Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 15-06-2011) 04-10-2011, n. 35868 Amministrazione pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 24.06.2010 la Corte di Appello di Roma confermava la condanna alla pena della reclusione inflitta bel giudizio di primo grado a T.V. quale colpevole di avere, nella qualità di incaricato di pubblico servizio essendo assistente presso l’Associazione Anni verdi, ente di diritto pubblico, costretto l’assistita P.A., affetta da tetraparesi spastica, abusando delle sue condizioni d’inferiorità, a subire atti sessuali palpandole il seno e la vagina mentre le tappava la bocca per impedirle di chiedere aiuto.

Proponeva ricorso per cassazione l’imputato denunciando:

– violazione dell’art. 609 septies c.p.p., comma 4, n. 3; artt. 546 e 125 c.p.p.; illogicità della motivazione in ordine al rigetto dell’eccezione d’improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela risultando che egli svolgeva generiche attività manuali nell’ambito d’istruzioni altrui, sicchè non poteva essere qualificato incaricato di pubblico servizio. Doveva, quindi, essere esclusa la procedibilità d’ufficio;

– violazione di legge; mancanza e manifesta illogicità della motivazione; mancata assunzione di prova decisiva in punto di valutazione dell’idoneità fisica e psichica della persona offesa a rendere testimonianza occorrendo, invece, accertarla con una perizia alla stregua del conclamato deficit mentale della predetta;

– violazione dell’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e art. 192 c.p.p. per contraddittorietà e illogicità della motivazione sul giudizio di credibilità della persona offesa per essere stati erroneamente considerati punti decisivi della controversia: la poco chiara compilazione della scheda clinica per vittime di abusi sessuali; l’incapacità della donna di capire anche domande di facile comprensione a chiunque; le vistose contraddizioni in cui era incorsa nella narrazione del fatto; le incertezze emerse sull’individuazione dell’autore del reato; la possibilità di avere equivocato la natura del gesto avendo egli in precedenza pulito la P., dopo la minzione, entrando in contatto con le sue parti intime, sicchè poteva essere applicata la regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio";

– violazione di legge sul diniego dell’attenuante di cui all’art. 609 bis cod. pen., u.c..

Chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata.

Il ricorrente ha denunciato violazione di legge per la ritenuta procedibilità, pur in mancanza di querela, in ordine al delitto di violenza sessuale perchè, comportando le mansioni cui era addetto svolgimento di attività manuali in esecuzione di ordini altrui, egli non aveva agito quale incaricato di pubblico servizio.

L’assunto è privo di fondamento.

Ha affermato questa Corte che "il nuovo testo dell’art. 358 cod. pen., siccome sostituito dalla L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 18 non da del pubblico servizio una nozione sostanzialmente diversa da quella accolta con riguardo al testo previgente, secondo il quale essa va definito come qualsiasì attività, non autoritaria, accessoria o complementare ad una pubblica funzione, che non si risolva esclusivamente in un lavoro manuale" Sezione 6 RV. 202875 e che "sono incaricati di un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 358 cod pen., coloro i quali, pur agendo nell’ambito di un’attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione, mancano dei poteri tipici di questa, purchè non svolgano semplici mansioni d’ordine, nè prestino opera meramente materiale. Il pubblico servizio è dunque attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dalla mancanza dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è solo in rapporto di accessorietà e di complementarità" Sezioni Unite RV. 191172.

La modifica normativa non ha introdotto sostanziali cambiamenti sulla suddetta qualifica soggettiva, avendo inserito nell’originaria nozione l’intervenuta elaborazione giurisprudenziale che correlava la figura all’attività in concreto espletata dall’agente, indipendentemente dal suo ruolo giuridico e da un effettivo rapporto di subordinazione con l’ente pubblico, ampliandone, così, la portata.

Deve, quindi, ritenersi corretta la qualificazione d’incaricato di pubblico servizio attribuita dai giudici di merito all’imputato quale ausiliario dei servizi assistenziali di un ente con funzione vicaria nell’ambito di finalità di assistenza, cura e riabilitazione dei soggetti disabili perchè rientravano nelle sue mansioni, oltre che opere materiali, anche attività di vigilanza di controllo dei degenti, sicchè, nel corso dell’orario di servizio, era tenuto a seguire il comportamento dei malati, a regolare l’accesso degli estranei, a intervenire in situazioni di emergenza determinate dal particolare stato patologico dei ricoverati, il che presuppone conoscenza e applicazione, sia pure a livello esecutivo, della normativa che presidia l’attività amministrativa e sanitaria nella quale era inserito e, quindi, profili collaborativi con i medici e i responsabili amministrativi all’interno dei locali e nella cura, talvolta, obbligatoria, delle persone affette da handicap. Pertanto, correttamente è stata ritenuta la procedibilità d’ufficio del reato ricorrendo la condizione stabilita dall’art. 609 septies cod. pen. secondo cui si procede d’ufficio se il fatto è commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni, essendo risultato che il predetto ha agito, con riferimento alle mansioni in concreto svolte, nella qualità di ausiliario dei servizi assistenziali e durante l’orario di lavoro e, quindi, nell’ambito di attività dirette alla realizzazione delle finalità del pubblico servizio.

Anche il secondo motivo non è puntuale dovendosi escludere, in linea di principio, che possa farsi ricorso all’integrazione per far fronte ad acquisizioni processuali non giustificate da obiettive esigenze probatorie essendo decisiva soltanto la prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza perchè ne intacca la sua struttura portante.

Ne consegue che il riferimento a specifici atti del processo nel motivo di ricorso assume rilevanza solo se dimostri che il giudice abbia trascurato di esaminare fatti decisivi ai fini del giudizio, nel senso che se fossero stati convenientemente valutati avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata.

La perizia, per il suo carattere neutro sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva: ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionatale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) Sezione 4 n. 14130/2007 RV. 236191.

Si tratta di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione.

Nel caso di specie, la richiesta perizia sullo stato psichico della persona offesa non aveva alcun obiettivo supporto clinico con riferimento alla generica diagnosi di "ritardo mentale" formulata in sede di pronto soccorso potendosi, invece, parlare, secondo i rilievi della corte di merito, di un ritardo mentale lieve (definito dalla letteratura scientifica come status soggettivo … caratterizzato da un QI di circa il 50/70%, in cui il soggetto dimostra un’età mentale pari a quella di un bambino di 8/10 anni e presenta difficoltà di compressione e di comunicazione), come dimostrato: dalla natura della patologia di cui la vittima era affetta tetraparesi spastica, cui non è associata per forza una perdita della capacità intellettiva o un ritardo mentale accentuato; dalle testimonianze della mamma della persona offesa e della teste della difesa V.; dalla condotta processuale della stessa persona offesa che sia nell’incidente probatorio sia in dibattimento si è espressa sia pure con difficoltà sulle domande rivoltele mostrando di capirne il contenuto.

Alla luce di tali principi la capacità di testimoniare della parte lesa risulta accertata e ritenuta con motivazione adeguata e logica.

La Corte di Appello ha assolto l’obbligo della motivazione in punto di responsabilità partendo dall’enunciazione di consolidati principi tra cui primeggia quello dell’autosufficienza della sola testimonianza della vittima che non necessita di riscontri esterni quando sia oggetto di una valutazione di attendibilità particolarmente rigorosa e rilevando che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, dall’esame della trascrizione dell’audizione dibattimentale, risultava che essa era stata in grado di comprendere il senso delle singole domande e di fornire, talvolta a gesti, congrue risposte; che le contraddizioni segnalate non minavano la complessiva affidabilità del racconto accusatorio proveniente da soggetto affetto da una patologia invalidante di cui bisognava tener conto per dare il giusto senso delle risposte date anche sull’individuazione dell’autore dell’illecito sulla cui natura non era possibile ipotizzare alcun equivoco stante che, in occasioni di pregresse operazioni di pulizia delle parti intime effettuate da T. (caratterizzate da una notevole elasticità e variabilità nelle modalità d’intervento, donde l’irrilevanza delle discordanti puntualizzazioni dei testi indicati dalla difesa), essa non aveva manifestato alcun trauma nè segnali di disagio.

La corte ha quindi congruamente spiegato le ragioni del proprio convincimento sul punto sostanzialmente confermando l’apparato argomentativo del Tribunale basato sulla corretta valutazione di tutti i dati processuali e della personalità della parte lesa in rapporto alle sue condizioni di salute correttamente ritenuta attendibile per la coerenza delle dichiarazioni e sorrette da riscontri oggettivi quali quelle delle palesi e inequivoche conseguenze psicologiche del trauma subito mostrate dalla P. e percepite dai testi D., A. e Pa. e dal suo categorico rifiuto di fare ritorno presso l’associazione Anni verdi.

Non hanno, quindi, rilevanza in questa sede valutazioni del fatto diverse da quella adottata dai giudici dell’appello, non potendo il controllo di legittimità investire l’intrinseca adeguatezza della valutazione dei risultati probatori, riservata al giudizio di merito.

Nell’ambito degli atti sessuali, che, per il loro inquadramento nella categoria dei delitti contro la persona e più specificamente in quelli contro la libertà individuale, assumono oggettivo connotato di gravità, sono previsti dall’art. 609 bis c.p., comma 3 e dall’art. 609 quater cod. pen., comma 4 casi di minore gravità alla cui individuazione provvede, volta per volta, il giudice di merito, quando sia possibile ritenere, alla stregua del corretto esame dei dati processuali rilevanti e con adeguata motivazione, che la libertà della vittima sia stata offesa in modo non grave, sicchè è rispettata l’esigenza della graduazione della pena, nel rispetto del fine rieducativo cui la pena stessa deve tendere, con riferimento all’entità delle violazioni commesse.

Rilevato che la citata diminuente è stata introdotta al fine di svincolare la valutazione della gravità del fatto dai limiti della materialità della condotta posta in essere, così com’era in precedenza, elevandola a un giudizio più ampio che deve tenere conto di tutte le componenti del caso, va ribadito che "in tema di abusi sessuali, ai fini dell’accertamento della diminuente del fatto di minore gravità prevista dall’art. 609 bis c.p., comma 3 deve farsi riferimento, oltre che alla materialità del fatto, a tutte le modalità che homo caratterizzato la condotta criminosa, nonchè ai danno arrecato alla parte lesa, anche e soprattutto in considerazione dell’età della stessa o di altre condizioni psichiche in cui versi" Cassazione Sezione 3 n. 972/2000, RV. 215954; conforme Sezione 3 n. 11558/1999, RV. 215077; Sezione 3, n. 47730/2003, El Kabouri, RV. 226865.

Nelle specie, i giudici di merito hanno correttamente esercitato il loro potere discrezionale negando la diminuente con una motivazione che è congrua poichè hanno indicato gli elementi ritenuti rilevanti e decisivi ai fini sopraindicati la gravità del fatto con riferimento alla posizione rivestita dall’imputato all’interno di un ente preposto all’assistenza di disabili; le condizioni di minorata difesa della P.; le conseguenze psicologiche sulla predetta traumatizzata al punto di decidere d’interrompere il legame con una realtà, alternativa al nucleo familiare, nella quale aveva progressivamente maturato importanti contatti sociali, rimanendo implicitamente superati e disattesi tutti gli altri.

Il rigetto del ricorso comporta condanna al pagamento delle spese del procedimento e alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonchè alla rifusione di quelle sostenute nel grado dalla parte civile che liquida in Euro 1.600 oltre accessori di legge.

La Corte dispone, inoltre, che copia del presente dispositivo sia trasmesso all’Amministrazione di appartenenza dell’incaricato di pubblico servizio D.Lgs. n. 150 del 2009, ex art. 70.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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