Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-02-2012, n. 3055

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso del 20-11-2003 C.M., dirigente dell’Ente Poste Italiane, assumeva che con telex del 12-8-1994 era stato collocato a riposo per il raggiungimento della massima anzianità contributiva con effetto dal 16-8-1994 ai sensi dell’art. 22 del ccnl; che avverso tale provvedimento aveva presentato ricorso al TAR Lazio; che aveva successivamente adito il Giudice del lavoro di Roma per la declaratoria di illegittimità del licenziamento e per il pagamento delle spettanze contrattualmente previste in caso di licenziamento illegittimo; che con sentenza del Pretore di Roma n. 11289/1995 era stata dichiarata la nullità della clausola e la illegittimità del licenziamento, con condanna dell’ente al pagamento, in favore del ricorrente, della indennità di mancato preavviso e delle spettanze contrattuali; che l’ente aveva proposto appello e il Tribunale con sentenza del 24-5-2002, in parziale accoglimento dell’appello, aveva dichiarato la nullità della risoluzione del rapporto di lavoro e rigettato le domande di pagamento dell’indennità sostitutiva di preavviso e competenze, rilevando che, nella specie si era verificata soltanto una interruzione della attualità del rapporto; che con lettera del 22-3-2002 aveva riconfermato la volontà di riprendere servizio. Tutto ciò premesso il ricorrente chiedeva che, preso atto della accertata nullità della clausola, fosse dichiarato il suo diritto al ripristino della attualità del rapporto con la condanna della s.p.a. Poste Italiane al pagamento delle retribuzioni dal 16/8/1994. quantificate in Euro 580.673,54 oltre accessori.

La società convenuta si costituiva contestando la fondatezza del ricorso e chiedendo, in via gradata, che il risarcimento fosse subordinato alla differenza tra quanto richiesto dal lavoratore a titolo di indennità supplementare nel giudizio dinanzi al Pretore di Roma e le somme dovute a titolo di retribuzione dalla offerta delle prestazioni lavorative e fino al 65^ anno di età del ricorrente. In via riconvenzionale chiedeva, poi, accertarsi il diritto di essa società alla ripetizione della somma di Euro 77.405,5 già corrisposta al ricorrente, con conseguente condanna dello stesso alla restituzione di tale somma.

Con sentenza del 28-4-2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma dichiarava la società convenuta tenuta al pagamento, in favore del ricorrente, della somma lorda di Euro 198.695 oltre interessi legali, detratto l’importo di Euro 72.406,68 oltre interessi ed il trattamento previdenziale di anzianità percepito dal ricorrente per il periodo da agosto 1994 al marzo 1998.

Il C. proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendo l’integrale accoglimento delle domande.

La società si costituiva resistendo al gravame e proponendo appello incidentale.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 28-7-2009, rigettava l’appello incidentale e, in parziale accoglimento dell’appello principale ed in parziale riforma della pronuncia di primo grado, confermata nel resto, dichiarava che sulle somme riconosciute all’appellante principale erano dovuti interessi e rivalutazione monetaria.

In sintesi la Corte territoriale, escludeva la rilevanza del precedente giudicato nel presente giudizio, confermava la decisione del primo giudice sia in relazione al mancato riconoscimento del diritto del C. al ripristino del rapporto e alla limitazione del risarcimento al periodo fino al 5-3-1998, sul rilievo che il lavoratore aveva espresso la volontà di prosecuzione del rapporto fino al 65 anno di età, sia per quanto riguardava la detraibilità nella fattispecie concreta delle somme percepite per pensione di anzianità dall’agosto 1994 al marzo 1998. La Corte riformava, invece, la impugnata decisione per quanto riguardava il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria sulle somme dovute a titolo risarcitorio, riconoscendo invece gli accessori ex art. 429 c.p.c..

Per la cassazione di tale sentenza il C. ha proposto ricorso con due motivi, il primo dei quali articolato in diverse censure.

La s.p.a. Poste Italiane ha resistito con controricorso.

Ciascuna delle parti ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 1372, 2118, 2909 e 2934 c.c. nonchè vizio di motivazione e omessa pronuncia.

In particolare in primo luogo il ricorrente, lamenta che erroneamente la Corte di merito, confermando il parziale accoglimento dell’eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, ha ritenuto che il ricorso al TAR, con il quale egli aveva chiesto l’annullamento del provvedimento di collocamento a riposo e rivendicato il trattamento in servizio fino al compimento del 65 anno di età, rappresentasse idonea manifestazione, mai in seguito utilmente superata, della sua volontà di cessare dal servizio ai 65 anni".

Con il detto ricorso in sostanza egli aveva inteso contestare l’interruzione del rapporto imposta dall’ente, ma non aveva "inteso porre un limite temporale massimo alla sua permanenza in servizio" avendo semplicemente puntualizzato dinanzi al Giudice adito "quale fosse la disciplina allora vigente relativa all’età massima per il collocamento a riposo dei lavoratori pubblici" ed avendo nel contempo chiesto la revoca del provvedimento datoriale (senza limitazione alcuna).

Peraltro, secondo il ricorrente, nella specie, la comunicazione della cessazione del servizio necessitava della forma scritta ai sensi dell’art. 2118 c.c. e 21 del ccnl dirigenti Poste Italiane, per cui anche sotto tale profilo non era configurabile una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, in mancanza, del resto, di una indagine circa la volontà del lavoratore di rinunciare al preavviso e alla comunicazione scritta, e ciò tanto più in presenza di un’offerta delle prestazioni lavorative comunque avanzata dallo stesso lavoratore nel 1994 e confermata nel 2002.

Il ricorrente inoltre lamenta che la sentenza impugnata avrebbe violato il giudicato costituito dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 21275 del 2002, che, avendo affermato la "nullità della risoluzione del rapporto", ha tra l’altro accertato anche la persistenza ed efficacia senza soluzione di continuità del rapporto di lavoro alla data della sentenza del 2002.

In sostanza secondo il ricorrente "al fine di evitare la preclusione derivante dal giudicato implicito, Poste Italiane avrebbe dovuto fare espressamente valere, nel giudizio in cui si è formato il giudicato…tutti i fatti risolutivi del rapporto di lavoro, anche diversi da quelli evocati dalla clausola di cui all’art. 22 ccnl, aventi ad esempio, per oggetto il concretarsi di una causa di mutuo consenso" delle parti circa la risoluzione del rapporto", e ciò in quanto il giudicato copre non soltanto il "dedotto" ma anche il "deducibile".

Al riguardo, poi, il ricorrente denuncia anche un vizio di insufficienza della motivazione da parte della Corte di merito.

Infine il ricorrente ribadisce che il suo comportamento non è stato affatto univoco nel senso ritenuto dalla Corte d’Appello.

Le censure risultano in parte inammissibili e in parte infondate.

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito "in tema di risoluzione del rapporto di lavoro subordinato per mutuo consenso tacito ed al fine della dimostrazione della chiara e certa comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, non è di per sè sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento, o il semplice ritardo nell’esercizio del diritto e, in ogni caso, la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto (comportamento univoco ed altre eventuali circostanze significative) compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. da ultimo Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932).

Peraltro, come pure è stato precisato, "la particolare disciplina stabilita, in materia di estinzione del rapporto di lavoro subordinato, dagli artt. 2118 e 2119 cod. civ., che prevedono atti unilaterali di recesso, sia in caso di licenziamento intimato dal datore di lavoro che di dimissioni rassegnate dal lavoratore, non esclude che siano valide ed operative tutte quelle manifestazioni bilaterali dell’autonomia negoziale che danno luogo alla fattispecie della risoluzione consensuale del rapporto (mutuo consenso: art. 1372 cod. civ.), il cui accertamento è affidato al giudice del merito con apprezzamento non censurabile in sede di legittimità, se correttamente e congruamente motivato" (v. Cass. 5-2-1993 n. 1431 cfr. Cass. 4-6-2002 n. 8102), con la conseguenza che "è valida la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, ancorchè desumibile da comportamenti concludenti delle parti, a nulla rilevando che la legge o il contratto collettivo prescrivano la forma scritta ad substantiam per il licenziamento e le dimissioni" (v. fra le altre Cass. 1-2-1989 n. 617). Del resto la "autonomia" del negozio risolutorio esclude anche la estensione allo stesso della clausola pattizia che preveda la forma scritta ad substantiam per la costituzione del rapporto di lavoro (v. Cass. 14-5-1996 n. 4471).

Nella fattispecie la Corte di merito, nel confermare sul punto la decisione del primo giudice, ha rilevato:

che "nel caso in esame la vicenda che risale all’anno 1994, è caratterizzata da una serie di domande formulate dalla parte aventi oggetti differenziati e non compatibili, adeguate nel tempo in relazione all’esito dei singoli giudizi";

che il Dott. C., dopo aver in data 13-8-1994 "contestato la legittimità dell’art. 22 del ccnl, sotto il profilo della inapplicabilità della norma alla categoria dei dirigenti", ed aver "chiesto la immediata revoca del provvedimento dell’11-8-1994", "con ricorso al TAR aveva chiesto l’annullamento del provvedimento e l’accertamento del diritto al mantenimento in servizio fino al compimento del 65 anno di età";

che tale chiara manifestazione di volontà "non risulta superata da successive e diverse dichiarazioni", laddove nel successivo ricorso depositato dinanzi al Pretore del Lavoro "le domande avevano riguardato la illegittimità del recesso ai soli fini del pagamento delle indennità supplementare, della indennità sostitutiva del preavviso e delle indennità di fine rapporto";

che, in tale situazione correttamente il Giudice di primo grado ha considerato "la volontà espressa dal lavoratore, che limita le proprie pretese al mantenimento in servizio soltanto fino al 65 anno di età";

che, del resto, "soltanto con la lettera del 22-3-2002 l’appellante aveva confermato la propria disponibilità a riprendere servizio", allorquando come affermato dal primo giudice – "il rapporto di lavoro era già estinto per mutuo consenso".

Tale accertamento di fatto risulta conforme ai principi sopra richiamati (in quanto fondato, non su una semplice inerzia, bensì su uno specifico reiterato comportamento, integrante un negozio risolutorio tacito, autonomamente rilevante) ed altresì sorretto da motivazione congrua e priva di vizi logici.

Infondate, poi, sono le altre censure riguardanti la asserita violazione del giudicato di cui alla sentenza del Tribunale di Roma n. 21275/2002.

Come è stato più volte affermato da questa Corte, "il giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, entro il limiti oggettivi che sono segnati dai suoi elementi costitutivi, come tali rilevanti per l’identificazione dell’azione giudiziaria sulla quale il giudicato si fonda, costituiti dal titolo della stessa azione (causa petendi), dal bene della vita che ne forma l’oggetto (petitum mediato) a prescindere dal tipo di sentenza adottato (petitum immediato); entro questi limiti, il giudicato copre il dedotto e il deducibile, restando salva ed impregiudicata soltanto la sopravvivenza di fatti e di situazioni nuove, che si siano verificate dopo la formazione del giudicato o, quantomeno, che non fossero deducibili nel giudizio, in cui il giudicato si è formato, e fìssa la regola del caso concreto, partecipando della natura dei comandi giuridici, e la sua interpretazione deve essere assimilata alla interpretazione delle norme giuridiche; ne consegue che il giudicato può essere interpretato direttamente dalla Corte di Cassazione e l’erronea interpretazione che di esso sia stata data dal giudice di merito può essere denunciata in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di norme di diritto" (v. Cass. 3/8/2007 n. 17078, Cass. 3-11-2004 n. 21069, Cass. 24-3-2004 n. 5925, nonchè Cass. S.U. 28-11-2007 n. 24664).

Nella fattispecie la sentenza del Tribunale di Roma n. 21275 del 2002 (passata in giudicato), pronunciando sulla domanda avanzata con ricorso depositato il 10-12-1994 (intesa ad ottenere l’accertamento della nullità della clausola di cui all’art. 22 del contratto collettivo e la declaratoria di "illegittimità del licenziamento" con la condanna dell’Ente Poste Italiane al pagamento della "indennità supplementare delle spettanze contrattuali di fine rapporto", della "indennità di mancato preavviso" e di altre indennità), in riforma della sentenza del Pretore del lavoro del 20/9/1995, ha dichiarato la "nullità della risoluzione del rapporto di lavoro" ed ha respinto la domanda avente ad oggetto le indennità connesse al dedotto licenziamento.

La sentenza, a tal fine, nell’escludere la sussistenza di un licenziamento nella fattispecie (in applicazione dei principi dettati da questa Corte in materia – v. fra le altre Cass. 13-5-2000 n. 6175, Cass. 17-11-2000 n. 14882), ha affermato che "l’azienda postale si è limitata, nella comunicazione inviata al dipendente, a richiamare la clausola collettiva che sanciva la cessazione automatica del rapporto al compimento della prevista anzianità contributiva, nè è stato in alcun modo dedotto dalle parti che la comunicazione contenesse una manifestazione di volontà di recedere dal rapporto per il caso che l’estinzione per la data oggettivamente individuata non potesse ritenersi automatica. In tale fattispecie la cessazione delle prestazioni lavorative non è determinata da un negozio di recesso posto in essere dal datore di lavoro, ma dall’adeguamento del comportamento alla ritenuta cessazione automatica del rapporto, rapporto che, invece, deve considerarsi non estinto con conseguente operatività delle regole comuni della responsabilità contrattuale".

Tali considerazioni vanno chiaramente lette nel contesto della decisione (così intendendosi la "non estinzione" del rapporto con riferimento alla disconosciuta "cessazione automatica") ed in relazione alla causa petendi e al petitum di quel giudizio (riguardante la nullità della clausola collettiva e la illegittimità dell’asserito licenziamento), diversi dal presente che è diretto ad ottenere, sulla base della accertata "nullità della risoluzione del rapporto", il ripristino della attualità dello stesso ed il risarcimento dei danni subiti.

La diversità quindi della causa petendi e del petitum (come rilevata anche dai giudici di merito) esclude che il precedente giudicato possa coprire, in quanto "deducibile", la eccezione di risoluzione per mutuo consenso avanzata dalle Poste Italiane nel presente giudizio.

Del resto, sulla base di tale diversità già il giudice di primo grado ha respinto l’eccezione di giudicato avanzata da Poste Italiane nei confronti della pretesa azionata dal C. nel presente giudizio, per cui risulta altresì contraddittoria la tesi del ricorrente, secondo cui lo stesso giudicato, non preclusivo di tale pretesa, precluderebbe invece la eccezione avanzata da Poste Italiane avverso la pretesa stessa.

Così respinto il primo motivo va, invece, accolto il secondo motivo, con il quale il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1223 c.c., e vizio di motivazione, lamenta che la sentenza impugnata erroneamente ha detratto dal risarcimento comunque spettante le somme riscosse a titolo di pensione, assumendone la natura di aliunde perceptum.

Tale motivo è fondato.

Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato, "in caso di collocamento a riposo sulla base di clausola contrattuale dichiarata nulla, come nel caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo, commisurato alle retribuzioni perse a seguito del provvedimento fino alla riammissione in servizio, non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge, sicchè le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della "compensatio lucri cum damno" (v.

Cass. 1-8-2003 n. 11758, Cass. 22-7-2004 n. 13715, Cass. 14-6-2007 n. 13871).

Così respinto il primo motivo ed accolto il secondo, la impugnata sentenza va cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, dichiarandosi non detraibile la somma percepita a titolo di pensione.

Infine, ricorrono giusti motivi, ex art. 92 c.p.c., nel testo vigente ratione temporis, per compensare per intero le spese dei giudizi di merito tra le parti, in ragione della complessità della vicenda e delle questioni trattate, mentre, per la parziale soccombenza vanno compensate per la metà le spese del presente giudizio di cassazione, condannandosi la società al pagamento della residua metà.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo e rigetta il primo, cassa in relazione ai motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara non detraibile la somma percepita a titolo di pensione; compensa le spese dei giudizi di merito e condanna la società al pagamento della metà delle spese del giudizio di cassazione, liquidate, per l’intero in Euro 50,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA, compensando la residua metà.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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