Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 21-09-2011) 04-10-2011, n. 35897

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 27 Novembre 2009 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Cagliari ha condannato il Sig. A. alla pena di dieci anni di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, determinato nella somma di 100.000,00 Euro, in relazione al reato previsto dall’art. 81 cpv, art. 609 bis e art. 609 ter c.p., commi 1 e 2, commesso a partire dall’estate 1999 al mese di novembre 2005 in danno della figlia minore di età. Il Giudice riteneva accertati i fatti sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dalla madre della stessa, nonchè dagli esiti della consulenza effettuata sulla minore.

Con i motivi di appello il Sig. A. ha contestato la credibilità del racconto della minore e lamentato evidente carenze istruttorie, essendo stati omessi accertamenti decisivi quali l’assunzione delle dichiarazioni delle amiche della minore e della di lui convivente, quali un accertamento sui genitali maschili, che avrebbe evidenziato la presenza di tatuaggi mai descritti dalla minore, quali gli approfondimenti in ordine alle violenze che avrebbe subito la sorella della minore, F., in anni precedenti.

La Corte di appello di Cagliari ha respinto tutte le censure e confermato la prima decisione. Con ampia e dettagliata motivazione (pagine 5 e seguenti), la Corte territoriale ha ricostruito la genesi del racconto della minore, che si colloca all’interno di un percorso psicoterapico avviato a causa di una situazione di profondo disagio che la stessa viveva, e quindi esaminato in modo puntuale gli aspetti relativi all’attendibilità di tale racconto e quelli relativi al racconto che la madre ha effettuato con riferimento agli abusi subiti dall’altra figlia, F., e alle ragioni per cui ritenne di accettare la richiesta dell’imputato di tenere presso di sè l’attuale persona offesa. La Corte non ha omesso, poi, di affrontare (pag. 11 e 12) il tema delle lamentate carenze probatorie, illustrando le ragioni di non rilevanza degli accertamenti che l’appellante afferma sarebbero stati decisivi per dimostrare la sua innocenza.

Avverso tale decisione il Sig. A. propone ricorso personalmente.

Con primo motivo lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva in relazione al disposto dell’art. 606 c.p.p., lett. d) con riferimento a più elementi di prova: assunzione delle dichiarazioni della madre della minore e della convivente del ricorrente; ispezione corporale del ricorrente.

Con secondo motivo lamenta vizio di motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), sussistendo una decisiva contraddittorietà tra quanto emerso in atti e quanto ritenuto in sentenza con riferimento alle dichiarazioni della minore circa la presenza o meno di un tatuaggio sul pene del ricorrente, con riferimento agli esiti della consulenza psicologica effettuata sulla minore, con riferimento alla personalità "conflittuale" della minore stessa.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

Con riferimento alla mancata assunzione di prove decisive, la Corte non può non concordare coi giudici di merito quando osservano che il ricorrente ha chiesto di essere ammesso al rito abbreviato senza condizionarlo all’assunzione delle prove che successivamente afferma essere decisive con riferimento a circostanze che egli avrebbe potuto valutare tali a seguito della lettura degli atti. Tuttavia, i giudici di merito non hanno rinunciato ad esaminare nel merito le censure dell’appellante ed esposto in modo coerente e logico le ragioni che escludono la rilevanza in concreto degli accertamenti richiesti, sui quali è possibile giungere a vantazioni in base agli elementi già presenti in atti; sul punto si rinvia alle pagine 4-6 della motivazione.

Quanto al secondo motivo di ricorso, la Corte non ravvisa alcuna evidente contraddittorietà della motivazione o una sua manifesta illogicità, unici vizi che potrebbero comportare l’annullamento della decisione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

La decisione di appello, infatti, affronta in modo chiaro il tema della percezione della presenza o meno di un tatuaggio sul pene del ricorrente ed evidenzia come la minore abbia riferito che esisteva una pigmentazione di colore verde e come il ricorrente non abbia in alcun modo fornito indicazioni circa l’epoca in cui il tatuaggio sarebbe stato praticato, così che, a parere di questa Corte, l’argomento difensivo risulta privo di decisività e non mette in crisi sul piano logico il ragionamento dei giudici di merito.

Non si ravvisa, poi, alcun travisamento o alcuna incoerenza motivazionale con riferimento agli esiti della consulenza psicologica sulla minore. La Corte territoriale esclude che il quadro psicologico presenti aspetti di conflittualità rilevanti ai fini della formazione di un racconto non veritiero legato a spinte di protagonismo oppure destinato a compiacere la madre, così che l’esistenza di eventuali momenti di conflitto fra la ragazza e le persone del nucleo familiare allargato non assumono rilievo ai fini della decisione. Va, poi, evidenziato, che la consulenza ha rilevato l’assenza di vizi della percezione e del ricordo e, per converso, la presenza di condizioni di disagio della minore, del tutto compatibili con il suo vissuto e con le ragioni che avevano condotto alla richiesta di assistenza psicoterapica, ma ha escluso che queste condizioni possano essere messe in diretto rapporto con le condotte contestate al ricorrente; questa Corte deve perciò concludere che anche sotto questo profilo i giudici di merito abbiano esposto in modo corretto e non censurabile gli elementi di fatto posti a fondamento della decisione.

In conclusione, debbano trovare qui applicazione i principi interpretativi in tema di limiti del giudizio di legittimità e di definizione dei concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nonchè in tema di travisamento del fatto che sono contenuti nelle sentenze delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini, rv 203767, e n. 47289 del 2003, Petrella, rv 226074. In tale prospettiva di ordine generale va, dunque, seguita la costante affermazione giurisprudenziale del principio secondo cui è "preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti" (fra tutte:

Sezione Sesta Penale, sentenza n. 22256 del 26 aprile-23 giugno 2006, Bosco, rv 234148).

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonchè al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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