Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 24-05-2011) 04-10-2011, n. 36020 Notificazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con decreto del g.u.p. del Tribunale di Bergamo R. S. era tratto a giudizio per rispondere anche in concorso con terzi, nella sua qualità – in sequenza temporale – di direttore generale della ASL di (OMISSIS) (dal 1998 al 2002) e di direttore generale dell’azienda Ospedali Riuniti di Bergamo (dal gennaio 2003), di tre contestazioni di corruzione propria (capi 1, 2 e 3 della rubrica), di tre contestazioni di peculato (capi 5, 6 e 7 della rubrica) e di una contestazione di abuso di ufficio (capo 8 della rubrica), collegate a fatti di abuso delle sue funzioni.

All’esito di giudizio ordinario, scandito da una estesa istruttoria dibattimentale, il Tribunale di Bergamo con sentenza resa il 6.4.2009 ha mandato assolto il R. e tutti i coimputati da quattro delle predette imputazioni per insussistenza dei fatti reato o con altre formule liberatorie (capi 1, 2, 7 e 8), affermando la penale responsabilità del solo R. per i tre reati di cui ai capi 3), 5) e 6) della rubrica.

Quanto al reato di cui al capo 3), il Tribunale ha qualificato il fatto in origine contestato come corruzione propria quale abuso di ufficio ex art. 323 c.p. in vantaggio patrimoniale degli originari coimputati corruttori limitatamente: a) al conferimento da parte degli OO.RR. di Bergamo, in violazione delle leggi di settore, di un incarico di consulenza quinquennale a tale P.F. per la "attuazione e definizione delle strategie aziendali inerenti ai servizi informativi, l’organizzazione, il marketing e la comunicazione" (delibera del direttore generale R. n. 3 del 3.1.2003); b) al conferimento dell’incarico alla Columbus Net s.r.l.., per un periodo amministrata dallo stesso P., di realizzare un portale intranet per gli OO.RR. (lettera 22.1.2003 del direttore generale R.), avendo la detta società già ricevuto l’incarico di progettare la realizzazione di una rete intranet. Per un terzo episodio pure contestato al capo 3) della rubrica (corresponsione al P. della somma di Euro 35.000,00 per la risoluzione del suo contratto di consulenza) il Tribunale ha prosciolto il R. (e il P.) per insussistenza del fatto.

Quanto ai due episodi di peculato, integrati il primo dall’invio presso un’officina dell’autovettura privata del R., avvalsosi di autista degli OO.RR. accompagnato da un collega a bordo di una vettura di servizio dell’ospedale (capo 5), il secondo dal prelevamento dell’imputato con auto di servizio presso l’aeroporto di Orio al Serio, ove rientrava da una vacanza, per accompagnarlo a casa (capo 6), il Tribunale ha ritenuto ravvisabile l’attenuante del peculato d’uso ex art. 314 c.p., comma 2.

Per l’effetto R.S., unificate le tre ipotesi criminose sotto il vincolo della continuazione e concessegli generiche circostanze attenuanti, è stato condannato alla pena sospesa di dieci mesi di reclusione ed al risarcimento del danno da determinarsi in separato giudizio) in favore delle costituite parti civili Regione Lombardia e Ospedali Riuniti di Bergamo, cui sono state assegnate provvisionali in misura, rispettivamente, di Euro 20.000,00 ed Euro 50.000,00. 2.- Adita dall’impugnazione del R., la Corte di Appello di Brescia con sentenza in data 13.4.2010 ha confermato – in punto di responsabilità – la decisione di primo grado, circoscrivendo il proprio intervento parzialmente riformatore al trattamento sanzionatorio, riducendo la pena inflitta al R. a nove mesi di reclusione (previa qualificazione dell’episodio di abuso di ufficio relativo all’incarico commesso alla società Columbus come ipotesi tentata e non consumata del reato), riconoscendo alla parte civile Ospedali Riuniti di Bergamo anche un danno risarcibile all’immagine dell’ente (liquidato in Euro 10.000,00) e diminuendo il danno di omologa natura già riconosciuto alla parte civile Regione Lombardia ad Euro 10.000,00.

In estrema sintesi la Corte di Appello ha ritenuto sussistere i fatti criminosi di abuso di ufficio contestati con il capo 3) della rubrica in ragione – da un lato – della raggiunta prova degli elementi costitutivi della fattispecie, formati dalla illegittimità degli atti disponenti gli incarichi per prestazioni di servizi affidati a terzi (il dott. P. e la Columbus Net s.r.l..) in violazione di canoni di economicità (a fronte della possibilità raggiungimento dei risultati mediante personale interno all’ospedale orobico) e di criteri di selezione previsti dalla legge (elusi soprattutto per l’incarico commesso alla società Columbus) nonchè dell’ingiusto vantaggio patrimoniale procurato ai soggetti terzi commissionari (in misura soltanto tentata per il caso della Columbus) dai due atti dispositivi del direttore generale R.. Da un altro lato la Corte territoriale ha ribadito la sussistenza nell’antigiuridico contegno dell’imputato del dolo del reato di cui all’art. 323 c.p., che ha ritenuto asseverato dai convergenti sintomatici dati offerti dalla tempistica della conclusione dei due contratti (rectius dei conferiti incarichi) adottati dal R. subito dopo avere assunto la carica presso l’ente ospedaliero (l’incarico affidato al P. è stato formalizzato il giorno successivo all’assunzione della carica), dalla genericità descrittiva dei due incarichi, dal rilevante costo dei relativi contratti con pari danni economici per l’ente pubblico.

Per quel che concerne i due episodi di peculato d’uso ascritti al R. (capi 5 e 6 della rubrica) la sentenza di appello ne ha confermato la sussistenza, atteso che "la sottrazione della forza lavoro e degli automezzi dell’amministrazione per il raggiungimento di fini privati" è comprovata dai servizi di osservazione della p.g. operante e dalle testimonianze degli autisti dell’ospedale di cui si è avvalso il R..

3.- Contro la sentenza di appello e (deve inferirsi, per quanto si chiarirà) anche contro l’ordinanza in pari data, con cui i giudici del gravame hanno respinto l’eccezione difensiva sulla rituale vocatio in iudicium dell’imputato, hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di fiducia di R.S., deducendo vizi di violazione di legge (processuale e sostanziale) e di carenza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione. Ciò non senza disconoscere, in limine ma nella pur insistita richiesta di una decisione totalmente liberatoria ex art. 129 c.p., comma 2, che tre dei quattro episodi criminosi attribuiti al ricorrente sono alla data odierna attinti da causa estintiva per sopravvenuta prescrizione, causa da cui sarebbe immune soltanto il secondo caso di peculato di cui al capo 6) della rubrica, verificatosi il 3.3.2004. Per gli effetti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, i motivi di ricorso possono riassumersi nei termini che seguono.

1. Nullità assoluta e insanabile, ai sensi dell’art. 179 c.p.p., della sentenza per omessa notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello alla persona dell’imputato. Al R. elettivamente domiciliato presso lo studio di uno dei suoi due difensori (l’avv. Angelo Giarda) non è stato notificato il decreto di citazione per l’udienza di trattazione dell’appello fissata al 13.4.2010, perchè l’ufficiale giudiziario, disattendendo le indicazioni formali della cancelleria della Corte di Appello (atto da notificarsi sia al difensore che all’imputato elettivamente domiciliato presso quello stesso difensore), ha consegnato al difensore avv. Giarda nella sua qualità un solo decreto di citazione, omettendo di notificargli lo stesso decreto anche nella sua veste di domiciliatario dell’imputato. Erroneamente la Corte di Appello con ordinanza del 13.4.2010, reiettiva dell’eccezione di omessa citazione in giudizio dell’imputato (e, per ciò, da considerarsi attinta dall’odierno ricorso unitamente alla sentenza di secondo grado) ha ritenuto valida l’avvenuta notifica del decreto "pur se effettuata in unica copia", l’efficacia informativa dell’atto essendo stata raggiunta dall’indicata duplice veste del legale, quale difensore e quale domiciliatario del giudicabile. I giudici di appello hanno richiamato, a sostegno di tale tesi, due decisioni di legittimità, ma il richiamo è improprio perchè le sentenze attengono al ben diverso caso della notificazione del decreto di citazione al difensore di imputato non più reperibile al domicilio dichiarato (art. 161 c.p.p., comma 4).

2. Erronea applicazione dell’art. 323 c.p. e contraddittorietà ed illogicità della motivazione sulla ritenuta sussistenza degli abusi d’ufficio di cui al capo 3).

Il conferimento della consulenza per l’informatizzazione della struttura ospedaliere degli OO.RR. di Bergamo al dott. P. F., professionista di valore e prestigio indiscussi come riconosce la sentenza, e alla società Columbus per la progettazione della rete intranet e del relativo portale sono stati travisati dai giudici di merito sul tema della ricorribilità a risorse interne alla struttura pubblica ed altresì delle finalità di asserito ingiusto vantaggio procurato al professionista privato e alla società, sia pure per quest’ultima a livello di solo tentativo.

Anche la sentenza di secondo grado risente di una ricostruzione valutativa dei fatti di causa impropria e sbagliata, perchè muove -a dimostrazione delle ascritte ipotesi di abuso – da un presupposto accusatorio incentrato sull’originaria accusa di corruzione propria, fatta risalire ai pregressi rapporti economici intercorsi tra l’imputato e il P., che l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato essere avvenuti in termini di assoluta regolarità. La sentenza, nondimeno, è rimasta ancorata ad una presunta volontà "favolistica" o "clientelare" dell’imputato incongrua e inconferente ai fini della prova della sua riqualificata condotta illecita sotto la specie dell’abuso di ufficio.

Di guisa che non soltanto non è in alcun modo provata la finalizzazione dell’atto di incarico consulenziale al P. (provvedimento R. del 3.1.2003) e dell’atto di impegno contrattuale per i servizi commissionati alla società Columbus (lettera R. del 22.1.2003) alla produzione di un vantaggio ingiusto, reale o potenziale, per i due supposti "beneficiari" (per altro prosciolti dal concorso nel reato fin dal giudizio di primo grado), ma neppure è in concreto dimostrata la ribadita illegittimità dei due atti incriminati. Sotto questo aspetto la sentenza di appello si limita a far leva sull’asserita genericità dell’incarico attribuito al P. ed alla onerosità finanziaria dell’incarico, ma non tiene in conto del fatto che l’ampia indagine dibattimentale ha confermato che i due funzionari degli OO.RR., M.L. e S.P., che si occupavano dei servizi informativi e di marketing dell’ospedale, non sarebbero stati in grado di assicurare una riorganizzazione generale di tutte le componenti della struttura in termini di reale efficacia ed efficienza informatiche (la stessa sentenza di appello riconosce che entrambi avevano svolto "in maniera burocratica" le rispettive mansioni).

Quanto all’incarico di progettazione e attuazione del portale intranet assegnato alla società Columbus, i giudici di appello incorrono in palese equivoco, allorchè escludono l’esistenza di una diretta connessione causale (id est complementarietà) della commessa con i due precedenti contratti stipulati dalla società Columbus fin dal 2001 (quando il R. non ricopre alcun incarico presso gli OO.RR.) per il solo fatto che tali contratti, aventi per oggetto la consulenza per la creazione della rete intranet dell’ospedale non hanno avuto esecuzione (tanto che la società restituisce all’ente pubblico l’acconto ricevuto per il primo contratto). In realtà la lettera di incarico o di impegno contrattuale dell’imputato non ha fatto altro che operare la "voltura" dei due preesistenti contratti a seguito della specifica richiesta in data 13.1.2003 della società Easy Team, acquirente e poi incorporante della società Columbus.

Sicchè la lettera del 22.1.2003 "volturante" i pregressi contratti non ha dato luogo ad una nuova o diversa commessa, come erroneamente sostengono entrambe le sentenze di merito, nè si è verificato alcun ingiusto vantaggio per la contraente società privata.

Sommaria e in definitiva apparente è, da ultimo, l’indagine sul dolo del reato di abuso nel comportamento dell’imputato, che la sentenza pretende far derivare, per una sorta di automatismo transitivo, dalla sola asserita sussistenza degli elementi materiali del reato di cui all’art. 323 c.p. (illegittimità degli atti amministrativi compiuti dal R., produttivi di ingiusto beneficio economico per terzi).

3. Erronea applicazione dell’art. 314 c.p., comma 2 e illogicità della motivazione in merito alla confermata rilevanza penale degli usi impropri di autovetture di servizio dell’ente e di personale dello stesso per ragioni private estranee alla funzione.

La Corte di Appello ha creduto di non prestare fede alla tesi difensiva dell’imputato, che -per l’episodio del suo accompagnamento dall’aeroporto a casa (reato di cui al capo 6)- ha addotto di essersi avvalso dell’auto di servizio per l’urgenza di recarsi, per motivi di lavoro, presso l’ospedale dopo ave lasciato a casa i bagagli, a tal fine adducendo anche la testimonianza di un suo vicino di casa (offertosi di accompagnare lui stesso il R. in ospedale).

Ma quel che rileva, per questo e per l’ulteriore episodio sub 5), è che in tutti e due i casi l’uso temporaneo dei veicoli e del personale dell’ente non ha determinato alcun apprezzabile nocumento per la struttura pubblica. La sentenza impugnata ignora la giurisprudenza di legittimità che da tempo ha chiarito che un uso occasionale o episodico e per un minimo tempo dell’auto di servizio per motivi personali del pubblico ufficiale avente titolo ad avvalersi di auto di servizio ratione affidi non integra il reato di peculato ex art. 314 c.p., comma 2 (ma al più, ove del caso, soltanto contegni suscettibili di valenze disciplinari).

4. Subordinata carenza di motivazione in punto di eccessività della pena, che la sentenza non precisa in quale modo sia stata determinata pur dopo la rimodulazione del trattamento sanzionatorio conseguente alla definizione come tentativo di uno dei due episodi di abuso di ufficio sub 3).

5. Carenza e illogicità della motivazione in ordine alla liquidazione del danno (da effettuarsi in separata sede) in favore delle due parti civili Ospedali Riuniti di Bergamo e Regione Lombardia e alla determinazione delle provvisionali loro concesse.

Motivi della decisione

4.- Il ricorso articolato nell’interesse di R.S. è assistito da fondamento per quel che attiene alle illustrate censure di natura sostanziale, sia per i due episodi di abuso di ufficio, sia per i due episodi di peculato d’uso. All’accoglimento dello stesso si coniuga l’annullamento senza rinvio della impugnata sentenza di appello per la rilevata insussistenza dei fatti-reato ascritti all’imputato, nel palese delinearsi dei presupposti di evidenza richiesti per l’applicazione dell’art. 129 c.p., comma 2. Rilievo che segnatamente varrebbe per i primi tre episodi criminosi ascritti, in sequenza temporale, all’imputato (i due casi di abuso di ufficio del 3.1.2003 e del 22.1.2003 e il primo caso di peculato d’uso del 6.10.2003), che sarebbero raggiunti allo stato, in difetto di sospensioni del termine di legge di sette anni e sei mesi, da causa estintiva per prescrizione (maturata per il terzo e ultimo episodio alla data del 6.4.2011). Causa estintiva elisa nel caso di specie dalla prova dell’insussistenza dei fatti criminosi resa manifesta dagli stessi dati ricostruttivi e dalle stesse fonti valutative su cui è basata l’impugnata decisione di secondo grado, senza che occorra procedere ad ulteriori verifiche o analisi delle emergenze processuali incompatibili con il principio della immediata operatività della causa estintiva fissato dall’art. 129 c.p.p., comma 1 (v, ex multis, Cass. Sez. 4,8.7.2008 n. 33309, Rizzato, rv.

241961).

5.- Corre obbligo, nondimeno, segnalare l’errore prospettico in cui incorre la difesa dell’imputato, allorchè -sollecitandone l’ampio proscioglimento- assume come Ai già avvenuta la prescrizione dei primi tre fatti reato, in tal modo mutuando l’omologo errore in cui sembrano cadere i giudici di merito. Errore discendente dalla obliterata natura di reato di evento che deve pacificamente riconoscersi al reato di abuso di ufficio, quale strutturato dall’art. 323 c.p. Con l’ovvia inferenza che ai fini del perfezionamento del reato non hanno rilievo alcuno le delibere o i provvedimenti dispositivi adottati dal pubblico ufficiale agente, apprezzabili soltanto sotto il profilo della loro legittimità o illegittimità amministrativa (integrativa, in caso di rilevata illegittimità, di una delle condizioni costitutive del reato di abuso), ma piuttosto ed unicamente il concreto verificarsi (reale o potenziale, cioè "tentato") di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il pubblico ufficiale con i suoi atti procura a sè stesso o ad altri ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi atti provocano a terzi.

Nel caso di specie l’esame della motivazione delle sentenze di primo e di secondo grado, non consente di arguire in quale momento dovrebbe considerarsi avvenuto il detto ingiusto vantaggio per i beneficiari delle determinazioni assunte dall’imputato. In vero la sentenza di appello, che pure appare far inesattamente coincidere la consumazione dell’abuso con l’adozione degli atti pubblici che ne sono lo strumento, per l’episodio relativo all’incarico di consulenza conferito al dott. P. introduce una altro e diverso elemento, altrettanto spurio o improprio, rappresentato dal prodursi del danno sofferto dall’ente pubblico, quasi che siffatto danno sia di per sè omologabile all’ingiusto vantaggio conseguito dal terzo. Danno che discenderebbe dalle somme erogate dagli OO.RR. al P. (Euro 35.000,00) nel quadro dell’accordo transattivo con cui l’ente e il professionista hanno risolto il rapporto contrattuale già nell’anno 2003. Nè meno singolare si mostra la considerazione dei giudici di appello sulla constatata "assenza della prava della consumazione del reato" per quel attiene al contratto stipulato con la società Easy Team (già Columbus), dal momento che la società non ha mai sollecitato (per propria scelta aziendale) il pagamento delle pur emesse fatture. Assenza di prova che la Corte di Appello stempera nel riqualificare l’episodio come tentativo di abuso. Soluzione in tutta evidenza erronea, non tanto perchè il reato di abuso di ufficio (che, ripetesi, è reato di evento) non tolleri l’ipotesi del tentativo, quanto perchè la riscontrata assenza di prova della consumazione è fatta corrispondere nel caso in parola – ove si segua il ragionamento della sentenza di appello – alla mancanza dello stesso evento del contestato reato. Situazione già bastevole per una declaratoria di insussistenza del reato e non della sua surrettizia ridefinizione in termini di tentativo punibile.

6.- Ragioni di completezza espositiva, connesse alle funzioni nomofilattiche di questa Corte, impongono di vagliare il dedotto errar in procedendo afferente alla citazione dell’imputato per il giudizio di appello, benchè la censura (al pari di quelle attinenti alle statuizioni civili e alla misura della pena) sia assorbita dalle preannunciate determinazioni caducazione della sussistenza dei reati ascritti al ricorrente con l’annullamento senza rinvio della sentenza di appello).

Il descritto motivo di ricorso in rito è manifestamente infondato.

L’ordinanza con cui la Corte di Appello di Brescia (impugnata in uno alla sentenza di secondo grado) ha respinto l’eccezione di nullità della vocatio in iudicium dell’imputato argomenta correttamente l’avvenuto raggiungimento del fine informativo dell’imputato sugli sviluppi del suo processo (fine tipico dell’incombente notificatorio). Scopo adempiuto per effetto dell’avvenuta consegna (notifica) del decreto di citazione, ancorchè in unica copia, recante -però- espressa indicazione dei due destinatari dell’atto (imputato e difensore) all’avv. Giarda, difensore di fiducia dell’imputato (e già solo per questo gravato dall’onere deontologico di contattare l’assistito in vista del giudizio di appello) e nel contempo domiciliatario dello stesso imputato, che non a caso ha eletto domicilio presso il difensore anche per meglio tutelare l’effettività della propria difesa e della propria presenza nel processo. Tale criterio di effettività della funzione conoscitiva dell’atto notificato al difensore di fiducia domiciliatario dell’imputato rende pertinenti le decisioni richiamate dall’ordinanza della Corte di Appello (Cass. Sez. 5, 15.4.2004 n. 22829, Bonfigli, rv. 228824; Cass. Sez. 1, 7.3.2008 n. 14012, P.M. in proc. Petrisor, rv. 240138), essendo palese che nel caso in esame (come si desume dal testo del decreto di citazione in appello e dalla relativa nota di accompagnamento per l’ufficiale giudiziario, entrambi indicanti i destinatari dell’atto nelle persone dell’imputato elettivamente domiciliato e del difensore domiciliatario) il difensore del R. ha ricevuto l’atto nella sua qualità istituzionale di difensore dell’imputato e nella sua concomitante veste di domiciliatario dello stesso imputato. E’ patente, quindi, che la consegna in sede di notificazione di una sola copia del decreto di citazione e non anche di una seconda copia uguale alla prima da destinarsi all’imputato domiciliato presso il difensore fiduciario notificatario dell’atto (copia agevolmente fotoriproducibile) può integrare, al più, una irritualità che non incidente sulla adempiuta funzione della notifica dell’atto di citazione, ma non certo l’omessa citazione dell’imputato ex art. 179 c.p.p. sanzionata da nullità assoluta ed insanabile.

7.- Fondate e di immediata rilevabilità debbono ritenersi le ragioni di doglianza espresse dal ricorso sul merito della regiudicanda sussunto nella fattispecie di cui all’art. 323 c.p. (i due episodi contemplati dal capo 3 della rubrica).

La sentenza impugnata evoca esattamente il principio della c.d. doppia ingiustizia quale strumento di ricostruzione degli elementi costitutivi della fattispecie (ingiustizia della condotta per illegittimità degli atti del pubblico ufficiale e coeva ingiustizia del vantaggio economico conseguito dal soggetto privato), ma dello stesso principio non fa buon governo, trascurando di applicarlo concretamente ai due episodi ascritti all’imputato e configurati come abusi di ufficio in luogo dell’originaria accusa di corruzione. Al riguardo è pertinente il rilievo enunciato in ricorso per cui la sentenza impugnata appare trasfondere la fattispecie dell’abuso in un contesto motivazionale intriso dai referenti propri del panorama di estesa corruttela in origine caratterizzante (all’esito dell’udienza preliminare) lo svolgimento delle funzioni apicali del R. nell’amministrazione sanitaria bergamasca (ASL provinciale prima, OO.RR. poi). Situazione di cui i giudici di merito non hanno rinvenuto prova (il R. è stato prosciolto già in primo grado dalle prime due imputazioni di corruzione ascrittegli per insussistenza del fatto). Referenti estranei, per tanto, ai caratteri strutturali del reato di cui all’art. 323 c.p. e che non possono essere "recuperati" sul piano dei moventi delle specifiche azioni illecite attribuite all’imputato sotto il nomen iuris dell’abuso di ufficio (donde la scarsa significatività dei richiami presenti nelle due sentenze di merito alla disinvoltura gestionale delle funzioni da parte del R. ovvero alle sue presunte trame "clientelati", che non hanno permesso di provarne la corruttela e che nulla dicono, in sè, sui profili di illegittimità degli atti di ufficio incriminati ex art. 323 c.p. e soprattutto sull’evento dei fatti di abuso in termini di ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato ai privati terzi).

8.- La sentenza di appello non precisa, per quanto si è anticipato, quali siano gli eventi antigiuridici connotanti i due episodi di abuso attribuiti all’imputato, desumendoli aprioristicamente, da un lato, dalla ipotizzata onerosità finanziaria dei due "incarichi" conferiti dal R. al professionista P. e alla società Columbus (Easy Team), senza fornire adeguata dimostrazione di tale ipotesi di accusa, impropriamente fatta coincidere con il preteso corrispondente danno riportato dal’ente pubblico, apprezzato in termini di mancato esborso di somme rivenienti dai due incarichi per il caso in cui gli stessi non fossero stati attribuiti e il direttore generale della struttura ospedaliera si fosse avvalso -in aderenza a criteri di economicità (la cui concreta latitudine non è indicata)- delle risorse personali interne alla struttura, benchè in concreto tali esborsi siano indefinibili, atteso che il contratto con il P. è stato risolto in via transattiva e che nulla sia stato corrisposto alla Columbus per l’attività comunque svolta nelle fasi iniziali del rapporto contrattuale di prestazione del richiesto servizio informatico. Da un altro lato la sentenza impugnata, operando una incongrua inversione dell’analisi logica e sistemica della fattispecie o comunque sovrapponendo i due profili di indagine, finisce per individuare i dati dimostrativi dell’evento dei due fatti di abuso nell’elemento soggettivo connotante la condotta dell’imputato, siccome ispirato dalla intenzionalità della stessa condotta verso l’obiettivo di procurare un vantaggio patrimoniale ingiusto ai due soggetti "incaricati" delle due prestazioni di opere e di servizi.

Dati di valutazione che sono tratti, in particolare per quel che concerne l’incarico di consulenza conferito al P., dai "tempi di conclusione del contratto", lo stesso essendo stato stipulato (provvedimento del 3.1.2003) appena il giorno successivo all’assunzione della carica di direttore generale della struttura ospedaliera da parte del R.. Tuttavia la valorizzazione di questo elemento si rivela priva di concrete valenze decisive e lo stesso rimane confinato in un ambito di indifferenza o neutralità dimostrative, perchè i giudici di appello trascurano di considerare la peculiare qualificazione professionale e manageriale dell’imputato risalente negli anni e che, nella sua anteriore veste di direttore generale della ASL della provincia di Bergamo (accorpante l’attività e l’organizzazione di quattro preesistenti unità sanitarie locali), gli ha permesso di acquisire piena conoscenza delle carenze funzionali delle strutture sanitarie della provincia, ivi inclusa la più grande e articolata di loro formata dal comparto ospedaliero del capoluogo (Ospedali Riuniti di Bergamo), e dei settori richiedenti radicali interventi riorganizzativi, quale quello del generale supporto di informatizzazione della struttura proprio al fine di renderla – nel rispetto di canoni di economicità gestoria – più efficiente e più competitiva. Tale specifica competenza dell’imputato emerge a chiare note (a prescindere dalle sue stesse dichiarazioni in sede dibattimentale, riportate nella sentenza di primo grado) dalle emergenze dell’istruttoria dibattimentale, di cui si ha contezza attraverso la doverosa congiunta lettura delle due conformi decisioni di merito. Per vero la stessa Corte di Appello di Brescia non sembra ignorare tale aspetto della vicenda, cioè la pregressa conoscenza delle "criticità della struttura" da parte dell’imputato (e dello stesso P.) e della ritenuta e penalmente non sindacabile decisione di intervenire con urgenza, ma con assunto meramente assertivo giudica irrilevante il dato, perchè sovrastato dalla evenienza, a sua volta non compiutamente o per niente dimostrata, dell’intento di favore (procurare ingiusto vantaggio economico al P. e alla Columbus) che avrebbe caratterizzato le decisioni dell’imputato (v. sentenza, p. 11: "…la pregressa conoscenza degli obbiettivi, ove pur esistente, non risulta aver spiegato alcuna incidenza concreta nello sviluppo degli accordi… ").

Un altro dato sul quale la sentenza di appello pone l’accento per dimostrare la sussistenza dei due episodi di abuso di ufficio è costituito, come detto, dalla esosità o antieconomicità dei due incarichi di consulenza ( P.) e progettuali ed operativi (società Columbus) che ne sono oggetto. In tale ottica la sentenza segnala come incongruo il ricorso all’opera di consulenza informatica del P. non tanto per la mancanza di requisiti di competenza del professionista (che la sentenza impugnata non mette in discussione), ma piuttosto e soltanto perchè – a prescindere dalla genericità del conferito incarico- non sarebbero state privilegiate le disponibilità interne alla struttura idonee ad affrontare i complessi problemi di riorganizzazione informatica dell’ente, vale a dire il ricorso alle professionalità dei due funzionari dirigenti degli Ospedali Riuniti, S. e M., già addetti al settore marketing e comunicazione della struttura. L’elemento così valorizzato non è posto, tuttavia, in correlazione con le emergenze dibattimentali che contraddicono l’idoneità funzionale dei due dirigenti interni per occuparsi utilmente del progetto consulenziale e operativo affidato al P.. Sulla questione la sentenza di appello, anche in parziale distonia con la decisione di primo grado, non tiene conto – ad esempio – dell’esistenza dell’impellente problema di una razionale informatizzazione delle articolazioni dell’ospedale avvertita già dal predecessore dell’imputato nella carica di direttore generale, il dott. L., fin dal 2001, tanto da indurlo ad avvalersi di un parere o di una consulenza di un tecnico, tale A.G. (esaminato in dibattimento).

Contesto dal quale emerge nel contempo l’inadeguatezza delle risorse interne ( M. e S.) ai fini di un’utile soluzione del problema. L’ A. ha riferito di essere rimasto sconcertato nel vedersi prospettare un piano di investimento per la riorganizzazione informatica della struttura ospedaliera, elaborato dalla struttura interna, del considerevole importo di 24 miliardi di lire, assolutamente iperbolico e arrischiato, tanto da fargli vivamente sconsigliare al L. di dare corso ad un simile investimento, anche in ragione dell’assai modesto livello di preparazione nel settore informatico riscontrato nelle cd. risorse interne dell’ospedale ( S. e M.), e di suggerirgli di interpellare il P. per la sua vasta esperienza di informatizzazioni aziendali.

Di tal che non soltanto emerge (dalla sentenza di primo grado, ignorata sul punto dalla decisione di appello) che il P. ha già avuto contatti con gli Ospedali Riuniti prima che il R. ne è divenuto direttore generale, ma altresì lo scarso pregio del rilievo critico sul mancato ricorso alle risorse personali interne all’azienda sanitaria. Con l’ulteriore effetto che, dinanzi ad un progetto di investimento della portata finanziaria di quello concepito in sede interna anche l’eccessività od esosità degli oneri derivanti dal contratto di consulenza stipulato con il P. e di cui si è reso mentore e propulsore l’imputato (Euro 65.000,00 annui per una durata quinquennale) perde reale significatività in termini di ingiustizia del vantaggio conseguito dal professionista.

9.- Non basta. Per un verso alle segnalate carenze probatorie e valutative riguardanti l’evento del reato nei due episodi di abuso di ufficio ascritti all’imputato si giustappongono le improprie commistioni e discrasie che percorrono la motivazione dell’impugnato provvedimento decisorio di appello in punto di elemento soggettivo del reato. Elemento che è ritenuto dimostrato in virtù di un autoreferenziale e postumo criterio ricompositivo circolare:

l’ingiustizia del vantaggio procurato al terzo, non provata, diviene sintomo della volontà colpevole dell’imputato, la quale a sua volta suffraga e riscontra l’illegittimità degli atti amministrativi compiuti dall’imputato, illegittimità che dal suo canto è stimata di per sè stessa indicativa della sussistenza del dolo di abuso. Per un altro verso manca nella motivazione della sentenza l’indicazione dei dati probatori asseveranti proprio tale fondamentale (e pregiudiziale rispetto all’eventuale prodursi dell’evento criminoso) elemento o presupposto costitutivo del reato rappresentato dalla illegittimità degli atti amministrativi considerati dalle imputazioni. La sentenza di appello sembra dare per scontata siffatta illegittimità, con l’evidenziare talune incongruenze o anomalie dei due atti assunti dal R., che tuttavia debbono essere collegate a specifiche violazioni di norme legislative o regolamentari perchè possa disquisirsi di fatti di abuso penalmente rilevanti. Collegamento di cui è arduo rinvenire indicative o utili tracce nel testo della sentenza.

I rilievi critici al riguardo espressi nel ricorso sono fondati. Per vero la sentenza di appello si adopera con commendevole acribia nel mantenere il proprio percorso valutativo nel solco tracciato dalla sentenza di primo grado a seguito della diversa qualificazione dell’originaria accusa ex art. 319 c.p.. Ma è un solco irrimediabilmente compromesso dall’analisi sviluppata dalla sentenza del Tribunale in un contesto comportamentale di corruttela del R., di cui l’istruttoria dibattimentale non ha offerto la prova e che viene inscritta nell’alveo della diversa fattispecie dell’abuso di ufficio. Di qui l’intuibile minore attenzione al profilo della illegittimità degli atti posti in essere dall’imputato, che si giustifica per un ambito di corruzione propria (dove la nozione di illegittimità dell’atto per contrarietà ai doveri di ufficio del pubblico ufficiale corrotto ha una latitudine più ampia e non necessariamente coesa ad ogni singolo atto del rapporto corruttivo), ma non certo per il reato di abuso di ufficio, in cui la peculiare illegittimità (per incompetenza funzionale e per violazione di norme di legge o di regolamento) dello specifico atto incriminato ha un valore stringente e non suscettibile di estensive interpretazioni surrogatorie, trattandosi di elemento senza il quale il reato di abuso non può sussistere.

La sentenza impugnata si richiama, in tema di violazione di legge determinante l’illegittimità dei due atti considerati dalle imputazioni, alla normativa citata dalla sentenza di primo grado, facendo ulteriore sommario riferimento – per quel che investe il conferimento di consulenze esterne da parte degli enti pubblici – alla disciplina dettata dal D.P.R. n. 388 del 1994: incarichi di durata annuale (quello conferito al P. ha durata quinquennale) e determinati da situazioni "contingenti e non affrontabili con le competenze interne" all’ente.

9.1. Mettendo da canto il dato oggettivo per cui la contestazione mossa all’imputato relativa all’incarico consulenziale assegnato al P. non reca menzione di alcuna specifica disposizione normativa violata o elusa, la contestazione riguardante la progettazione della rete e del portale intranet affidata alla società Columbus reca espressa menzione della L. n. 157 del 1995, art. 7, comma 2, lett. e), nn. 1 e 2.

Il D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 157, recante norme di attuazione delle direttive CEE in materia di appalti pubblici di servizi, prevede con la disposizione indicata nel capo di accusa (art. 7, comma 2, lett. e), nn. 1 e 2) che gli appalti di servizi possono essere aggiudicati a trattativa privata, senza fare ricorso ad una gara, quando abbiano ad oggetto "servizi complementari non compresi nel progetto inizialmente preso in considerazione, nè nel contratto inizialmente concluso, ma che, a causa di circostanze impreviste, siano diventati necessari per la prestazione del servizio oggetto del progetto o del contratto". Ciò alla duplice condizione: che tali servizi complementari non siano separabili sotto il profilo tecnico o economico dall’appalto principale senza creare gravi inconvenienti all’amministrazione ovvero non siano necessari per il suo perfezionamento; che il valore globale degli appalti per servizi complementari non superi il 50% dell’importo dell’appalto principale.

Posto che – come non è controverso – la Columbus era già legata agli Ospedali Riuniti di Bergamo da due contratti per consulenze su progettazione e allestimento di una rete intranet dell’azienda sanitaria, riesce disagevole escludere un diretto rapporto di "complementarietà" con l’oggetto dei preesistenti contratti della creazione di un portale intranet, che ne costituisce quasi l’inevitabile esito funzionale e logico. Un portai intranet, infatti, è un’interfaccia tecnologica che convoglia le molteplici informazioni presenti nella rete intranet in un unitario canale telematico di accesso per consultazione, ascolto, informazioni, direttive ed altro. Va da sè, quindi, che il portale completa e arricchisce le potenzialità e la circolarltà delle comunicazioni interne di una organizzazione complessa quale quella di un ospedale di grandi dimensioni. Non vi è dubbio che la creazione di un siffatto portale favorisce le comunicazioni interne tra le diverse articolazioni della struttura e ne migliora l’efficienza, rendendo disponibile e comune a tutti i dipendenti della struttura un maggior numero di informazioni necessarie sul piano organizzativo e gestorio e – soprattutto – tale effetto produce in tempi assai più rapidi ed economici di quanto non sia possibile fare con comunicazioni cartacee o di altra natura. La sentenza di appello reputa di dover escludere l’indicato rapporto di complementarietà dell’oggetto del servizio e delle attività commesse alla Columbus in ragione del fatto che i precedenti contratti non hanno avuto esecuzione, sì che il "nuovo" incarico non poteva considerarsi servente rispetto ai precedenti. La difesa dell’imputato ha sostenuto nell’atto di appello e ribadito nell’odierno ricorso che rincriminato affidamento del servizio alla Columbus non integra un nuovo o autonomo rapporto contrattuale, così da non potersi neppure parlare di una sua pur sicura complementare connessione ai rapporti già in essere, essendosi trattato unicamente di una operazione di "voltura" degli anteriori contratti richiesta dal nuovo soggetto giuridico incorporante la Columbus s.r.l., cioè dalla società Esasy Team. Assunto che la difesa di R. sostiene sulla base di più emergenze probatorie non ripercorribili in questa sede di legittimità. La sentenza impugnata finisce per eludere la questione posta dalla difesa dell’imputato, mentre la sentenza del Tribunale affronta il tema, non escludendo affatto l’evenienza della "volturazione del preesistente contratto", ma sostenendo in termini affatto illogici che il dato non farebbe venir meno l’illegittimità dell’incarico conferito dal R., perchè la "volturazione" avrebbe "un oggetto diverso e molto meglio remunerato" del precedente e sarebbe lesiva degli interessi di eventuali terzi concorrenti interessati a fornire la prestazione richiesta dall’ente pubblico a condizioni eventualmente più convenienti per lo stesso ente. Il ragionamento del Tribunale e quello della Corte di Appello paiono, a tacer d’altro, travisare il concetto di illegittimità dell’atto pubblico preso in considerazione dall’art. 323 c.p., in tal modo snaturando i referenti normativi del reato di abuso di ufficio. Quel che sembra certo ed evidente è che nel descritto contesto valutativo delle due decisioni di merito non è raggiunta alcuna affidabile prova della illegittimità dell’atto (lettera del 22.1.2003) emesso dall’imputato nei confronti della società Esasy Team-Columbus. Ciò che equivale a riconoscere l’insussistenza del reato.

9.2. Osservazioni non dissimili si impongono per l’altro episodio in contestazione, rappresentato dall’incarico di consulenza commesso al P., in ordine al quale la sentenza del Tribunale si riporta alle disposizioni (senza indicarle specificamente) del regolamento emanato con D.P.R. 18 aprile 1994, n. 338, recante semplificazione del procedimento di conferimento di incarichi individuali ad esperti da parte dei Ministeri. Senza sottacere la questione dell’applicabilità del citato regolamento anche agli enti pubblici aziendali operanti nel settore sanitario nazionale e il già segnalato difetto di contestazione in punto di violazione di legge concernente l’episodio P., non emergono specifiche violazioni della disciplina regolamentare in disamina ascrivibili all’imputato.

L’incarico contiene idonea indicazione del suo oggetto e dell’entità del compenso a carico dell’ente pubblico (art. 3, comma 1 D.P.R. cit). Nè l’obbligatoria natura a tempo determinato dell’incarico e la durata dello stesso non superiore all’anno finanziario (art. 4, comma 2 D.P.R. cit.) appaiono realmente ostative, come si osserva in ricorso, alla periodica rinnovabilità annuale del contratto collegato all’incarico e, quindi, alla sua sostanziale pluriennalità. 9.3. Traendo le conclusioni dell’analisi fin qui condotta, deve rilevarsi che il principio o criterio ermeneutico della doppia ingiustizia qualificante la fattispecie criminosa sanzionata dall’art. 323 c.p., pur richiamato dall’impugnata sentenza di secondo grado, non ha trovato nel corpo della motivazione una effettiva o coerente applicazione dimostrativa. Nei due episodi di abuso di ufficio attribuiti al ricorrente o difetta la prova dell’evento lesivo del reato o difetta la prova dell’illegittimità dell’atto dispositivo ovvero – come deve constatarsi, per quanto dianzi esposto – difetta la prova di entrambi gli elementi costitutivi dell’abuso di ufficio. Ma per la configurabilità di tale reato è indispensabile, per qualificare come ingiusto il vantaggio economico previsto per l’esistenza del reato (evento), che siffatto vantaggio sia prodotto non iure, cioè attraverso l’attuazione di un atto amministrativo illegittimo (nel ridetto perimetro della violazione di norme legislative o regolamentari), e che sia nel contempo contra ius, cioè che il risultato (economico) dell’atto abusivo si profili come contrario all’ordinamento giuridico, in guisa che il connotato di ingiustizia investa non solo il fatto causativo ma anche il risultato dell’azione del pubblico ufficiale agente. E’ necessario, allora, per il giudice di merito procedere ad una duplice distinta operazione conoscitiva (probatoria) e valutativa dei due indicati elementi strutturali della fattispecie, non potendosi – al contrario di quanto ritenuto dai giudici di appello (e in precedenza dal giudice di prima istanza) – far derivare l’ingiustizia del vantaggio conseguito dal privato dall’illegittimità dello strumento procedimentale utilizzato (l’atto amministrativo adottato contra legem), cioè dalla accertata esistenza dell’illegittimità della condotta del pubblico ufficiale.

Nè ancor meno è possibile, capovolgendo specularmente l’analisi, dedurre apoditticamente a posteriori l’illegittimità della condotta, che è causa dell’evento, dall’asserita palese ingiustizia del vantaggio economico raggiunto dal privato, sia questi ritenuto concorrente o non nel reato proprio del pubblico ufficiale (cfr., ex plurimis: Cass. Sez. 5, 2.12.2008 n. 16895/09, D’Agostino, rv.

243327; Cass. Sez. 2,11.12.2009 n. 2754/10, P.G. in proc. Fiori, rv.

246262).

Così, ancora e da ultimo, non è consentito, una volta esaurita – in tesi – l’indagine sulla doppia ingiustizia della condotta e dell’evento integranti il fatto di abuso di ufficio, individuare la prova dell’elemento soggettivo del reato per diretta immanenza (quasi dolus in re ipsa) nell’accertata ingiustizia della condotta (se non pure dell’evento lesivo), come sembra credere la decisione di appello. Ferma l’assorbente valenza escludente il reato riveniente dalla rimarcata assenza di prova dell’ingiustizia della condotta e dell’evento degli episodi di abuso ascritti al R., è opportuno aggiungere che l’elemento soggettivo dell’abuso, nella sua connotazione di dolo intenzionale (vale a dire di rappresentazione e volizione dell’evento come effetto causale immediato della condotta dell’agente e suo primario obiettivo), deve essere oggetto di rigorosa e autonoma verifica probatoria in termini di giuridica certezza. In presenza di un dolo caratterizzato dal requisito della intenzionalità, è erroneo desumerne l’esistenza dalla ascrivibilità all’imputato della semplice prevedibilità ed accettazione del prodursi dell’evento del reato come esito meramente possibile della sua condotta (cfr.: Cass. Sez. 6, 27.6.2007 n. 35814, Pacia, rv. 237916; Cass. Sez. 6, 27.6.2008 n. 33844, P.M. in proc. Rosi, rv. 240757).

10.- Vanno accolti i fondati rilievi critici del ricorrente sulla insussistenza dei due episodi di peculato d’uso di cui è stato riconosciuto colpevole (capi 5 e 6 della rubrica).

Le due contestazioni riguardano due isolati casi di uso improprio di una autovettura di servizio dell’ente ospedaliero per finalità personali del R., che si assumono avulse dalla carica dallo stesso ricoperta nell’ente. Come già precisato, il primo episodio concerne l’uso di un veicolo di servizio con un autista dell’ospedale per accompagnare un altro autista dell’ente (onde poter tornare con l’auto in ospedale) a ricoverare l’autovettura personale dell’imputato in una autofficina (6.10.2003); episodio pacifico nella sua storicità alla luce delle testimonianze dei due autisti del nosocomio e del titolare dell’autofficina. Il secondo episodio riguarda l’accompagnamento con autovettura dell’ospedale del R., rientrato da una vacanza, dall’aeroporto di Orio al Serio alla sua abitazione (3.3.2004); episodio che l’imputato contesta, adducendo di essersi avvalso della vettura di servizio per farsi condurre in ospedale dove aveva urgenza di rientrare, dopo essere passato a casa per depositarvi i bagagli del viaggio.

Come si vede, si tratta di episodi distanziati nel tempo ed isolati nel panorama delle pur approfondite indagini preliminari svolte nei confronti del R., attinenti ad impieghi di veicoli e autisti dell’ospedale pur sempre strettamente personali del dirigente (e non di terzi, suoi familiari o amici) nonchè di usi di minima durata ed effettuati per brevi tragitti. Elementi, tutti, che conducono a ritenere non configurabile in tali concreti due casi la contestata fattispecie del peculato d’uso.

Conclusioni valutative non contraddette da alcuni precedenti giurisprudenziali di legittimità che, in situazioni solo in parte omologabili a quelle per cui è ricorso, hanno ravvisato la configurabilità nell’indebito uso di autoveicoli di servizio da parte di pubblici funzionari del delitto di peculato d’uso sanzionato dall’art. 314 c.p., comma 2. Precedenti che, nondimeno, tengono conto proprio del diverso modularsi degli indicati elementi circostanziali della condotta (modalità spazio-temporali dell’uso improprio del veicolo d’istituto; finalità private personali del pubblico ufficiale ovvero di altri terzi a lui legati; occasionalità o meno degli episodi e via discorrendo). Laonde anche tali precedenti non confliggono con il più generale (e più recente) indirizzo di questa Corte regolatrice (Cass. Sez. 6, 10.1.2007 n. 10233, Stranieri, rv.

235941), alla cui stregua l’uso temporaneo del bene pubblico per finalità, reali o supposte, non corrispondenti a quelle istituzionali non sempre è destinato ad integrare la fattispecie del peculato d’uso. Non certamente nei casi in cui un siffatto temporaneo uso, rivelatosi affatto circoscritto ed occasionale, non si sia tradotto, quanto a consistenza (distanze percorse) e durata dell’uso, in fatti di effettiva "appropriazione" delle autovetture di servizio, suscettibili di recare un concreto e significativo danno economico all’ente pubblico (in termini di carburante utilizzato e di energia lavorativa degli autisti addetti alla guida) ovvero di pregiudicarne l’ordinaria attività funzionale.

Se la ragione fondante della fattispecie del peculato d’uso risiede nell’esigenza di sottrarre all’estensione del più grave peculato comune (art. 314 c.p., comma 1) l’appropriazione di cose di specie (e non anche di quelle fungibili) per un circoscritto periodo di tempo, cui faccia seguito la loro rapida restituzione con coevo pieno ripristino della situazione anteatta, non vi è dubbio che nei due descritti episodi attribuiti all’imputato le autovetture di servizio impiegate sono sempre rimaste nella sfera di controllo della P.A. e della funzionale disponibilità dei veicoli da parte dell’imputato, senza consentirsene il pur temporaneo impiego a soggetti terzi, non aventi diritto all’uso di veicolo di servizio per ragioni d’istituto (carica ricoperta) come il direttore generale degli Ospedali Riuniti di Bergamo (cfr. da ultimo: Cass. Sez. 6, 27.10.2010 n. 7177/11, PM in proc. Mola, rv. 249459: "Non è configurabile il reato di peculato nell’uso episodico ed occasionale di un’autovettura di servizio, quando la condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della PA. e non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile, in relazione all’utilizzo del carburante e dell’energia lavorativa degli autisti addetti alla guida").

11.- I subordinati motivi di ricorso sulla determinazione della pena e sulle statuizioni civili sono assorbiti dall’accoglimento dei motivi di ricorso principali sul merito della regiudicanda.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i fatti non sussistono.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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