Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-05-2011) 03-10-2011, n. 35773 Reati commessi a mezzo stampa diffamazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 19 febbraio 2010 il Tribunale di Tivoli in composizione monocratica, confermando la decisione assunta dal giudice di pace di Subiaco, ha riconosciuto B.C. responsabile del delitto di diffamazione in danno di M. V., al quale aveva indirizzato, presso il Comune di Anticoli Corrado ove era sindaco, una lettera aperta con cui gli domandava se avesse venduto una porzione di area demaniale; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

Ha ritenuto il giudicante che la domanda contenuta nella missiva fosse retorica e che vi fosse sottintesa l’accusa di aver agito al di fuori della legalità.

Ha proposto personalmente ricorso per cassazione l’imputato, affidandolo a tre motivi.

Col primo motivo il ricorrente rinnova in questa sede l’eccezione con cui, rilevata la menzione dell’art. 595 c.p., comma 3 nel capo d’imputazione riportato nella sentenza di condanna, aveva eccepito l’incompetenza per materia del giudice di pace; osserva che, nel corso della prima udienza, il pubblico ministero aveva modificato il capo d’imputazione escludendo la menzionata aggravante, ma il giudice non ne aveva poi tenuto conto, pronunciando condanna per la fattispecie aggravata.

Col secondo motivo il B. lamenta che la propria condanna si sia basata su un giudizio meramente probabilistico, e non di certezza, circa la sua intenzione di rendere pubblico – attraverso l’ostensibilità dello scritto a tutti i dipendenti del Comune – il contenuto della lettera indirizzata al M..

Col terzo motivo sottopone a critica la deposizione testimoniale del segretario comunale, cui rimprovera di aver asserito che la lettera conteneva un’accusa al sindaco, mentre invece il testo recava una mera domanda.

Motivi della decisione

Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso.

La menzione dell’art. 595 c.p., comma 3 – in rapporto a una fattispecie cui l’utilizzo del mezzo della stampa è rimasto, incontestabilmente, estraneo – nel capo d’imputazione trascritto nella sentenza di primo grado e riprodotto, per traslazione, in quella di appello, è l’evidente frutto di un errore materiale;

infatti già in apertura del dibattimento di prime cure il pubblico ministero aveva espressamente rettificato l’imputazione, circoscrivendo la contestazione ai primi due commi dell’art. 595 c.p.; e il giudice di pace ne aveva preso atto anche ai fini della competenza per materia. Non trova riscontro nella sentenza di primo grado l’affermazione del ricorrente, secondo cui il giudice di pace avrebbe poi omesso di tener conto della modifica dell’imputazione:

tant’è che la pena inflitta è di natura pecuniaria, mentre la diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato (comunque di competenza del Tribunale) avrebbe comportato l’applicazione congiunta della pena detentiva e di quella pecuniaria, ai sensi della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13.

La sentenza di appello, nel negare che il giudice di pace avesse varcato i limiti della sua competenza, non è incorsa in alcuna contraddittorietà; la motivazione addotta, invero, ha valorizzato la modifica dell’imputazione e il conseguente contenimento dell’accusa – cui si è attenuta la pronuncia del giudice di primo grado – entro i limiti fissati dal D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 4, comma 1, lett. a). Non ha invece attribuito alcuna rilevanza al persistente riferimento all’art. 595 c.p., comma 3, contenuto nel capo d’imputazione: riferimento che, come già rilevato, è il frutto di un errore materiale, evidentemente sfuggito a quel giudicante e che deve essere, quindi, corretto in questa sede di legittimità come richiesto dal Procuratore Generale in udienza.

Circa la configurabilità, nella fattispecie, del delitto di diffamazione, non è ravvisablle nella sentenza impugnata alcuna violazione dell’art. 595 c.p.. Il Tribunale, invero, non ha mancato di interrogarsi in ordine al requisito della "comunicazione con più persone", richiesto perchè possa dirsi integrato il reato in questione; ed è pervenuto a giudizio affermativo in base al rilievo per cui la lettera oggetto di contestazione era stata inviata aperta e indirizzata al M. presso il Comune di Anticoli Corrado, al chiaro scopo di renderne ostensibile il contenuto ai diversi impiegati municipali, dalle cui mani sarebbe dovuta necessariamente transitare prima di essere consegnata al destinatario. Il convincimento così raggiunto dal Tribunale, frutto di un’argomentata valutazione delle emergenze fattuali, appartiene al giudizio di merito e non può essere sindacato in sede di legittimità.

Il contenuto diffamatorio della missiva risiede nella apparente domanda (che, tuttavia, nel contesto dello scritto assume il chiaro valore di un atto d’accusa) volta ad appurare se il sindaco avesse venduto un’area demaniale, così prospettando un comportamento gravemente illecito da parte del M.. La valutazione della portata lesiva competeva, evidentemente, al giudice e non al teste C.M.: la cui deposizione testimoniale è valsa soltanto a dar conto dello sconcerto destato nel segretario comunale dalla lettura di quello scritto; ma l’avere valorizzato le affermazioni del teste, per dedurne le conseguenze riversatesi sulla reputazione del sindaco, è operazione logico-giuridica del tutto legittima, che non integra alcun vizio di travisamento della prova da parte del Tribunale.

In argomento corre l’obbligo di ricordare che, ai fini del controllo del giudice di legittimità sulla motivazione, il vizio deducibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) è solo l’errore revocatolo (sul significante), in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione (sulle premesse): mentre ad esso è estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per "brani" nè fuori dal contesto in cui è inserito. Ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità, se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa: e che pertanto restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Cass. 11 gennaio 2007 n. 8094).

Il rigetto del ricorso, che inevitabilmente consegue a quanto fin qui osservato, comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Va nel contempo disposta, come già visto, la correzione dell’errore materiale contenuto nell’intestazione della sentenza. Non vi è luogo, invece, per la correzione chiesta dal B. e avente ad oggetto l’errore materiale in cui egli sarebbe incorso nell’eleggere il domicilio nell’intestazione del proprio ricorso: trattasi, invero, di atto di parte, la cui rettifica esula dalla previsione dell’art. 130 c.p.p..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Corregge l’epigrafe della sentenza impugnata, eliminando il riferimento al comma terzo dell’art. 595 c.p..

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di rito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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