Cass. civ., sez. III 15-03-2006, n. 5677 TITOLI DI CREDITO – RISARCIMENTO DEL DANNO – CONCORSO DEL FATTO COLPOSO DEL CREDITORE O DEL DANNEGGIATO – Pagamento a soggetto diverso dal prenditore

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con atto di citazione notificato l’11 ottobre 1995 la s.p.a. S.P.E. – Società Pubblicità Editoriale conveniva avanti al Tribunale di Milano la s.p.a. Credito Italiano, il Monte dei Paschi di Siena e la s.p.a. Poiatti esponendo: di avere effettuato, su richiesta della Poiatti, inserzioni pubblicitarie per lire 62.221.428; di averne richiesto il pagamento apprendendo che nel maggio 1994 la Poiatti aveva consegnato in pagamento due assegni intestati ad essa attrice e non trasferibili, tratti sul Monte dei Paschi di Siena, a Claudio S., suo agente senza rappresentanza, che li aveva incassati presso il Credito Italiano, nonostante la presenza della clausola di intrasferibilità ed ancorché lo S. non avesse titolo per l’incasso.

Tanto premesso in fatto, l’attrice adduceva che nei comportamenti dei convenuti era ravvisabile un illecito e chiedeva la condanna del Credito Italiano e del Monte dei Paschi in solido al pagamento della somma recata dagli assegni, oltre gli interessi legali, nonché subordinatamente la condanna della Poiatti alla ripetizione del pagamento di detta somma, oltre interessi.

Le convenute si costituivano contestando l’avversa domanda e la Poiatti svolgeva anche domanda risarcitoria nei confronti delle due banche. Il Credito Italiano, opportunamente autorizzato, chiamava in causa in manleva lo S., che rimaneva contumace.

L’adito Tribunale con sentenza del 26 luglio 1999 condannava il Credito Italiano a pagare la somma richiesta all’attrice con gli accessori, mentre rigettava la domanda risarcitoria della Poiatti, poneva le spese sopportate da tutte le parti costituite a carico del Credito Italiano, e condannava lo S. a rifondere a detto istituto tutto quanto esso avrebbe dovuto pagare per capitale, interessi e spese.

Contro la sentenza proponeva appello la s.p.a. Unicredito Italiano, già Credito Italiano s.p.a., chiedendone in principalità l’integrale riforma ed in subordine la riforma parziale, il rigetto di ogni avversa pretesa e la condanna della S.P.E., del Monte dei Paschi e della Poiatti alla restituzione di quanto pagato in forza della provvisoria esecuzione della sentenza stessa, oltre, occorrendo, la conferma della statuizione emessa nei confronti dello S.. Nel giudizio si costituivano la s.p.a. S.P.E., la s.p.a. Poiatti ed il Monte dei Paschi di Siena, resistendo al gravame. Il Monte dei Paschi proponeva anche appello incidentale subordinato all’accoglimento dell’appello principale in punto di spese. Lo S. restava contumace.

Con sentenza del 9 marzo 2001 la Corte d’Appello di Milano, in parziale accoglimento dell’appello principale riduceva la condanna dell’Unicredito alla metà della somma capitale oggetto dei due assegni, oltre interessi per come liquidati dal primo giudice. Compensava, inoltre, le spese dei due gradi tra l’Unicredito e la

S.P.E. Inoltre, condannava l’Unicredito e la S.P.E. al rimborso, nella misura del cinquanta per cento ciascuno, all’appellata Poiatti e al Monte dei Paschi di Siena, delle spese del giudizio di primo grado, condannava la S.P.E. alla restituzione all’Unicredito della maggior somma percepita per effetto della esecutività della sentenza impugnata e condannava infine la Poiatti ed il Monte dei Paschi alla restituzione alla Unicredito della maggior somma percepita per effetto di quella esecutività.

2. La sentenza, per quanto ancora in questa sede interessa si fonda sulle seguenti ragioni: i due assegni, emessi con clausola di non trasferibilità dalla Poiatti all’ordine della S.P.E., sul cui illegittimo incasso si fondava l’azione proposta dalla S.P.E. – da ritenersi di natura extracontrattuale nei confronti delle due banche e contrattuale verso la Poiatti – recavano oltre al timbro per il pagamento in stanza di compensazione una sola girata per l’incasso con timbro "Società Pubblicità Editoriale s.p.a." e una sottoscrizione "Claudio S.", che risultava sostanzialmente uguale a quella apposta sulle quietanze rilasciate sulle fatture prodotte dalla Poiatti; risultava allegato dalla Poiatti ed incontestato dalla S.P.E. che la Poiatti, nel corso del pluriennale rapporto corrente dal 1992 aveva pagato i corrispettivi dovuti mediante la materiale consegna allo S. di assegni tratti a favore della S.P.E. senza che quest’ultima si fosse mia lamentata di tale modalità di pagamento prima della vicenda oggetto di lite, onde la Poiatti aveva legittimamene ritenuto che lo S. fosse delegato a ricevere i pagamenti; la Unicredito aveva prodotto fotocopie di otto assegni bancari tratti dallo S. su se stesso e, quindi, girati alla S.P.E. e dalla stessa incassati, nonché di tre assegni emessi direttamente dallo S. a favore della S.P.E. e pure da quest’ultima incassati, nel periodo dal maggio 1993 fino al luglio 1994, ed infine di altri tredici assegni, molti dei quali non trasferibili, di vari traenti e tutti all’ordine della S.P.E., recanti girata per l’incasso sottoscritta dallo S. sotto un timbro riferito alla S.P.E.; tanto documentava, senza che occorresse l’assunzione delle prove dedotte dalla Unicredito, che, pertanto dovevano ritenersi irrilevanti, la verità della sua affermazione che lo S. incassava in proprio gli assegni dei clienti e ne trasferiva poi con proprio assegno il controvalore alla S.P.E.; tale sistema non poteva essere ignoto alla S.P.E., perché di fatto accettava di ricevere, a pagamento dei debiti dei clienti, assegni – anche cumulativi dell’importo di varie fatture – emessi dal suo agente, con ciò implicitamente accettando anche che gli assegni emessi dai clienti fossero incassati dallo S., non potendosi supporre che i clienti pagassero importi di vari milioni in contanti e nemmeno che pagassero con assegni emessi al portatore o privi di beneficiario, essendo nozione comune nella prassi commerciale l’indicazione del prenditore; da tanto si evinceva che, se anche la S.P.E. non aveva autorizzato il suo agente ad incassare a nome della società, tuttavia di fatto aveva tollerato una prassi che, necessariamente implicava che il medesimo incassasse in sua vece gli assegni consegnatigli dai clienti; tale tolleranza, non avendo la S.P.E. nemmeno allegato di avere chiesto chiarimenti al suo agente o alla banca, aveva "sostanzialmente creato una apparenza" che, se assolveva totalmente la Poiatti, riguardo alla Unicredito doveva essere valutata in termini di concorso causale ex art. 1227 cod. civ. nella verificazione del danno di cui la S.P.E. chiedeva il ristoro; sussisteva, infatti, una colpa della S.P.E. "per aver permesso l’instaurarsi di una prassi contraria agli effettivi poteri da lei formalmente attribuiti all’agente, e quindi contraria alla correttezza e buona fede che deve presiedere i rapporti commerciali"; tale prassi rilevava anche nei confronti dell’Unicredito, pur non avendo la S.P.E. "intrattenuto alcun rapporto negoziale diretto", poiché "nella sua sfera giuridico tale apparenza aveva avuto concreti riflessi"; pur essendo stata "la violazione, da parte dell’Unicredito, delle espresse norme che disciplinano l’attività bancaria ed in particolare il pagamento degli assegni non trasferibili [?] causa prima della distrazione compiuta dallo S." e pur non valendo la tolleranza della S.P.E. a scagionare la banca, perché essa "avrebbe dovuto comunque controllare la sussistenza dei poteri di S. e pretenderne la formalizzazione", tale "comportamento colposo della banca [era] stato agevolato proprio dall’apparenza che la S.P.E. aveva anch’essa colposamente – creato non reagendo, ed anzi positivamente accettando, la prassi irregolare che S. aveva impostato"; l’incidenza eziologia delle due condotte colpose doveva essere valutata di pari grado, onde la condanna risarcitoria dell’Unicredito andava ridotta della metà.

3. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi la S.P.E. nei confronti della Unicredito, del Monte dei Paschi e della Poiatti s.p.a.

Ha resistito con controricorso soltanto la Unicredito, che ha notificato l’atto anche a Claudio S.

La ricorrente, nell’imminenza dell’udienza del 10 maggio 2005, nella quale era stata fissata la trattazione del ricorso, ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., indicando questa volta come controparte non costituita Claudio S..

La Corte, con ordinanza pronunciata in detta udienza, in applicazione dell’art. 331 cod. proc. civ., ordinava alle parti di provvedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti dello S., concedendo termine ai sensi dell’art. 371-bis cod. proc. civ.

La società ricorrente provvedeva alla disposta integrazione del contraddittorio e veniva, quindi, fissata la nuova udienza di trattazione.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente va rilevato, a giustificazione della disposta integrazione del contraddittorio, che vi era un problema di integrità del contraddittorio, in quanto il ricorso non era stato notificato dalla ricorrente a Claudio S., nei riguardi del quale è oggetto del giudizio una causa di garanzia introdotta dal Credito Italiano (ora Unicredito), la quale, in dipendenza degli esiti delle fasi di merito del giudizio stesso, assume carattere di causa dipendente da quella principale introdotta dalla s.p.a. Società Pubblicità Editoriale nei confronti della Unicredito. Infatti: nel giudizio di primo grado la domanda di garanzia del Credito italiano venne accolta con la statuizione dell’obbligo dello S. di rifondere a detto istituto tutto quanto esso avrebbe dovuto pagare per capitale, interessi e spese; nel giudizio di appello la condanna pronunciata in primo grado a favore della S.P.E. è stata parzialmente riformata fino alla metà dell’ammontare della condanna disposta in primo grado e, quindi l’obbligazione indennitaria dello S. (correttamente chiamato nel giudizio di appello) statuita in primo grado è risultata corrispondentemente ridimensionata; con il ricorso introduttivo del presente giudizio la S.P.E. postula la cassazione della sentenza d’appello proprio nel punto in cui la condanna dell’istituto bancario è stata ridimensionata e, quindi, poiché dall’accoglimento del ricorso per cassazione resterebbe inciso il ridimensionamento che la riconosciuta manleva a carico dello S. ha subito in appello, la causa di garanzia fra l’istituto ed il medesimo ha natura dipendente ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ. e, quindi, inscindibile, rispetto alla causa principale oggetto del ricorso per cassazione, con la conseguenza che quest’ultimo avrebbe dovuto notificarsi allo S.; è vero che a costui era stato notificato il controricorso dall’istituto resistente, ma tale notifica non equivale a sanatoria dell’omissione in cui è incorsa la ricorrente, perché non è idonea ad assicurare allo S. le garanzie di difesa che gli avrebbe assicurato la rituale notifica del ricorso; ne conseguiva la necessità dell’ordine di integrare il contraddittorio nei confronti dello S., che avrebbe potuto essere evitato solo se egli si fosse costituito all’udienza del 10 maggio 2005 ed avesse rinunciato ad un termine a difesa.

2. Con il primo motivo si lamenta "violazione della norma di cui all’art. 43 r.d. 31 dicembre 1933, n. 1736 in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.", nonché "insufficiente e/o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., circa l’addebito solo parziale ad Unicredito della responsabilità dei fatti".

Il motivo viene illustrato adducendosi che inesattamente si sarebbe ritenuto il concorso di colpa di essa ricorrente nella causazione del danno, sotto il profilo che non poteva ignorare la conoscenza della prassi che si era creata fra il suo agente S. e la Uni-credito, in quanto i pagamenti avvenivano tramite la consegna allo S. di assegni non trasferibili emessi a favore della S.P.E. e lo S. li depositava in un proprio conto corrente per trasferirli in un momento successivo sul conto della S.P.E.

Tale ragionamento sarebbe infondato, in quanto essa ricorrente non poteva sapere cosa avveniva presso la filiale dell’Unicredito di Mazara del Vallo.

Era, invece, responsabile solo la Unicredito che aveva incassato gli assegni nonostante che essi fossero intestati ad essa ricorrente e con la clausola non trasferibile, senza neppure contattare quest’ultima informalmente allo scopo di verificare l’eventuale esistenza di un’autorizzazione all’incasso a favore dello S.. Tale responsabilità discendeva dall’art. 43 del r.d. n. 1736 del 1933 e la negligenza della Unicredito era stata ancora più grave, tenuto conto che la sua qualità di istituto bancario, ai sensi dell’art. 1176 cod. civ., imponeva una particolare cura nello svolgimento delle mansioni.

Con un secondo motivo si deduce "errata, insufficiente e/o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., relativa alla presunta colpa della S.P.E. ed errata applicazione dell’art. 1227 cod. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.", sotto il profilo che la S.P.E. avrebbe tollerato una prassi, implicante che lo S. incassasse al posto suo gli assegni, così creando un’apparenza, che costituiva concorso causale agli effetti dell’art. 1227 cod. civ. Viceversa, la semplice apparenza della legittimazione del rappresentante non vale a supplire alla legittimazione effettiva. D’altro canto, il principio dell’apparenza può invocarsi in tema di rappresentanza solo in presenza di elementi obiettivi atti a giustificare l’opinione del terzo che contratta con il falsus procurator in ordine alla corrispondenza fra situazione apparente e situazione reale [viene citata Cass. n. 10709 del 1991]. Una simile situazione non ricorreva, tenuto conto che lo S. versava gli assegni su un suo conto e che trattavasi di assegni non trasferibili.

La Banca resistente non poteva essere caduta in alcun inganno, perché aveva pagato scientemente due assegni non trasferibili ad un soggetto completamente diverso dal beneficiario. Né la conclusione potrebbe essere diversa, ove per assurdo lo S. si considerasse legale rappresentante della S.P.E., poiché nemmeno in quella veste avrebbe potuto versare su un suo conto personale assegni non trasferibili intestati alla società che rappresentava.

Con un terzo motivo viene dedotta "errata applicazione degli artt. 167, 342 e 343 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.", nonché "Insufficiente e/o contraddittoria e/o omessa motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., relativa al capo della sentenza che ha posto a carico della S.P.E. le spese di lite della Poiatti e del Monte dei Paschi di Siena", assumendosi che tale statuizione sarebbe frutto di ultrapetizione, in quanto dette parti non avevano chiesto in appello che le spese fossero poste a carico della S.P.E. La Poiatti aveva anzi chiesto la conferma della sentenza di primo grado. Il Monte dei Paschi, poi, non si sarebbe nemmeno costituito nei termini in appello. Inoltre la condanna a favore di detti soggetti al pagamento delle spese risultava iniqua ed inspiegabile, in quanto essa ricorrente, come risultava dalla documentazione prodotta aveva inutilmente chiesto, per oltre due anni prima del giudizio, copia della documentazione necessaria per agire.

3. Il primo ed il secondo motivo, data la loro stretta connessione, possono trattarsi congiuntamente e sono fondati.

Essi pongono due questioni di violazione di norme dì diritto e connesse questioni relative a vizi ai sensi del n. 5 dell’art, 360 cod. proc. civ.

La prima questione ex n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. concerne la violazione dell’art. 43, primo e secondo comma, del r.d. n. 1736 del 1933 (legge sull’assegno) sotto il profilo che, nel ritenere l’esistenza di un concorso di colpa della S.P.E., nella causazione del danno derivante dal pagamento dei due assegni con clausola di "non trasferibilità" a soggetto diverso dal prenditore, legittimato in base a tale clausola, l’impugnata sentenza avrebbe sostanzialmente disapplicato quella norma.

La prospettazione della ricorrente non è (o almeno non lo è in modo esplicito) nel senso che la verificazione della fattispecie di cui al suddetto art. 43 escluderebbe in radice la possibilità di ritenere che con l’attribuzione della responsabilità per il pagamento dell’assegno a carico di chi l’ha pagato in violazione della clausola possa concorrere la responsabilità dello stesso soggetto indicato come prenditore ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., bensì nel senso che nella specie l’art. 43 sarebbe stato disapplicato, o meglio parzialmente disapplicato, là dove la Corte territoriale avrebbe sussunto erroneamente la fattispecie concreta verificatasi nell’ambito della nozione di concorso del fatto colposo del danneggiato, di modo che avrebbe conseguentemente applicato, in funzione ridimensionatrice della responsabilità di cui all’art. 43, un concorso di colpa che in realtà non c’era.

Anche la seconda questione ex n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., evocata dal secondo motivo, è prospettata adducendosi sostanzialmente che, pur ipotizzando la possibilità dì quel concorso, essa nella specie sarebbe stata erroneamente ritenuta in quanto il comportamento colposo individuato come determinativo del pagamento dell’assegno in violazione dell’art. 43 sarebbe stato erroneamente identificato nella creazione di una situazione di apparenza.

Alle censure di violazione di legge si accompagnano – come s’è detto – corrispondenti profili di vizio di motivazione.

3.1. Ai fini dello scrutinio delle censure così individuate sono preliminari alcune precisazioni, che il Collegio deve formulare ravvisando punti della vicenda pacificamente risultanti in fatto o da ritenersi ormai coperti da giudicato interno, non essendo stati oggetto di alcuna impugnazione con il ricorso per cassazione.

Sotto il primo aspetto è pacifico, per quanto emerge dalla sentenza e non è stato posto in discussione dalle parti costituite (che anzi lo hanno confermato) che i due assegni di cui trattasi, emessi con clausola "non trasferibile" all’ordine della S.P.E., vennero presentanti e girati per l’incasso all’Istituto qui resistente con una firma di Claudio Sfuriano apposta dopo un timbro riferito alla S.P.E. e vennero accreditati su un conto corrente dello stesso Claudio S.. L’Istituto resistente, dunque, non si limitò a ricevere per l’incasso gli assegni e, quindi, ad assumere l’incarico di presentarlo nell’apposita stanza di compensazione alla banca trattarla e neppure provvide ad accreditarne gli importi su un contro corrente riferibile alla prenditrice ed esistente presso di sé. Non tenne, dunque, un comportamento confacente ai limiti di circolazione imposti dalla clausola di non trasferibilità e previsti dal primo comma dell’art. 43, ma provvide nella sostanza a pagarli allo S. e, quindi, a soggetto diverso dalla prenditrice e dall’autore, almeno formale, della girata per l’incasso, che figurava essere proprio la prenditrice, in ragione del timbro di cui si è detto.

Ne consegue che è pacifico che con tale comportamento l’Unicredito realizzò certamente la condotta individuata dal secondo comma dell’art. 43, che prevede che «colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso, risponde del pagamento». Tale norma, infatti, va posta in relazione al primo comma della norma, che, stabilisce a sua volta che «l’assegno emesso con la clausola "non trasferibile" non può essere pagato, se non al prenditore o, a richiesta di costui accreditato nel suo conto corrente. Questi non può girare l’assegno, se non ad un banchiere per l’incasso, il quale non può ulteriormente girarlo».

ÿ evidente che nell’ipotesi del pagamento a persona diversa dal prenditore rientra certamente il caso in esame, nel quale l’accreditamento degli assegni nel conto dello S. è equivalso ad un sostanziale pagamento ad un soggetto diverso dal prenditore, cioè dalla S.P.E.

Sotto il secondo aspetto innanzi indicato si rileva che, poiché né la ricorrente né alcuna altra delle partì hanno proposto sul punto impugnazione, l’affermazione fatta dalla sentenza impugnata che l’azione proposta dalla S.P.E. contro l’Unicredito è di natura extracontrattuale (a differenza di quelle proposte contro il Monte dei Paschi e la Piatti), deve ritenersi coperta da giudicato interno. La sua interpretazione da parte di questo Collegio comporta che l’azione contro l’Unicredito si debba ritenere qualificata giuridicamente dalla Corte territoriale come azione fondata sulla norma generale dell’art. 2043 cod. civ.

3.2. Ritenuto questo inquadramento, poiché l’art. 1227 cod. civ. è richiamato dall’art. 2056 cod. civ. in tema di responsabilità da illecito aquiliano (da ultimo Cass. n. 564 del 2005), deve affermarsi che sia astrattamente concepibile che in relazione ad un illecito ex art. 43, secondo comma, citato possa configurarsi un concorso di colpa nella causazione del danno, cioè dell’evento del pagamento a soggetto diverso dal prenditore, da parte di quest’ultimo. Per l’applicazione dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., è, però, necessario che ne ricorrano le condizioni ed in particolare che il fatto colposo del danneggiato abbia svolto un’efficacia causale concorrente nella determinazione del danno.

Al riguardo, va ricordato che secondo la dottrina ed anche la giurisprudenza il fatto colposo del danneggiato, idoneo a diminuire l’entità del risarcimento secondo la previsione dell’art 1227 primo comma cod. civ., comprende qualsiasi condotta negligente od imprudente che costituisca causa concorrente dell’evento, e, quindi, non soltanto un comportamento coevo o successivo al fatto illecito, ma anche un comportamento antecedente, purché legato da nesso eziologico con l’evento medesimo (Cass. n. 2861 del 1979).

Ora, quando il fatto colposo del danneggiante è antecedente al fatto illecito, cioè all’inadempimento ed alle sue conseguenze dannose nella responsabilità contrattuale ed alla condotta integrante il fatto ingiusto di cui all’art. 2043 cod. civ. ed alle sue conseguenze nella responsabilità extracontrattuale, la sua efficacia di concausa del danno cagionato dall’illecito, se è indubbio che possa estrinsecarsi con riferimento al danno-conseguenza della condotta di inadempimento o della condotta realizzante il fatto ingiusto, può altrettanto indubbiamente estrinsecarsi anche direttamente rispetto alla condotta costituente l’illecito, cioè può giocare ed essere apprezzata come concausa della condotta di inadempimento stesso o di quella determinativa del fatto ingiusto, id est come concausa delle relative condotte illecite.

Tale efficacia concausale direttamente estrinsecatesi nella determinazione della condotta di inadempimento o della condotta integrante il fatto ingiusto di cui all’art. 2043 cod. civ. deve, però, essere tale, cioè deve assumere il ruolo di concausa e non di causa esclusiva. Se così non fosse, evidentemente l’inadempimento (o il ritardo nell’adempimento) in conseguenza dei quali nella responsabilità contrattuale si fosse verificata l’impossibilità della prestazione, apparirebbe determinato da una causa non imputabile al debitore e, quindi, verrebbe meno la sua responsabilità, mentre nel caso della responsabilità ex art. 2043 cod. civ. il danno non apparirebbe determinato in alcun modo da una condotta (almeno) colpevole del danneggiante, poiché difetterebbe l’elemento soggettivo dell’illecito.

3.3. Ciò premesso, rileva il Collegio che il primo motivo, apprezzato tanto ai sensi del n. 3 che del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., è fondato, là dove si lamenta che si sia dato rilievo ad un preteso fatto colposo del danneggiato, cioè della S.P.E., sussumendo sotto la relativa nozione una fattispecie concreta che non presentava affatto i caratteri del fatto colposo del danneggiato.

Invero, il fatto dell’agente che presenta alla sua banca, cioè alla banca presso la quale egli ha un conto corrente, assegni con clausola "non trasferibile" intestati alla società preponente e li giri per conto della stessa, cioè agendo come suo rappresentante, ma chiedendo ed ottenendo dalla banca l’accredito su un suo conto corrente, ed il fatto che alla banca stessa risulti che successivamente l’agente emetta assegni sul suo conto a favore della preponente senza che la preponente faccia alcuna rimostranza, non sono, pur valutati unitariamente, in alcun modo idoneo a dimostrare che la preponente abbia conosciuto tutto questo procedimento e, quindi, lo abbia tollerato, come dice la sentenza impugnata, così realizzando una condotta concorrente colposa nella causazione del danno derivante dal pagamento degli assegni a persona diversa dal prenditore.

ÿ sufficiente osservare che la verificazione di questo complesso procedimento non appare in alcun modo riferibile nella sua interezza alla ricorrente.

Solo la ricezione di assegni in pagamento da parte dello S. e la circostanza che il suo agente fosse legittimato a farsi rilasciare assegni non trasferibili in pagamento di forniture effettuate dalla S.P.E. sono fatti riferibili alla medesima. Non è fatto riferibile alla S.P.E. la determinazione della conoscenza da parte dell’Unicredito di tali circostanze o almeno la sentenza non lo assume. Non è fatto riferibile alla S.P.E. o almeno la sentenza impugnata non lo sostiene l’apposizione di una girata per l’incasso con il suo timbro a firma dello S.. E non è fatto riferibile alla S.P.E. che lo S. incassasse gli assegni sul suo conto corrente.

La sentenza impugnata ha, in realtà, desunto la riferibilità di queste ultime tre circostanze dal fatto che successivamente all’accredito sul suo conto corrente lo S. emetteva assegni a favore della S.P.E.

Ma non è dato comprendere quale massima di esperienza possa giustificare l’attribuzione di tale valore a questo comportamento dello S.. Non è dato cioè individuare alcun collegamento fra i pagamenti eseguiti dallo S. e la tolleranza da parte della S.P.E. del complesso procedimento descritto. Ciò, per la semplice ragione che resta del tutto oscuro ed indimostrato che la S.P.E. conoscesse ciò che si collocava a monte rispetto al pagamento eseguito in suo favore dallo S..

Né è dato comprendere come la sentenza impugnata possa imputare alla S.P.E. di non avere chiesto chiarimenti al suo agente ed alla banca. Anche una simile richiesta di chiarimenti allo S. comportava la conoscenza da parte della S.P.E. del pagamento da parte della clientela tramite assegni con clausola "non trasferibile" e della successiva vicenda cui lo S. dava corso. Né tale conoscenza e, quindi, una conseguente tolleranza, si può evincere, alla stregua dell’art. 2729 cod. civ., dalla mera circostanza – riferita dalla sentenza impugnata (p. 12) – che, secondo le condizioni generali di contratto vigenti tra la S.P.E. ed i suoi clienti prevedevano che il pagamento avvenisse tramite tratte-ricevute bancari o direttamente alla società o a persona dalla stessa espressamente delegata. Proprio la previsione di varie condizioni di pagamento e non di una condizione di pagamento tramite assegni con clausola "non trasferibile", palesa semmai che la S.P.E., nel ricevere i pagamenti direttamente dallo S. tramite suoi assegni non poteva supporre che ad esso fossero rilasciati assegni con quella clausola e che essi fossero stato da lui gestiti come in concreto avvenuto. Semmai, il comportamento di ricezione da parte della S.P.E. potrebbe essere idoneo a giustificare la conclusione che lo S. fosse legittimato a ricevere direttamente i pagamenti quale persona delegata. Ma ciò non toglie che, ricevuti in pagamento gli assegni con la nota clausola dallo S. e presentati dal medesimo gli stessi, l’Unicredito non aveva alcuna ragione per consentirne l’appropriazione da parte dello S. mediante l’accredito sul suo conto corrente.

Con riferimento alla mancanza di richiesta di chiarimenti all’Unicredito, i rilievi appena svolti evidenziano che non è dato comprendere sulla base di quali elementi la S.P.E. nel ricevere i pagamenti tramite assegni dello S. potesse esser messa a conoscenza della singolare prassi seguita dallo S. e dalla banca.

§3.4. Il primo motivo è, dunque, fondato sia in relazione alla censura ex n. 3 (per erronea sussunzione di fattispecie concreta) che a quella ex n. 5 dell’art.

360 (per motivazione assolutamente insufficiente) e la sentenza impugnata va cassata.

Il giudice di rinvio, nel decidere la controversia, escluderà la sussistenza del concorso di colpa della S.P.E. nel pagamento da parte dell’Unicredito dei due assegni non trasferibili, ravvisato nella condotta di tolleranza della prassi di cui si è detto, desunta dalle circostanze considerate dalla sentenza impugnata ed in particolare dal fatto che la S.P.E. riceveva somme riferibili a pagamenti effettuati dalla clientele dalla clientela tramite assegni emessi dallo S.. Tale circostanza non dovrà dal giudice di rinvio essere considerata in alcun modo idonea a dimostrare l’esistenza di un concorso di colpa della S.P.E. sì da giustificare il ridimensionamento della responsabilità dell’Unicredito ai sensi dell’art. 43 più volte citato.

4.1. Anche il secondo motivo è fondato, là dove assume direttamente la violazione dell’art. 1227, primo comma, cod., civ.

L’errore di applicazione diretta di questa norma, già evidenziato con le considerazioni che precedono in funzione della violazione dell’art. 43, è ancora più manifesto se si considera specificamente la qualificazione giuridica che la sentenza impugnata ha attribuito al preteso fatto colposo della S.P.E.

Tale qualificazione, nell’assunto della sentenza, è rappresentato dalla determinazione da parte della S.P.E. di una situazione di apparenza e, quindi, di affidamento della Unicredito, circa il convincimento che la S.P.E. tollerasse e, quindi, nulla avesse da obiettarvi, il comportamento dello S. di far accreditare assegni non trasferibili sul suo conto e poi riversare le somme alla S.P.E. In tal modo, infatti, la Corte milanese ha nel contempo considerato la posizione dell’Unicredito come quella di un soggetto colpevole (per non avere osservato l’art. 43 più volte citato) e tuttavia legittimamente affidato e, quindi, esente da colpa ed in buona fede per fatto del danneggiato.

Senonché, nella recente giurisprudenza di questa Corte (si vedano: Cass. n. 10133 del 2004; n. 23199 del 2004) si è sottolineata l’incompatibilità fra l’apparenza determinativa di un affidamento in un terzo ed il concorso colposo del medesimo nella causazione di un evento dannoso, ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ.

Sulla scorta di tali precedenti, enunciati a proposti dell’apparenza di potere rappresentativo, ma validi in generale, deve affermarsi che il concorso del fatto colposo del creditore ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ. nella causazione di un illecito, contrattuale od extracontrattuale, non può consistere nell’avere determinato costui nel danneggiaste la percezione di una situazione di apparenza del diritto, che avrebbe giuocato rilievo concausale nella causazione dell’illecito. Infatti, postulando il rilievo della creazione della situazione di apparenza la determinazione di una situazione riconducibile al generale principio dell’affidamento incolpevole ed essendo, quindi, presupposto per la sua configurabilità che il soggetto, il quale versi in una situazione nella quale fa leva sull’affidamento indotto dall’apparenza da altri creata, non sia in colpa, per l’evidente incompatibilità logica che altrimenti vi sarebbe con la posizione soggettiva di affidamento, non è concepibile che la determinazione della situazione di apparenza possa assumere la funzione di concausa rispetto all’inadempimento (o al ritardo nell’adempimento) del debitore o al fatto ingiusto ex art. 2043 cod. civ., assistiti a loro volta dall’elemento soggettivo e, quindi, almeno dalla colpa, non potendo chi è in colpa essere nel contempo incolpevolmente affidato.

Avendo la sentenza ritenuto che l’Unicredito ha comunque tenuto un comportamento colpevole per non avere osservato il precetto di cui all’art. 43 circa la circolazione degli assegni è, dunque, palese che non poteva nel contempo ritenere che essa si fosse trovata in una situazione di affidamento incolpevole indotta dalla S.P.E., stante l’ontologica incompatibilità fra le due situazioni.

La (pretesa) situazione di apparenza creata dalla S.P.E. – ove fosse stata configurabile: cosa, peraltro, come si è visto, palesemente esclusa dalle considerazioni svolte in riferimento al primo motivo – avrebbe potuto essere utilizzata solo per motivare l’esclusione di qualsiasi responsabilità dell’Unicredito e, quindi, solo se la stessa fosse stata ritenuta esente da colpa, proprio in ragione della (pretesa) situazione di apparenza.

La sentenza impugnata va, pertanto, cassata sulla base del seguente principio di diritto: «il concorso del fatto colposo del creditore ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ. nella causazione di un illecito, contrattuale od extracontrattuale, non può consistere nell’avere determinato costui nel danneggiante la percezione di una situazione di apparenza del diritto, che avrebbe giuocato rilievo concausale nella causazione dell’illecito, giacché, postulando il rilievo della creazione della situazione di apparenza la determinazione di una situazione riconducibile al generale principio dell’affidamento incolpevole ed essendo,

quindi, presupposto per la sua configurabilità che il soggetto, il quale versi in una situazione nella quale fa leva sull’affidamento indotto dall’apparenza, non sia in colpa, per l’evidente incompatibilità logica che altrimenti vi sarebbe con la posizione soggettiva di affidamento, che per definizione dev’essere di incolpevolezza, non è concepibile che la determinazione della situazione di apparenza possa assumere la funzione di concausa rispetto all’inadempimento (o al ritardo nell’adempimento) del debitore o al fatto ingiusto ex art. 2043 cod. civ., assistiti a loro volta dall’elemento soggettivo e, quindi, almeno dalla colpa».

I rilievi svolti a proposito de primo motivo evidenziano, come si è già accennato, che la situazione di apparenza è stata, inoltre, anche erroneamente ritenuta sussistente in fatto con motivazione del tutto insufficiente e contraddittoria, donde la fondatezza del profilo del motivo riconducibile al n. 5 dell’art. 360.

5. L’accoglimento del primo e del secondo motivo, determinando la cassazione della sentenza impugnata, comportano l’assorbimento del terzo, poiché le statuizioni in ordine alle spese restano travolte, in quanto dipendenti dai punti dalla statuizione circa il concorso di colpa censurata con l’accoglimento di detti motivi.

6. Al giudice di rinvio è rimessa la sulle spese del giudizio dì cassazione.

P. Q. M.

La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso. Assorbito il terzo. Cassa la sentenza e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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