Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 06-04-2011) 03-10-2011, n. 35698 Vendita di prodotti industriali con segni mendaci

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Genova con sentenza del 19 maggio 2010 ha confermato la sentenza del 12 marzo 2008 del Tribunale di Genova, che aveva condannato S.A. per il reato di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, p. 49 e all’art. 517 c.p., per avere importato ai fini della commercializzazione prodotti recanti fallaci indicazioni di provenienza, in particolare presentando alla Dogana di Genova per l’importazione definitiva 1050 cartoni contenenti forni elettrici, provenienti dalla Cina, già confezionati per la vendita al minuto e riportanti un’etichetta con la dicitura "Johnson Elettrodomestici spa Italy", senza altra indicazione circa l’origine dei prodotti, fatto accertato in Genova, il 5 agosto 2004.

L’imputata, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendo l’annullamento per i seguenti motivi:

1. Erronea applicazione della normativa art. 606 c.p.p., lett. b). Il Giudice di appello avrebbe ritenuto che la denominazione del marchio della società fosse idonea a trarre in inganno il consumatore. La nuova fattispecie introdotta dalla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49 bis così come introdotto dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, ha stabilito una sanzione amministrativa pecuniaria, qualora l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, avvenga con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana. Infatti secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale per "provenienza o "origine" si deve intendere la provenienza del bene da un certo imprenditore, fornendo al marchio il compito di creare un collegamento non territoriale, ma di garanzia tra il prodotto e produttore. Ciò perchè non c’è un obbligo di indicazione del luogo estero di fabbricazione del prodotto e l’utilizzo "ingannevole" del marchio da parte del titolare potrebbe configurare solamente un illecito amministrativo e non penale. Poichè la ricorrente è titolare del marchio "Johnson Italy", non sussiste alcun comportamento idoneo ad ingannare il consumatore.

2. Manifesta illogicità della motivazione art. 606 c.p.p., lett. e).

Il giudice ha ritenuto sussistente l’elemento psicologico nonostante dal dibattimento fosse emerso che l’assenza della dicitura "made in PRC" era dipesa da un errore attribuibile al produttore cinese, in quanto l’imputata aveva dato indicazioni al fornitore cinese di apporre la dicitura "made in PRC". Tale circostanza risultava provata dalla mail pervenuta dalla produttore Cinese nella quale lo stesso confermava l’errore scusandosi dell’accaduto. Da tali risultanze probatorie non si riesce quindi a comprendere come l’organo Giudicante abbia potuto concludere con assoluta certezza che la circostanza "non sia stata frutto di un errore bensì di una precisa indicazione dell’importatore". Secondo il giudice l’aver autorizzato lo spedizioniere a presentare la dichiarazione per importazione del prodotto lasciava trasparire la coscienza e volontà di sdoganare la merce priva dell’etichetta sull’origine, come se fosse possibile per l’importatore visionare tutta la merce prima della importazione della stessa.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’omessa indicazione del luogo di fabbricazione degli oggetti prodotti all’estero su cui siano apposti marchi di aziende italiane, prevista come delitto dalla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, a seguito della modifica apportata dalla L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 17, comma 4, lett. a), non è più prevista dalla legge come reato, ma configura l’illecito amministrativo di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49 bis, (in tal senso, vedi Sez. 3, n. 19746 del 9/2/2010, P.M. in proc. Follieri, Rv. 247486).

Difatti, già prima dell’entrata in vigore della L. 23 luglio 2009, n. 99, si era ritenuto che, di regola, ai sensi dell’art. 517 cod. pen. e della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, (anche a seguito della modificazione apportata dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 9), relativamente ai prodotti industriali, per "provenienza ed origine" della merce non deve intendersi la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, ma la provenienza da un determinato imprenditore, il quale è responsabile della produzione e garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti (ex multis, Sez. 3, n. 166 del 28/9/2007, Parentini;

Sez. 3, n.8684 del 24/1/2007, P.M. in proc. Emili, Rv.236087). Il marchio, registrato o meno, si configura quindi come segno distintivo del prodotto e la sua funzione non è stata modificata neppure dal fatto che attualmente molti imprenditori italiani si avvalgono di imprese situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintivo (cfr. Sez. 3, n. 13712 del 17/2/2005, Acanfora, Rv. 231831); nè è richiesto dalla disciplina del marchio l’indicazione del luogo di fabbricazione (cfr.

Sez. 3, n. 3352 del 21/10/2004, Scarpa, Rv. 231110). Quindi il reato è configurabile solo se, oltre al proprio marchio o alla indicazione della località in cui ha la sede, l’imprenditore faccia apporre anche una ulteriore dicitura che attesti la fabbricazione in Italia del prodotto: in tali casi la falsa apposizione del marchio "made in Italy" o "prodotto in Italia" sarà punita ai sensi della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, mentre la falsa attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un altro paese risulterà punita ai sensi dell’art. 517 c.p..

Poichè risulta evidente, nel caso di specie, che la merce presentata per lo sdoganamento recava nella confezione solo l’etichetta del marchio registrato riferibile alla ditta della ricorrente e nessuna indicazione circa il luogo della fabbricazione dei prodotti, tale mancanza, di per sè, per la ragioni appena esposte, non costituisce più reato.

Per completezza si precisa comunque che la Corte, pur avendola esaminata, contraddittoriamente, non ha tenuto nel debito conto il contenuto della documentazione acquisita al processo, dalla quale emergevano non solo le prescrizioni richieste dalla ditta importatrice ai fabbricanti circa la necessità di apporre nella merce anche la scritta "made in PRC on the appliances", ma le note di protesta (tra cui la e-mail del 3/8/2004) da parte della ditta importatrice, una volta riscontrata la mancanza di tale indicazione.

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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