa è in estrema sintesi la questione sottoposta al vaglio della corte di legittimità – appare molto complesso, essendo agevole tacciare di falso una attestazione quando manchi del tutto lo stato di invalidità, ed apparendo, invece, molto più complicato operare una differenza tra l’errore, sempre possibile quando si operi una valutazione, e falso quando una invalidità sia presente e sussista differenza sulla percentualizzazione della stessa (vedi per un caso analogo in cui è stato escluso il falso Sez. 5^, 18 febbraio – 23 marzo 2000, n. 3760, CED 215676).

Ebbene la sentenza impugnata, con accertamento di merito non censurabile in questa sede di legittimità, ha chiarito che i pazienti di cui al presente processo presentavano delle invalidità e che, pertanto, non poteva parlarsi di insussistenza della stessa.

Tali invalidità erano documentate da certificazioni provenienti da strutture sanitarie pubbliche e non vi era alcun elemento che potesse destare sospetti sulla mancata correttezza delle certificazioni stesse, tanto è vero che gli stessi consulenti del pubblico ministero hanno escluso che i sanitari che tali certificazioni avevano rilasciato avessero violato corretti canoni professionali.

Non vi è dubbio che sia possibile fare affidamento su documenti pubblici, proprio per la fede privilegiata che l’ordinamento riconosce agli stessi, cosicchè la omissione di accertamenti specifici contestata alla commissione non appare fondata perchè la commissione ha certamente il diritto di sottoporre il richiedente a tutti gli accertamenti ritenuti opportuni, ma ha anche la possibilità di non compiere accertamenti superflui, spesso anche assai lunghi e costosi, quando il giudizio possa fondarsi su documentazione proveniente da enti pubblici, quali ad esempio ospedali.

Quanto ai criteri di valutazione della invalidità la corte di merito ha messo in evidenza che all’epoca dei fatti era vigente un decreto ministeriale del 1988 alquanto generico, decreto che venne poi sostituito da disposizioni più precise e stringenti nel 1992; ebbene nel decreto del 1988 si chiariva che le indicazioni della tabella allegata avessero un mero carattere indicativo.

Ebbene in assenza, o nella insufficienza, di precisi protocolli da seguire, assume maggior rilievo la discrezionalità della commissione, che opera la valutazione essenzialmente in base alle proprie conoscenze scientifiche e tecniche, e molto più ampi finiscono con l’essere i margini di errore, mentre più difficile è accertare un profilo di falsità della attestazione.

La corte di merito ha poi rilevato che la consulenza del pubblico ministero poggiava su un presupposto non corretto concernente la pretesa impossibilità di tenere conto di tutte le invalidità ed ha affermato, coerentemente con le disposizioni del decreto ministeriale all’epoca vigente, che la commissione poteva tenere conto di tutte le invalidità, anche se singolarmente esse apparivano di modesta entità, e doveva esprimere una valutazione complessiva rapportata anche alla specifica attività lavorativa esercitata dai richiedenti.

Si tratta di valutazioni di merito che, essendo sorrette da una motivazione immune da manifeste illogicità, non merita censure sotto il profilo della legittimità.

Appare, infine, opportuno aggiungere che l’indagine ha riguardato un periodo molto ampio di attività della commissione – circa un decennio – e che soltanto i pochi casi in discussione, rispetto ai numerosi trattati, hanno fatto sorgere sospetti, cosicchè, tenuto conto del fatto che non sono nemmeno emersi fatti corruttivi, appare del tutto logica la conclusione della corte di merito che può essersi trattato di meri errori, forse dovuti a negligenza, e non di falsi in atti pubblici, reato che è punito soltanto a titolo di dolo, ancorchè generico.

Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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