Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-03-2012, n. 3197

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata rigetta l’appello principale di C.R. avverso la sentenza del Tribunale di Livorno n. 406 del 23 maggio 2005 e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale della Ignazio Messina s.p.a., condanna il C. a corrispondere alla suddetta società gli interessi anatocistici, nella misura legale, sugli interessi legali sulla somma di cui alla condanna pronunciata dalla predetta sentenza, a decorrere dal 24 novembre 2005 fino al definitivo soddisfo.

La Corte d’appello di Firenze, per quel che qui interessa, precisa che:

a) dopo le rinunce ai rispettivi incarichi da parte dei c.t.u. nominati da questa Corte per ottenere delucidazioni sul metodo di calcolo adottato dal c.t.u. di primo grado, che ha limitato il campo dell’indagine a quanto risultava provato documentalmente, la causa è stata discussa e decisa, nei suindicati termini;

b) per chiarezza va precisato che nel presente giudizio – che rappresenta l’ultima tappa (allo stato) di una lunga vicenda giudiziaria che ha avuto inizio più di venti anni fa – l’an dell’azione risarcitoria intrapresa dalla società Messina – per i danni subiti a causa del mancato adempimento, da parte del C., agli obblighi propri della sua qualifica di agente, nelle zone revocategli nel giugno 1985 (cd. inadempimento da zona revocata) – non è più in discussione, dovendosi trattare solo della determinazione del relativo quantum;

c) in base alle prove testimoniali e documentali raccolte e scrupolosamente esaminate dal Tribunale è da respingere l’assunto del C. secondo cui i risultati positivi ottenuti dalla ditta Ratti (nuovo agente della zona) siano dipesi dalla maggiore capacità commerciale di questa e non siano stati, invece, parametrici dell’inadempimento dello stesso C.;

d) il C. ripropone contestazioni identiche a quelle già avanzate rispetto ai calcoli effettuati dal c.t.u. di primo grado, ma ciò non vale sicuramente ad indicare errori metodologici o valutativi in cui sarebbe incorso il Tribunale, posto che, caso mai, in sede di appello avrebbe dovuto essere oggetto di critica la risposta del primo giudice alle suddette contestazioni, e, comunque, tale risposta è congrua e ben articolata in riferimento ai singoli punti contestati;

e) quanto al danno da invasione di zona da parte del preponente, prospettato dal C., va precisato che l’interessato, pur avendo predisposto al riguardo uno specifico capitolato di prova in primo grado, in appello, non reitera quella prova e si limita ad insistere solo sulla richiesta della c.t.u., la quale a questo punto appare effettivamente solo esplorativa e quindi inammissibile, data la genericità della richiesta stessa ove non vengono indicati, neppure in parte, i nominativi dei clienti che sarebbero stati contattati direttamente dalla mandante;

f) l’appello incidentale della società Messina è fondato solo per la parte riguardante la decorrenza degli interessi anatocistici – da calcolare solo sugli interessi e non sulla rivalutazione – che va fissata dallo scadere dei sei mesi dopo la liquidazione del danno, avvenuta definitivamente con la pubblicazione della sentenza di primo grado (23 maggio 2005), fino al saldo definitivo;

g) la Messina lamenta che il Tribunale ha limitato il risarcimento ai danni evincibili dalla documentazione vagliata dal c.t.u., così contenendoli a quelli relativi ai soli primi tre semestri degli anni 1983, 1984 e 1985 e invoca la liquidazione equitativa, benchè non critichi la decisione del primo giudice che non ha ritenuto possibile accedere a tale tipo di liquidazione, per non avere la società fornito la necessaria documentazione, pur avendola nella propria disponibilità;

h) comunque, il motivo di appello incidentale sul punto è inammissibile per carenza di specificità, la società, infatti, non avrebbe dovuto chiedere la liquidazione equitativa, limitandosi a sostenerne la doverosità, ma provare l’erroneità della decisione del Tribunale in ordine all’impossibilità di effettuare la suddetta liquidazione, dimostrando di essere nella impossibilità o nella notevole difficoltà di fornire le prove documentali, la cui assenza rappresenta il fondamento della suddetta scelta del primo giudice.

2.- Il ricorso di C.R. domanda la cassazione della sentenza per sei motivi; resiste, con controricorso, la Ignazio Messina s.p.a., che deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ..

Si sostiene che la Corte fiorentina avrebbe violato il suddetto art. 2697 cod. civ. perchè, al fine della determinazione del danno subito dal preponente, ha ritenuto acquisita agli atti non la prova dell’esistenza del danno, ma quella del relativo ammontare, senza che la società avesse fornito la prova degli affari o almeno dei clienti, la cui mancata cura da parte dell’agente aveva prodotto il danno.

In tal modo, la Corte territoriale non ha applicato – come avrebbe dovuto – i principi in materia di onere della prova affermati dalla giurisprudenza di legittimità per il caso inverso di richiesta da parte dell’agente delle provvigioni, secondo cui l’agente è tenuto ad indicare gli affari conclusi e andati a buon fine.

2.- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1225 cod. civ..

Si rileva che il danno verificatosi nella specie è risarcibile ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., nelle sue componenti di danno emergente e di lucro cessante, esso, quindi, non poteva non essere determinato che in relazione all’effettiva perdita di affari verificatasi, a causa dell’inadempimento dell’agente, nel periodo 1983-1985, cui si riferisce la vicenda giudiziaria.

3.- Con il terzo motivo di ricorso si denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1223, in relazione all’art. 1746 cod. civ..

Si rileva che l’art. 1746 cod. civ. configura l’obbligazione nascente per l’agente dal contratto di agenzia come obbligazione di mezzi e non di risultato, d’altra parte, in base all’art. 1223 cod. civ. per il risarcimento è necessario che chi determina il danno lo faccia con dolo o colpa grave.

Ne consegue che, anche al fine della determinazione dell’ammontare del risarcimento dovuto dall’agente per inadempimento, si deve dare rilievo determinante alla volontarietà del comportamento rappresentato dall’inadempimento nei confronti del preponente, mentre sono ininfluenti altre circostanze, quali la maggiore o minore abilità rispetto ad altri agenti o la disponibilità di maggiori o minori mezzi.

Nella specie, invece, si è determinato l’ammontare dei danni, muovendo dalla premessa secondo cui avendo il preponente realizzato con il nuovo agente (sostituto del C.) nei triennio successivo a quello che viene in considerazione nel presente giudizio maggiori affari nella stessa zona, conseguentemente l’ammontare del danno doveva essere individuato nella differenza degli affari procurati, rispettivamente, dai due agenti nei periodi considerati.

4.- Con il quarto motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 cod. civ..

Si sottolinea che, non potendo i dati della c.t.u. essere adottati come riferimento per la valutazione del danno, conseguentemente, essi non avrebbero potuto essere utilizzati neppure come base per la liquidazione equitativa del danno, come invece è stato fatto.

Tanto meno avrebbero potuto essere adoperati, a tal fine, elementi di comune esperienza, come sembra evincersi dal richiamo all’art. 115 cod. proc. civ., che invece è del tutto inapplicabile nella specie.

5. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione in ordine all’applicazione dei principi ispiratori e degli elementi di riferimento per il ricorso alla valutazione equitativa del danno.

Si sostiene che, a proposito dell’effettuata valutazione equitativa del danno, la Corte d’appello si è limitata a confermare, senza motivazione, la sentenza di primo grado, la quale, a sua volta, non contiene alcuna spiegazione del procedimento logico seguito per ricorrere al suddetto tipo di valutazione, essendosi il Tribunale limitato a prendere atto delle valutazioni, parziali e incomplete, del c.t.u. e a ridurne l’ammontare in base ad una scelta del tutto soggettiva.

6. Con il sesto motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa e contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso decisivo per il giudizio.

Si sostiene che, sempre con riguardo all’esplicitazione dei criteri di determinazione del danno, la Corte territoriale, dopo aver preso atto della indisponibilità di tutti i professionisti nominati ad assumere l’incarico di c.t.u., ha deciso di farne a meno, ma poi ha ugualmente utilizzato i dati contenuti nella c.t.u. che aveva ritenuto carente.

2 – Esame delle censure.

7. I motivi del ricorso non sono da accogliere, per le ragioni esposte di seguito.

7.1.- Per quel che riguarda l’impostazione del ricorso, va precisato che, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nell’intestazione dei primi quattro motivi, tutte le censure si risolvono in denunce di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.

Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le eensure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

8.- Al suddetto rilievo di carattere generale va aggiunto che i singoli motivi, anche partitamente esaminati, risultano in contrasto, nella formulazione e/o nelle argomentazioni, rispetto a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte.

8.1.- Quanto al primo motivo si deve ricordare che costituisce jus receptum che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poichè in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3642; Cass. 14 febbraio 2001, n. 2155; Cass. 10 febbraio 2006, n. 2935).

Ne consegue che impropriamente, nel suddetto motivo, si ipotizza una violazione dell’art. 2697 cod. civ., quando, in realtà, si contesta che la Corte d’appello, da un lato, abbia ritenuto assolto da parte della società Messina l’onere di dimostrare il danno subito, anche in assenza della individuazione dei clienti interessati a concludere affari nel periodo 1983-1985 ma senza valida ragione non trattati dall’agente, e, dall’altro lato, non si sia avvalsa di una c.t.u. per effettuare la suddetta individuazione.

Ora, è evidente che – a fronte di una coerente e logica motivazione sul punto in oggetto – non solo il primo dei suddetti profili di censura risulta inammissibile per quanto si è detto sopra, ma anche il secondo si pone in contrasto con il principio costantemente affermato da questa Corte secondo cui nel rito del lavoro, il giudice del gravame, qualora ritenga convincenti e condivisibili le conclusioni del consulente tecnico nominato dal giudice di primo grado, non è tenuto a disporre una nuova consulenza, rientrando tale facoltà, consentitagli dall’art. 441 c.p.c., comma 1, nell’ambito dei poteri discrezionali a lui spettanti e non sindacabili in sede di legittimità se non attraverso la motivazione con la quale egli abbia giustificato il proprio convincimento in risposta alle doglianze all’uopo mosse dalla parte interessata (Cass. 8 marzo 2001, n, 3371;

Cass. 29 settembre 1982, n. 5019; Cass. 9 ottobre 1991, n. 10588).

8.2.- Con il secondo, il terzo e il sesto motivo si contestano – peraltro, senza la dovuta specificità – le modalità di determinazione del danno seguite dal Giudice del merito, insistendo sulla improprietà della scelta della Corte territoriale di non disporre una nuova c.t.u. e di utilizzare dei dati contenuti nella relazione della c.t.u. esistente.

Al riguardo va, in primo luogo, ricordato che, per costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la consulenza tecnica di ufficio, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perchè volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito (vedi, per tutte: Cass. 13 marzo 2009, n. 6155).

Va altresì ricordato l’altrettanto consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, secondo cui compete al giudice del merito, avvalendosi al riguardo dei suoi poteri di ricostruzione dei fatti e di libero apprezzamento delle prove, determinare, sulla base dei criteri dettati dagli artt. 1223 e segg. cod. civ., la effettiva consistenza del danno da risarcire (nelle sue componenti del danno emergente e del lucro cessante) e il suo operato non è sindacabile in sede di legittimità, se la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo (arg. ex Cass. 30 luglio 2004, n. 14667;

Cass. 7 gennaio 2009, n. 50).

Ne deriva il rigetto dei suddetti motivi, in quanto nella sentenza impugnata è fornita una congrua e logica illustrazione delle ragioni che hanno indotto la Corte territoriale a: 1) confermare l’impostazione seguita dal primo giudice per la determinazione del danno da liquidare (basata sui calcoli effettuati dal c.t.u. di primo grado); 2) escludere il danno da invasione di zona prospettato dal C.; 3) modificare soltanto, la decorrenza degli interessi anatocistici, da calcolare sugli interessi legali riconosciuti sulla somma complessiva di cui alla condanna pronunciata nella sentenza di primo grado.

8.3.- Con il quarto e il quinto motivo si contesta il metodo usato per la liquidazione equitativa del danno e la relativa motivazione.

Va osservato, al riguardo, che dalla sentenza impugnata risulta che la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso incidentale con il quale la società Messina chiedeva che venisse effettuata la liquidazione equitativa dei danni, che di cui il Tribunale non aveva fatto applicazione limitandosi a risarcire i danni desumibili dalla documentazione esaminata dal c.t.u. – sul rilievo secondo cui non era possibile accedere a tale tipo di liquidazione, per non avere la società fornito la necessaria documentazione, pur avendola nella propria disponibilità.

In questa situazione, i due motivi in argomento risultano inammissibili perchè essi censurano – sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione – una operazione (liquidazione equitativa del danno) che, per quanto risulta dalla sentenza della Corte d’appello, non è stata effettuata neppure in primo grado, tanto che, nel giudizio di appello, ha formato oggetto (peraltro da una prospettiva opposta rispetto a quella dell’attuale ricorrente) di un motivo dell’appello incidentale, che è stato dichiarato inammissibile per genericità, con decisione non impugnata nel presente giudizio dalla società Messina (arg. ex Cass. 9 maggio 2007, n. 10626).

3 – Conclusioni.

9.- Per le suesposte considerazioni, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio di cassazione seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per onorari di avvocato, oltre IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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