Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-05-2011) 05-10-2011, n. 36135

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La notte precedente il (OMISSIS), nella villa ove dimorava con la famiglia l’imprenditore di Taormina M.P., un gruppo di almeno dieci persone fece irruzione per eseguire una rapina. Costretto ad aprire la cassa forte sotto la minaccia delle armi, il M. ebbe una reazione e, impugnata una pistola browning calibro 7,65, aprì il fuoco sui rapinatori ferendone mortalmente uno e scaricando sugli altri l’intero caricatore senza ulteriori effetti; egli stesso fu poi raggiunto da un colpo mortale sparato su di lui da uno degli intrusi. Accorso al rumore degli spari il figlio della vittima, M.G., fu attinto a sua volta da un colpo di pistola che gli provocò una ferita all’emitorace destro. I rapinatori si diedero poi alla fuga portando con sè denaro, gioielli e parte delle armi contenute nella cassaforte (tre fucili vennero abbandonati nel giardino della villa).

A seguito del successivo ritrovamento sul lungomare di (OMISSIS) del cadavere del rapinatore ucciso, identificato per B. N., le indagini si indirizzarono sulla comunità di slavi residente nel campo nomadi di Agrigento, ove peraltro si constatò che la maggior parte degli occupanti aveva abbandonato il campo di gran fretta.

Attraverso le dichiarazioni rese spontaneamente al posto di polizia presso l’ospedale (OMISSIS) da B. Z., S.L. e D.L., parenti del defunto B.N., nonchè in base a quanto riferito in sede di convalida dai fermati D.V. e N.P., ed ancora da M.D. e B.J., a loro volta fermati mentre si allontanavano dalla Sicilia su autovetture contenenti fra l’altro parte dei gioielli provento della rapina, gli investigatori individuarono quali partecipi al fatto criminoso V. S., D.S., D.Z., B. J., Di.Sl. e B.B., alias T.N.. Nei confronti di costoro fu quindi elevata imputazione per i delitti di omicidio di M.P. a scopo di rapina aggravato dal numero di persone, rapina pluriaggravata, porto abusivo di armi da sparo aggravato dal fine di rapina e tentato omicidio pluriaggravato ai danni di G. M..

A seguito di giudizio abbreviato davanti al giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Messina, gli imputati vennero riconosciuti colpevoli di tutti i reati loro ascritti e condannati alla pena dell’ergastolo, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite.

La sentenza di appello, confermativa della condanna, venne annullata dalla Corte di Cassazione per una molteplicità di carenze motivazionali, con rinvio alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria.

Quest’ultimo giudice, con sentenza in data 19 marzo 2010, ha confermato la pronuncia di primo grado in ogni sua parte. Nella motivazione ha ripercorso la valutazione delle fonti di prova, sottoponendo a separata disamina le dichiarazioni provenienti da soggetti considerati come testi puri e semplici e quelle provenienti, invece, da soggetti imputati o indagati per reato connesso. Ha quindi vagliato, distintamente per ogni imputato – o gruppo di imputati – la fondatezza dei motivi di appello, pervenendo a conclusione negativa per ciascuno di essi.

Hanno proposto separati ricorsi per cassazione tutti gli imputati (congiuntamente fra loro i soli V.S. e B. J.), ciascuno per le ragioni di seguito indicate.

Col primo dei loro tre motivi, presentati dai comuni difensori, i ricorrenti S. e J. deducono violazione dei criteri di valutazione della prova e illogicità della motivazione in rapporto alla valenza dimostrativa delle fonti probatorie, a tal fine singolarmente sottoposte a critica; valorizzano l’insussistenza, a proprio carico, degli elementi obiettivi costituiti da residui di sparo e reperti biologici sul luogo del delitto; denunciano travisamento del fatto, insito nell’aver negato credito alle dichiarazioni del J. – interpretandole anzi come ammissioni di responsabilità – in base a un’errata ricostruzione della scansione temporale e delle distanze fra i luoghi.

Col secondo motivo gli stessi ricorrenti lamentano l’indebita disapplicazione dell’istituto del concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p., comma 2, in una fattispecie nella quale la reazione della vittima della rapina, e la sua conseguente uccisione, erano totalmente imprevedibili.

Col terzo motivo deducono carenza motivazionale in ordine al trattamento sanzionatorio e al diniego delle attenuanti generiche.

Il ricorrente Di.Sl., per il tramite del difensore ha dedotto sei motivi, che nella numerazione del ricorso giungono fino al numero sette per omissione del secondo.

Col primo di tali motivi lamenta l’inosservanza dei criteri di valutazione della prova, avuto particolare riguardo alle dichiarazioni rese da Z.B., D.M., D.V. e N.P., che sottopone singolarmente a critica sotto il duplice profilo dell’attendibilità e della valenza probatoria.

Col secondo motivo (indicato nel ricorso come terzo) denuncia l’inosservanza dell’art. 116 c.p., comma 2.

Col terzo motivo impugna l’applicazione dell’aggravante teleologia per incompatibilità con la continuazione, lamentando omessa motivazione sul punto.

Col quarto motivo denuncia l’inosservanza dell’art. 62 bis c.p..

Col quinto motivo lamenta che si sia omessa la riduzione di pena conseguente alla scelta del rito abbreviato.

Col sesto motivo ripropone la richiesta di applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 5.

Il ricorrente D.S., col primo dei tre motivi presentati dal difensore, impugna la valutazione delle prove con specifico riferimento alle dichiarazioni provenienti dai soggetti individuati come testi, nonchè alle chiamate in reità provenienti da imputati o indagati per reato connesso; contesta, in particolare, la qualità di coimputato attribuita nella sentenza a M. D. ed eccepisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni spontaneamente rese da N.P..

Col secondo motivo contrasta il passo della motivazione nel quale si afferma esservi stato un riconoscimento fotografico del ricorrente da parte di M.F., che avrebbe in lui individuato il conducente dell’autovettura Mercedes utilizzata nei giorni antecedenti il crimine per un’attività di appostamento e sopralluogo. Nega fondamento a tale individuazione, anche perchè contrastante con altra effettuata in un separato processo, e lamenta che non si sia dato ingresso ad integrazione probatoria finalizzata all’audizione di M.F. e M.G..

Col terzo motivo impugna il diniego della diminuente di cui all’art. 116 c.p., comma 2 e delle attenuanti generiche.

D.Z., col primo dei cinque motivi a firma del difensore, denuncia carenza motivazionale in ordine alla ritenuta sua responsabilità per i reati di omicidio di M.P., porto d’armi e tentato omicidio ai danni di M.G.;

relativamente a quest’ultima imputazione osserva non essere dimostrato che l’arma dalla quale partì il proiettile fosse impugnata da uno dei rapinatori, piuttosto che dal defunto P. M.. Contrasta, comunque, la configurabilità del dolo omicidiario diretto ed evidenzia l’incompatibilità del dolo eventuale col tentativo.

Col secondo motivo il ricorrente lamenta, siccome ingiustificato, il diniego della riduzione di pena di cui all’art. 116 c.p., comma 2;

sostiene di non aver avuto alcuna consapevolezza del fatto che altri componenti del gruppo di rapinatori fossero armati.

Col terzo motivo impugna l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2, della quale sottolinea il carattere soggettivo.

Col quarto motivo denuncia carenza di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche.

Col quinto motivo, ancora tornando sulla disciplina del concorso di persone nel reato, invoca l’esclusione di responsabilità del compartecipe per interruzione del nesso causale determinata dalla imprevedibile reazione della vittima.

Il ricorrente T.N., alias B.B., affida a dieci motivi il ricorso personalmente redatto.

Col primo di essi deduce carenza di prova a suo carico per inattendibilità dei tre testi d’accusa e per mancata convergenza delle altre fonti probatorie.

Col secondo motivo eccepisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai coimputati o indagati in reato connesso, osservando che per la loro qualità essi non potevano essere costretti a rilasciare dichiarazioni di sorta.

Col terzo motivo eccepisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal L. e dallo Z. in sede di incidente probatorio, trattandosi di notizie apportate de relato in violazione dell’art. 195 commi 5 e art. 7 c.p..

Col quarto motivo deduce violazione di legge per errata qualificazione dell’omicidio in danno di M.P., giudicato doloso anzichè preterintenzionale; sostiene che la volontà dello sparatore rimasto ignoto era indirizzata a ferire la vittima e non certamente ad ucciderla, come afferma potersi desumere dalla traiettoria della pallottola.

Col quinto motivo contesta analogamente la volontà omicida in ordine al ferimento di M.G..

Col sesto motivo impugna l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2 sotto un duplice profilo: perchè si tratta di aggravante soggettiva, che non si comunica ai compartecipi; e per la duplicazione che deriverebbe dall’utilizzo del movente omicidiario sia per qualificare la rapina, sia per sanzionare più aspramente il fatto con l’ipotesi del nesso teleologia).

Col settimo motivo lamenta l’ingiustificata disapplicazione della diminuente di cui all’art. 116 c.p., comma 2.

Con l’ottavo motivo denuncia omessa motivazione in ordine all’invocata attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 5, di cui ribadisce l’applicabilità alla fattispecie.

Col nono motivo impugna il diniego delle attenuanti generiche.

Col decimo motivo, infine, lamenta che la riduzione della pena per la scelta del rito non abbia condotto all’esclusione dell’ergastolo, sull’errato presupposto che per l’omicidio aggravato fosse irrogabile l’ergastolo inasprito da isolamento diurno, mentre a tanto sarebbe stato possibile pervenire soltanto nell’ipotesi, rimasta inesplorata nella motivazione, di cumulo con pene detentive temporanee di durata superiore ai cinque anni.

Agli atti vi è una memoria del ricorrente T.N., alias B.B., con cui l’imputato chiede di essere scarcerato per essere maturato – a suo dire fin dal 20 ottobre 2009 – il termine massimo di fase.

Motivi della decisione

In via del tutto preliminare corre l’obbligo di rimarcare che il ricorso nell’interesse dell’imputato Di.Sl. risulta essere stato proposto dall’Avv. Alfonso Neri del foro di Agrigento, il quale non risulta iscritto all’albo dei patrocinanti davanti alla Corte di Cassazione. Il gravame così attivato deve dunque considerarsi inammissibile ai sensi dell’art. 613 c.p.p..

Vero è che questa Corte Suprema, in alcuni suoi precedenti arresti, è venuta in diverso avviso con riferimento all’ipotesi – ricorrente nel caso di specie – in cui l’imputato si trovi in stato di latitanza (v. da ultimo Cass. 20 aprile 2005 n. 6221/06); ma tale o-rientamento non è condivisibile in quanto basato su un’interpretazione ingiustificatamente estensiva dell’art. 165 c.p.p., comma 3: il quale riconosce bensì al difensore il potere di rappresentare a ogni effetto l’imputato latitante o evaso, ma va letto in coordinamento col disposto dell’art. 99 c.p.p., comma 1, che attribuisce al difensore le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che siano riservati personalmente a quest’ultimo. D’altra parte la legittimazione del difensore a proporre impugnazione ha la sua fonte nell’art. 571 c.p.p., comma 3, che tale diritto gli riconosce in via autonoma e non quale mero rappresentante dell’imputato; mentre l’impugnazione che costui può proporre, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, ai sensi del primo comma dello stesso articolo rientra nel novero dei diritti riservati, per l’appunto, personalmente all’imputato medesimo.

Diversamente opinando si verrebbe a prospettare la sussistenza di un doppio titolo di legittimazione per il difensore dell’imputato latitante o evaso; ed anche in tal caso resterebbe insuperabile l’obiezione secondo cui il potere di rappresentanza non può che competere al difensore in quanto professionalmente abilitato.

La bontà delle suesposte argomentazioni trova conferma nel loro recepimento da parte della Sezioni Unite di questa Corte: le quali, risolvendo il contrasto formatosi nella giurisprudenza di legittimità, con sentenza n. 24486 in data 11 luglio 2006 hanno enunciato il principio – riferito nella massima a una fattispecie di difesa d’ufficio, ma applicabile anche al difensore di fiducia – secondo cui "è inammissibile il ricorso per cassazione proposto nell’interesse dell’imputato latitante dal difensore d’ufficio non iscritto nell’albo speciale della Corte di Cassazione, in quanto il mancato titolo abilitativo rende il difensore privo di legittimazione a proporre l’impugnazione".

La declaratoria di inammissibilità del ricorso, che inevitabilmente consegue a quanto fin qui esposto, comporta le statuizioni di cui all’art. 616 c.p.p. a carico di Di.Sl..

Per quanto concerne gli altri imputati ricorrenti, nella disamina delle molteplici censure par opportuno attenersi ad un ordine logico che muova dal prioritario scrutinio delle questioni sollevate in ordine alla ricostruzione del fatto, per poi passare alle problematiche inerenti alla qualificazione giuridica e alla applicabilità delle circostanze.

Viene così in osservazione, anzitutto, la congruità del percorso motivazionale seguito dalla Corte d’Assise d’Appello nel saggiare la valenza delle prove dichiarative acquisite al processo, ai fini dell’individuazione dei responsabili del fatto. Il tema è trattato, su un piano generale, dai ricorrenti S. e J. nel loro primo motivo, nonchè dal B. (alias N.) nei suoi motivi primo e secondo. Secondo costoro il giudice di merito sarebbe incorso nella violazione dei criteri di valutazione della prova per avere omesso di sottoporre a vaglio critico – da effettuarsi in via preventiva, rispetto alla ricerca dei riscontri – l’attendibilità dei dichiaranti: i quali, anche quando non iscritti nel registro degli indagati, erano certamente sospettabili di compartecipazione all’illecito e, quindi, interessati a sviare da sè le indagini.

Nello specifico, poi, sono investite dalle contestazioni dei ricorrenti le dichiarazioni rese: da Z.B., di cui si deduce la qualità di soggetto sottoposto a misure cautelari quale indiziato per altri reati (primo motivo del ricorso di S. D.) e autore di dichiarazioni de relato (terzo motivo del ricorso di B.B.), comunque non verificabili (primo motivo del ricorso di S. e J.); da M. D., le cui dichiarazioni sarebbero inutilizzabili stante la sua qualità di indagato (secondo motivo di B.B.), mentre altrove si contesta – definendola surrettizia – proprio la qualità di coimputato o imputato di reato connesso attribuitagli nella sentenza (primo motivo di D.S.); da S. L., la cui fonte conoscitiva sarebbe inattendibile perchè reticente sulla propria partecipazione alla rapina (primo motivo di S. e J.); da D.L., la cui fonte conoscitiva – costituita da tale B. – è rimasta non identificata (primo motivo di S. e J., terzo motivo di B.); da D.V. e N.P., imputati di reato connesso, delle cui propalazioni si eccepisce l’inattendibilità e, quanto al secondo, l’inutilizzabilità ex art. 350 c.p.p. (primo motivo di D.S.).

A titolo di premessa occorre avvertire che i motivi di ricorso che si appuntano sulla motivazione addotta dal giudice di rinvio a sostegno dell’accertamento dei fatti recepito nella sentenza possono trovare accesso al giudizio di legittimità soltanto nei limiti in cui s’indirizzano a denunciare il perpetuarsi di carenze motivazionali in ordine ai temi investiti dai motivi di appello, pur dopo l’annullamento disposto per tali ragioni dalla Corte di Cassazione;

ovvero cadute di consequenzialità nei passaggi logici dei vari argomenti trattati. Deve escludersi, invece, qualsiasi possibilità di sindacare gli apprezzamenti espressi dal giudice di rinvio nella valutazione del significato probatorio degli elementi acquisiti, o di proporre una ricostruzione alternativa del fatto. Non compete, infatti, alla Corte di Cassazione stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, ma soltanto verificare se il discorso giustificativo sia compatibile col senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Cass. 2 dicembre 2003 n. 4842).

Alla stregua dei suesposti principi, la motivazione addotta dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria resiste alle critiche mosse dai ricorrenti.

Correttamente, invero, la sentenza impugnata ha preso le mosse dal rilevare che le fonti della prova dichiarativa sono da ripartire in due categorie: quella costituita dal narrato di persone che, non avendo acquisito la qualità di indagati negli stessi reati a-scritti agli imputati, nè in reati connessi, sono da considerare come dei testi puri e semplici; e quella costituita dalle propalazioni degli imputati dello stesso reato o di reato connesso. In ordine alla prima categoria ha giustamente osservato che, secondo consolidata giurisprudenza, le dichiarazioni testimoniali non richiedono alcun riscontro esterno e si giovano, in assenza di elementi contrari, della presunzione di veridicità di quanto affermato dal teste; circa la seconda categoria, invece, ha richiamato i principi che devono essere osservati nella relativa valutazione, secondo cui si richiede la preventiva verifica della credibilità del dichiarante e, di seguito, dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni rese, per poi addivenire alla disamina dei riscontri di carattere estrinseco:

solo in esito a tale complessa attività devesi pervenire alla valutazione unitaria della chiamata in correità e degli elementi confermativi di essa.

Operando in coerenza con tale premessa la Corte di merito ha dapprima preso in osservazione quanto dichiarato da Z.B., S.L. e D.L., quali appartenenti alla categoria dei testi puri e semplici. Il primo di costoro si era spontaneamente presentato ai carabinieri del posto fisso presso l’Ospedale (OMISSIS) per riferire di aver appreso da S.V. e da altri nomadi non identificati che costui, unitamente ad un gruppo comprensivo – fra gli altri – di B. N., D.M., B.J. e S. D., si era portato fuori Agrigento per commettere una rapina, conclusasi con una fuga. S.L. aveva appreso della rapina e delle circostanze della morte del N. (che era suo nipote) per aver assistito a una discussione fra Z.F. e la di lui moglie, che commentavano l’accaduto; in seguito ne aveva tratto conferma dalla repentina fuga degli interessati. D. L. aveva avuto contezza dell’episodio per avere assistito a una discussione, sull’argomento, tra S.S., M. D., D.M., Z.F. e altre donne tra cui, in particolare, tale Bela non meglio indicata, se non come madre di tre figli sordomuti. Le risultanze fin qui riassunte sono state considerate attendibili in quanto basate su notizie apprese direttamente dai rispondenti e sufficientemente coerenti fra loro, oltre che con le ulteriori emergenze processuali.

Quanto alle dichiarazioni rese dagli imputati di reato connesso, la Corte territoriale non si è nascosta che l’attendibilità intrinseca del chiamante è una realtà sfuggente e che la sua collaborazione può spesso essere motivata dall’aspettativa dei benefici assicurati dalla normativa premiale; ma nel contempo ha considerato che l’eventuale assenza di elementi certi, positivamente attestanti la credibilità intrinseca del propalante, non deve pregiudicare di per sè un giudizio positivo sulla veridicità delle accuse quando l’esistenza di riscontri esterni consenta l’apprezzamento dell’attendibilità sotto il profilo estrinseco. Ha quindi passato in rassegna le dichiarazioni dei singoli appartenenti alla menzionata categoria, iniziando con quelle di D.M.. Costui, fermato dalla polizia stradale perchè colto su una delle due autovetture in fuga dalla Sicilia con a bordo parte degli oggetti sottratti nella rapina, pur negando ogni proprio coinvolgimento aveva accusato del fatto un gruppo di suoi connazionali, costituito da D.M., D.V., Z. D., Di.Sl., Z.F., D. D. (figlio minorenne del dichiarante), S. D., tale D., tale T. identificabile per B. B., tale B., J.B. e V. S.. Quel gruppo di persone, secondo il suo narrato, la sera della rapina si era allontanato dal campo recando armi con sè (era sicuramente armato D.S.); la mattina successiva avevano fatto ritorno soltanto D.M., D. D., Z.F., S.V. e quel tal T.;

dal Fetoski egli aveva appreso che durante la notte era stata effettuata una rapina nel corso della quale Sl.

D. aveva sparato, colpendo il proprietario della villa;

dagli altri compartecipi aveva appreso che uno dei componenti il gruppo, tale B., era rimasto ferito e abbandonato sulla spiaggia di Taormina in quanto non dava più segni di vita.

Le affermazioni di D.M. sono state sottoposte dalla Corte di merito a un rigoroso vaglio di attendibilità, a motivo dei sospetti gravanti su di lui e della inusuale spontaneità delle sue dichiarazioni; ma la puntualità, coerenza ed esattezza dei particolari forniti, nonchè la piena corrispondenza con le altre emergenze processuali, hanno persuaso della veridicità di quanto da lui riferito, indipendentemente dalla sua qualificazione come teste o come imputato di reato connesso.

D.V., fermato presso l’imbarcadero di Messina, era stato trovato in possesso di un orologio facente parte del compendio della rapina. Negando anch’egli la propria responsabilità, aveva riferito di essersi allontanato dal campo nomadi insieme a N.P. la sera precedente la rapina, per raggiungere l’albergo (OMISSIS) (abituale rifugio dei nomadi in caso di necessità); qui essi erano stati raggiunti il giorno successivo dai connazionali D.S., D.Z., D. D., B.B., Z., Sl.

D., di.sl., D.M., D.V. e tale D.; da costoro avevano appreso che S.V. e B.J. si erano allontanati per nascondere le armi utilizzate nella rapina; rientrati al campo nomadi insieme a D.M. e D.Z., si erano poi uniformati alla scelta dei connazionali di darsi alla fuga. Tali dichiarazioni, rese in sede di convalida del fermo, erano state poi confermate dal V. nel corso dell’incidente probatorio.

N.P., fermato unitamente al V. e trovato anch’egli in possesso di un orologio provento della rapina, aveva dato conto a sua volta del trasferimento a (OMISSIS) la sera dell’ (OMISSIS) e della notizia avuta della rapina il giorno seguente; quali componenti del commando aveva indicato i nominativi di B. J., Z.F., S.V., Z. D., D.D., M.L., V. D., D.S., B.B., tale Z., Di.Sl., di.sl., nonchè di quel B. deceduto per le ferite riportate nel corso della rapina. Di tali dichiarazioni, rese durante l’interrogatorio di garanzia, aveva dato sostanziale conferma nell’incidente probatorio (ritrattando l’affermazione di aver assistito, la sera prima, ai preparativi in vista della rapina).

Nel valutare le dichiarazioni del V. e del P. la Corte distrettuale ne ha evidenziato la reciproca autonomia e la convergenza in ordine ai fatti materiali, unitamente alla perfetta aderenza alle restanti risultanze processuali. A confutazione dei rilievi mossi in proposito dalla difesa, ha ravvisato la piena compatibilità col complessivo compendio probatorio dell’affermazione del P. di aver visto uno dei rapinatori prelevare un fucile dal bagagliaio dell’auto (essendosi inconfutabilmente accertato l’uso, durante la rapina, anche di fucili oltre che di pistole); ha negato valenza di segno contrario alla mancata effettuazione di un sopralluogo volto a individuare la zona ove le armi erano state occultate; ha valorizzato le parti del narrato confermate nel successivo incidente probatorio, rimarcando la minor rilevanza delle parti fatte segno a ritrattazione.

Conclusivamente il giudice di rinvio ha riconosciuto piena efficacia probatoria non soltanto alle dichiarazioni rese dai testi, ma anche alle chiamate in reità – o in correità -delle persone qualificate come imputati dello stesso reato o di reati connessi, sulla base di un analitico vaglio della attendibilità intrinseca e della presenza di riscontri esterni individualizzanti (fra questi ricomprendendo la cd. convergenza del molteplice, stante la conformità delle propalazioni): pervenendo per tale via alla ricostruzione del fatto in conformità all’ipotesi accusatoria. Così operando si è pienamente attenuto ai canoni di valutazione della prova dettati dall’art. 192 c.p.p., collegando con logica ineccepibile i diversi passaggi motivazionali e dando specifica risposta alle deduzioni della difesa.

Tanto basta a dar conto della infondatezza di gran parte delle censure mosse in argomento dai ricorrenti, delle quali si è dato conto più sopra.

Vi è soltanto da aggiungere che il carattere de relato che, in ampia misura, contrassegna il contenuto delle prove dichiarative assunte a base della decisione non ne determina ex se l’Inutilizzabilità: la quale invece può soltanto seguire ex art. 195 c.p.p., comma 3, se il giudice, richiesto dalla parte, non abbia disposto la chiamata a deporre della persona indicata come fonte della conoscenza dei fatti riferiti (Cass. 24 ottobre 2005 n. 1151), ovvero – ai sensi del comma 7 del citato articolo – se vi sia stato il rifiuto o l’impossibilità per il rispondente di indicare la persona da cui ha appreso la notizia; ipotesi, queste, entrambe esulanti dalla fattispecie, poichè anche nei casi in cui i dichiaranti non sono stati in grado di indicare nella loro totalità i latori delle notizie, hanno comunque individuato alcuni di essi. Ciò è a dirsi sia per Z.B., che ha fornito i nominativi di V. S. e D.M., sia per D.L., il quale ha indicato le sue fonti di conoscenza in M. D. e Z.F., oltre alla non meglio indicata B.: di quest’ultima fornendo, comunque, gli elementi in suo possesso utili a consentirne l’identificazione.

Corre l’obbligo, altresì, di rimarcare che non è chiaro quale sia l’interesse di D.S. a contestare l’inserimento di D.M. nell’ambito dei dichiaranti considerati quali imputati di reato connesso, anzichè in quello dei testi puri e semplici. La "classificazione" adottata dal giudice di rinvio è, invero, più garantistica per l’imputato, in quanto condiziona l’efficacia probatoria delle dichiarazioni all’esistenza (riconosciuta in concreto) di riscontri esterni, che invece non è richiesta per la deposizione testimoniale. D’altra parte la sentenza impugnata riconosce motivatamente valore di prova alle propalazioni del dichiarante in esame, indipendentemente dalla collocazione nell’una o nell’altra categoria delle fonti probatorie.

Va dato atto, al contempo, della irrilevanza del fatto – dedotto dal ricorrente D.S. – che B.Z., al momento in cui rese le sue dichiarazioni spontanee, fosse destinatario di un provvedimento di fermo di indiziato di reato emesso dalla Procura della Repubblica di Siracusa e di un obbligo di firma presso il comando carabinieri di Agrigento; tale suo duplice status, invero, essendo in evidente relazione ad imputazioni riguardanti reati diversi, privi di alcun elemento di connessione con quello per cui si procede, non vale certamente a fare del dichiarante un imputato dello stesso reato o di reato connesso, così da rendere necessaria la ricerca di riscontri esterni (peraltro colti dalla Corte di merito ed evidenziati nella sentenza).

Destituita di fondamento è poi l’eccezione con cui lo stesso D.S. deduce l’inutilizzabilità ex art. 350 c.p.p., comma 7, delle dichiarazioni rese da N.P.; costui, infatti, al pari di D.V., ha esposto il suo narrato non davanti alla polizia giudiziaria, ma nel corso dell’interrogatorio di garanzia davanti al G.I.P., alla presenza del difensore.

Sempre restando nel tema inerente alla individuazione dei responsabili del fatto criminoso, viene ora in considerazione la censura, mossa nel primo motivo del ricorso di S. e J., con cui si denuncia il travisamento delle dichiarazioni dello stesso S.; si assume che esse siano state erratamente intese come "interpretazione confessoria" sul presupposto della ritenuta impossibilità di percorrere il tragitto da (OMISSIS) in sole due ore, mentre tale non era il senso di quanto affermato. La deduzione ambisce a fondarsi sulla premessa secondo cui sarebbe erronea la collocazione cronologica della rapina nell’arco di tempo compreso fra le ore 2.40 e le 3.30 di quella notte; e si sviluppa osservando che il J., secondo le sue dichiarazioni, era stato interpellato telefonicamente alle 3.30, e cioè a distanza di circa un’ora dal fatto, durante la quale gli autori della rapina si erano portati verso Agrigento: per concludere che il tragitto percorso dallo J. non si era protratto fino a Taormina, ma solo fino al primo distributore lungo l’autostrada da Catania a Messina.

La censura non ha fondamento.

La ricostruzione della tempistica inerente alla consumazione della rapina e agli eventi ad essa connessi è stata attuata dalla Corte d’Assise d’Appello in esito a una motivata analisi delle emergenze probatorie: sicchè, costituendo il risultato di un giudizio di fatto, non può essere sindacata in sede di legittimità. Fondato è il rilievo secondo cui il luogo d’incontro coi componenti del commando, secondo la narrazione del J., non sarebbe stato a (OMISSIS), ma lungo l’autostrada che da Catania conduce a Messina;

senonchè, anche considerando la più limitata distanza da coprire, la durata della sua percorrenza in andata e ritorno si rivela ugualmente incompatibile col tempo a disposizione, costituito dall’intervallo di un’ora e mezzo intercorso fra l’arrivo della telefonata alle ore 3.30 e il ritorno al campo nomadi verso le ore 5.00/5.15.

Ancora i ricorrenti S. e J. lamentano, in altro passo del loro articolato primo motivo, che la Corte di merito abbia immotivatamente omesso di valorizzare il dato probatorio – cui attribuiscono dirimente valenza – costituito dalla riscontrata mancanza di residui di polvere da sparo sulle proprie mani e indumenti, nonchè dalla mancata corrispondenza coi propri profili genetici dei residui biologici rinvenuti sul luogo del fatto.

A confutazione della doglianza devesi, innanzi tutto, osservare che, in realtà, al momento del fermo furono rinvenute sulla mano sinistra di B. J. e sulla mano destra di S.V. delle particelle "appartenenti, anche se in maniera non univoca, alla classe dei residui dello sparo" (pag. 10, rigo 2, della sentenza impugnata); anche se l’Incertezza sulla natura del residui ha indotto la Corte reggina e non tener conto di quei rilievi e a valorizzare, piuttosto, le restanti prove a carico degli imputati, certamente non è possibile derivarne la conclusione pretesa dai ricorrenti, secondo cui dovrebbe restarne esclusa la loro partecipazione ai fatti criminosi. Insussistente è, poi, la denunciata carenza motivazionale, in quanto la pagina 36 della sentenza impugnata, nel trattare il secondo motivo di appello, dedica attenzione all’argomento con l’osservare che la mancata corrispondenza delle tracce biologiche non può portare automaticamente ad escludere la presenza di costoro all’Interno della villa durante la rapina;

essendosi infatti accertato che il gruppo dei malfattori era composto da non meno di dieci persone, nulla esclude che i deducenti abbiano preso parte attiva alla rapina senza lasciare all’interno della villa impronte digitali o tracce biologiche.

Col suo secondo motivo di ricorso D.S. si duole che il giudice di merito sia pervenuto alla propria individuazione, quale corresponsabile del fatto criminoso, in virtù di un riconoscimento fotografico operato da M.F.; costui lo aveva indicato quale conducente di un’autovettura Mercedes di colore nero, vista più volte in prossimità del supermercato Sigma di proprietà di M.P., nell’atto di condurre sul posto – e successivamente riprendere – delle donne nomadi che nei giorni precedenti la rapina avevano effettuato un accattonaggio non plausibile (data la loro provenienza da Agrigento), manifestamente finalizzato alla raccolta di informazioni e dati utili alla perpetrazione del delitto. A detta del ricorrente l’individuazione fotografica perderebbe la propria capacità dimostrativa a fronte della circostanza – emersa dall’attività investigativa svolta in altri procedimenti penali – che nel campo nomadi di Agrigento soggiornava anche tale D.R., proprietario di un’autovettura Mercedes di colore nero che sovente era usata da Z. D..

La deduzione è inammissibile, in quanto s’Indirizza a prospettare una lettura alternativa del materiale probatorio acquisito, tale da indurre a una ricostruzione del fatto in contrasto con quella motivatamente recepita dal giudice di merito (Cass. 3 ottobre 2006 n. 36546). Nè può cogliersi in essa l’apporto di un argomento idoneo a scardinare la logica della decisione impugnata, non essendovi alcuna razionale incompatibilità fra l’esistenza nel campo nomadi di una vettura Mercedes di colore nero solitamente in uso ad altri, e l’utilizzo di essa – o di altra dalle stesse caratteristiche – da parte di D.S. nei giorni immediatamente antecedenti la rapina.

Per quanto, infine, si riferisce alla mancata integrazione probatoria, che ad avviso del ricorrente sarebbe dovuta consistere nella rinnovata audizione dei testi M.F. e G. M., vi è soltanto da richiamarsi al principio giuridico più volte enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui – al di fuori dell’ipotesi di novità della prova, certamente non configurabile rispetto alla rinnovazione di una testimonianza già prestata – la riapertura nel giudizio di appello dell’istruzione dibattimentale è subordinata alla constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; e il relativo accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (v. Cass. 19 febbraio 2004 n. 18660 e successive conformi). Corretta è, nel caso specifico, la motivazione del diniego opposto dalla Corte territoriale all’istanza della difesa, sul rilievo per cui il contenuto della sentenza datata 19 novembre 2007 della Corte d’Assise di Messina non infirma in alcun modo il riconoscimento fotografico effettuato dai testi M. e la conseguente individuazione in D.S. e B. N. dei conducenti l’autovettura utilizzata per gli appostamenti in prossimità del supermercato.

Nell’ordine logico delle questioni da trattare vengono ora in esame le valutazioni giuridiche inerenti alla morte di P. M. e alla conseguente responsabilità attribuita agli imputati a titolo di omicidio volontario.

In punto di fatto le circostanze dell’evento letale sono state accertate solo per grandi linee: mentre M.P. si trovava nella propria camera da letto, ove i rapinatori lo avevano costretto ad aprire la cassaforte, si erano uditi provenire da quella stanza dei colpi di pistola, per cui i componenti del commando rimasti nel salone e quelli che, ne frattempo, si erano portati nella camera di M.F. avevano preso immediatamente la via della fuga. M.G. si era a questo punto precipitato verso la camera da letto del padre e, proprio davanti alla porta, lo aveva visto sanguinante per terra, mentre ancora impugnava una pistola Browning 7,65. Il decesso di M.P. era stato provocato da un unico colpo, sparato da una pistola semiautomatica cal. 9×21 mm IMI o 9 mm Luger, che lo aveva raggiunto al torace attraverso la zona sottoascellare destra. Sulla base di tali circostanze si era così potuto dedurre che, una volta aperta la cassaforte, il M. fosse riuscito a impugnare la pistola cal.

7,65 (forse prendendola dalla cassaforte, o più probabilmente, secondo la Corte di merito, sottraendola ai rapinatori) e avesse sparato con essa tutti i colpi contenuti nel caricatore, riuscendo ad attingere B.N. e ferendolo mortalmente; in risposta a tale reazione uno dei rapinatori aveva a sua volta sparato al M., provocandogli l’unica ferita letale.

Le problematiche sollevate in argomento dai motivi di ricorso riguardano: 1) l’invocata qualificazione dell’omicidio come preterintenzionale, sul presupposto che l’esplosione del colpo di pistola contro il M. fosse finalizzata soltanto a ferirlo, in guisa da interrompere la sparatoria da lui iniziata (quarto motivo di B.); 2) la configurabilltà del concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p., anzichè del concorso proprio ex art. 110 dello stesso codice, ritenuto dalla Corte di merito (secondo motivo di S. e J., terzo motivo di D.S., secondo motivo di D.Z., settimo motivo di B.); 3) la dedotta interruzione del nesso causale, stante l’imprevedibilità della reazione della vittima (quinto motivo di Z.D.).

Sotto tutti i suesposti profili la statuizione adottata dalla Corte di Reggio Calabria resiste alle critiche mossele.

E’ noto che l’omicidio preterintenzionale, secondo la nozione fornitane dall’art. 584 c.p., si configura allorquando l’azione aggressiva dell’autore del reato sia diretta soltanto a percuotere la vittima o a causarle lesioni, così che la morte costituisca un evento non voluto, ancorchè legato da nesso causale alla condotta dell’agente. Sul terreno dell’accertamento concreto, quando la lesione produttiva dell’evento letale sia stata recata per mezzo di un’arma, l’accertamento del fine perseguito dall’agente deve essere attuato tenendo conto del tipo dell’arma, della reiterazione e direzione dei colpi, della distanza di sparo, della parte vitale del corpo presa di mira e di quella concretamente attinta (Cass. 4 luglio 2007 n. 35369).

Al descritto criterio la Corte d’Assise d’Appello ha dimostrato di attenersi puntualmente, con l’individuare nella direzione impressa al colpo di pistola, rivolto verso il torace (e, quindi, verso le parti vitali ivi allocate), nell’utilizzo di micidiali armi da fuoco e nella limitata distanza fra lo sparatore e la vittima, in una con la particolare tensione creata dall’irruzione del rapinatori In numero superiore a dieci, altrettante ragioni atte ad escludere che la volontà dell’agente fosse diversa da quella di uccidere. La valutazione così espressa, siccome sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici, si sottrae a censura in sede di legittimità.

In ordine alla configurabilità del concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p., comma 2, vanno ricordati i principi cardine messi a fuoco dalla giurisprudenza di legittimità e già menzionati nella sentenza della Corte reggina. Alla stregua di tali principi, perchè la norma citata possa trovare applicazione è necessario, innanzi tutto, che l’evento diverso da quello programmato non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo indiretto (indeterminato, alternativo od eventuale) e, dunque, che il reato più grave non sia stato già considerato come possibile conseguenza ulteriore o diversa della condotta criminosa concordata; e, su altro versante, occorre accettare la non atipicità dell’evento diverso, o più grave, rispetto a quello concordato, in modo che l’evento realizzato non sia conseguenza di circostanze eccezionali, imprevedibili e non ricollegabili all’azione criminosa, sì da interrompere il nesso di causalità (così Cass. 12 febbraio 2008 n. 20667; v. anche Cass. 10 novembre 2006 n. 40156; Cass. 25 ottobre 2006 n. 10995). Nello specifico ha considerato la Corte di merito che la realizzazione di un omicidio rappresenta in via generale una ragionevole, prevedibile e probabile conseguenza di qualsiasi rapina effettuata con l’uso di armi. Siffatta valutazione, allineata a quanto statuito da questa Suprema Corte con la sentenza n. 18489 in data 13 gennaio 2010, secondo cui "la partecipazione all’accordo per commettere una rapina utilizzando un’arma da fuoco comporta la responsabilità, a titolo di concorso ordinario e non anomalo, anche per l’omicidio commesso nel corso della sua esecuzione dal complice che ha in concreto cagionato la morte del rapinato", si è vieppiù consolidata attraverso l’analisi della fattispecie concreta, in cui il consistente numero dei rapinatori, l’uso da parte di costoro di armi micidiali anche da guerra, l’esplosione preventiva di vari colpi di arma da fuoco in funzione intimidatoria, i tentativi di reazione posti in essere da M.G. e la difficoltà di tenere sotto controllo un intero nucleo familiare rendevano non soltanto prevedibile, ma altamente probabile il ricorso all’uso delle armi contro le persone e, quindi, l’uccisione di alcuno dei componenti della famiglia.

Anche per tale riguardo la decisione assunta si rivela sorretta da motivazione congrua, logicamente irreprensibile e del tutto conforme ai canoni giuridici che reggono la materia. Le stesse ragioni addotte rendono conto, altresì, dell’infondatezza dell’assunto che s’indirizza a prospettare nella reazione di M.P. un fatto di tale imprevedibilità, da dar luogo all’interruzione del nesso causale fra l’azione criminosa, così come concertata e iniziata, e l’evento letale compiutosi ai danni del soggetto passivo.

Vale, infatti, anche in argomento quanto osservato nella sentenza in ordine alla assoluta prevedibilità – ed anzi elevata probabilità – che taluno dei membri della famiglia opponesse resistenza all’azione criminosa. In aggiunta vale la pena di rimarcare che, secondo la corretta interpretazione dell’art. 41 c.p., comma 2, perchè una circostanza sopravvenuta possa interrompere il nesso eziologico fra l’azione e l’evento si richiede che dia l’innesco a una serie causale del tutto autonoma: il che non può dirsi nel caso di specie, nel quale la reazione della vittima si è posta in rapporto di regolarità causale con l’azione criminosa portata nei suoi confronti, rendendo applicabile il tradizionale principio causa causae est causa causati.

La qualificazione giuridica del fatto viene in contestazione anche a proposito del ferimento di M.G.. Costui, secondo la ricostruzione scaturita dal giudizio di merito, dopo aver trovato il padre disteso a terra davanti alla porta della camera tentò di entrare nella stanza, trovando tuttavia resistenza da parte dei malviventi che ancora si trovavano all’interno; avendo ancora insistito nel tentativo di aprire la porta, si vide puntare contro una pisola dalla quale partì un colpo, che lo raggiunse all’emitorace destro provocandogli una ferita.

Tale ricostruzione è contrastata dal ricorrente Z. D.: il quale, nel suo primo motivo, si fa portatore della tesi secondo cui M.G. non sarebbe stato ferito da uno dei rapinatori, ma dal suo stesso padre, che nella concitazione del momento avrebbe sparato in modo incontrollato.

La deduzione è inammissibile per un duplice ordine di ragioni. Sotto un primo profilo essa tende a introdurre nel processo un motivo non prospettato nell’atto di appello, incorrendo nel divieto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 3; sotto un secondo profilo prospetta una dinamica fattuale alternativa a quella motivatamente recepita dal giudice di rinvio: il che, presupponendo una rivisitazione del merito, non è consentito nel giudizio di cassazione.

Dovendosi dunque assumere a base delle valutazioni giuridiche lo svolgimento della vicenda come accertato dal giudice di rinvio, la questione che resta da esaminare riguarda la configurabilità del reato come tentato omicidio o come lesione personale volontaria (primo motivo di ricorso di D.Z., quinto motivo di B.B.). La tesi dei ricorrenti muove dal presupposto della inconciliabilità del dolo eventuale con la direzione univoca degli atti che è propria del tentativo e che, per sua natura, presuppone il dolo diretto o alternativo: sicchè – si conclude – quando taluno si prefigga un determinato evento delittuoso accettando il rischio di un evento diverso, considerato solo possibile o probabile, gli atti non possono considerarsi diretti alla realizzazione del diverso evento non voluto.

La deduzione fa perno su argomentazioni giuridiche certamente condivisibili, che tuttavia non si attagliano al caso di specie. La Corte d’Assise d’Appello, richiamandosi ad un’enunciazione giurisprudenziale per vero alquanto risalente, ma seguita da altre conformi di più recente formulazione (Cass. 29 gennaio 2008 n. 12954; Cass. 26 ottobre 2006 n. 1367/07; Cass. 23 maggio 2000 n. 9122), ha ricordato che non si configura il dolo eventuale, ma quello diretto, quando l’agente si rappresenti come altamente probabile – e non soltanto possibile – quel diverso evento che, pur non costituendo lo scopo finale dell’azione intrapresa, è da lui accettato nel suo verificarsi; di tale modello astratto ha riscontrato gli estremi nel caso di specie, osservando che la volontà di esplodere un colpo di pistola in direzione di un uomo a distanza estremamente ravvicinata, attingendolo nella regione sottoclaveare destra, comprende nel suo sviluppo logico anche quella di ferirlo a morte: a ciò non ostando il fatto che il colpo sparato sia stato uno solo.

La linea argomentativa suesposta si traduce nella piana applicazione di principi giuridici condivisi e non è confutata dalle deduzioni – non pertinenti, per quanto dianzi osservato – che strutturano il motivo di ricorso in esame.

Vengono, alfine, in considerazione le censure da più parti elevate con riferimento all’applicabilità delle circostanze attenuanti e aggravanti.

In argomento va scrutinato, innanzi tutto, l’aumento di pena inflitto dal giudice di merito in applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2. La statuizione è investita dal terzo motivo di D.Z., con cui si evidenzia il carattere soggettivo dell’aggravante in questione, per derivarne la conseguenza secondo cui essa non dovrebbe ritenersi estesa nei confronti dei concorrenti che, non avendo voluto l’omicidio, sono rimasti estranei al rapporto di strumentante con la rapina. La stessa linea argomentativa è ripresa nel sesto motivo dedotto da B.B., il quale in aggiunta eccepisce l’illegittima duplicazione dell’inasprimento di pena che deriverebbe dall’applicazione dell’aggravante, in quanto il movente omicidiario risulta già utilizzato per qualificare la rapina.

Sotto entrambi i profili la decisione assunta dalla Corte territoriale si appalesa conforme a legge.

Occorre premettere che il precedente giurisprudenziale evocato dai ricorrenti a sostegno dell’esclusione dell’aggravante nei confronti dei correi, in virtù del carattere soggettivo che le è proprio (Cass. 21 ottobre 1994 n. 12584), si riferisce all’ipotesi di concorso anomalo ex art. 116 c.p.: che invece esula dal caso di specie, nel quale si è ravvisata la sussistenza del concorso ordinario di cui all’art. 110 dello stesso codice, per le ragioni già viste (elevata probabilità, in relazione alle modalità di esecuzione della rapina e all’uso di armi micidiali, che taluno dei componenti la famiglia M. riportasse ferite mortali); donde la carenza del presupposto che il fatto omicidiario costituisse un evento non voluto dai compartecipi diversi dal suo autore materiale.

Oltre a ciò va osservato che, nel rapporto finalistico tra l’omicidio e la rapina, il primo ha assunto carattere strumentale, mentre la seconda ha costituito il fine comune a tutti i concorrenti:

onde il carattere soggettivo dell’aggravante non è utilmente invocatale, essendo da tutti condivisa la finalità perseguita nel compimento dell’illecito.

Del pari priva di fondamento è la doglianza con cui si deduce l’illegittima duplicazione dell’imputazione. E’ bensì vero che l’uso della violenza è previsto dall’art. 628 c.p., in alternativa alla minaccia o congiuntamente con questa, come elemento integrante il proprium del delitto di rapina; ma, quando la violenza esercitata sul soggetto passivo del reato ecceda quantitativamente il limite necessario a renderla apprezzabile quale elemento costitutivo della rapina, l’evento lesivo prodottosi a carico della vittima (una lesione personale o, al limite, la morte) può dare corpo ad un ulteriore e distinto reato: il quale non rimane assorbito nel primo, ma concorre con esso ed è suscettibile di aggravamento ex art. 61 c.p., n. 2; in tal senso si è già espressa la giurisprudenza di questa Corte Suprema in sue precedenti pronunce che meritano totale adesione (Cass. 10 maggio 1994 n. 7196; Cass. 17 maggio 1977 n. 12656).

Altra ragione di doglianza è prospettata da B.B. col suo ottavo motivo di ricorso. Lamenta costui che, senza alcuna motivazione, si sia negata applicazione all’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 5, relativamente al delitto di omicidio, sebbene alla produzione dell’evento letale avesse concorso il fatto doloso della persona offesa, che imprevedibilmente aveva reagito aprendo il fuoco contro i rapinatori, così dando luogo alla serie causale che aveva condotto, attraverso la risposta al fuoco da parte di uno di essi, alla morte di M.P..

L’assunto è destituito di fondamento. Innanzi tutto la denunciata carenza motivazionale è insussistente, avendo la Corte reggina fornito adeguata motivazione al diniego dell’attenuante, sia pur in risposta all’istanza formulata da altri appellanti (v. pag. 41 della sentenza impugnata). In secondo luogo le ragioni giuridiche addotte a sostegno del deliberato sono del tutto condivisibili, poichè l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 5, presuppone che la persona offesa dal reato abbia posto in essere una condotta volontariamente indirizzata alla realizzazione di quello stesso evento, del quale l’agente è chiamato a rispondere (v. Cass. 14 luglio 2010 n. 29938);

nel caso concreto qui sottoposto a giudizio, l’evento del reato di omicidio ascritto agli imputati, in concorso fra loro, è costituito dalla morte di M.P.: sicchè, non essendo logicamente ipotizzabile che costui abbia agito al fine di provocare la propria morte per mano dei rapinatori, cade qualsiasi possibilità di applicare la norma invocata.

Il diniego delle attenuanti generiche è impugnato dai ricorrenti S. e J. col loro terzo motivo, nel quale lamentano una disamina indifferenziata e congiunta delle diverse posizioni processuali, basata sul rilievo per cui "quasi tutti" sono gravati da precedenti penali; analoga doglianza è elevata col suo quarto motivo da D.Z., il quale denuncia violazione dell’art. 133 c.p. per essersi giustificato il diniego delle attenuanti generiche con una presunta pericolosità sociale, anche relativamente a quegli imputati che risultavano incensurati e senza carichi pendenti; a sua volta B.B., col nono motivo, lamenta non essersi tenuto conto del suo stato di incensuratezza e del suo recente arrivo in Italia.

Le suesposte censure sono prive di fondamento.

Merita di essere ricordato, innanzi tutto, che le attenuanti generiche non possono essere intese come una benevola concessione del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni, non contemplate specificamente dalla legge, tali da esigere una più incisiva considerazione in vista di una riduzione di pena che, altrimenti, non spetterebbe (così Cass. 28 maggio 1999 n. 8668; v. anche Cass. 14 gennaio 1999 n. 2642; Cass. 23 agosto 1990 n. 12280). Tanto premesso, va rimarcato che i ricorrenti non hanno indicato altro motivo, atto a giustificare la riduzione di pena ex art. 62 bis c.p., se non la mancanza di precedenti penali a loro carico; il che, per un verso, anche prima del divieto normativamente introdotto dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, di conversione del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 1, non costituiva argomento sufficiente a giustificare l’applicazione delle attenuanti generiche (Cass. 25 giugno 2008 n. 31440); per altro verso occorre considerare che il giudice di merito, nell’esprimere l’apprezzamento rimessogli in via esclusiva dall’ordinamento giuridico (come tale insindacabile nel giudizio di cassazione, se adeguatamente motivato), ha assegnato dirimente valenza agli elementi di segno contrario costituiti dall’eccezionale efferatezza del crimine commesso e dalla elevatissima capacità delinquenziale degli imputati: deducendo quest’ultima non già – come si sostiene nei ricorsi – dai precedenti penali di alcuni di loro, ma dalle modalità esecutive della rapina, preceduta da una non comune preordinazione e pianificazione di uomini e di mezzi. In aggiunta a ciò non ha mancato di valutare il comportamento processuale degli imputati, dal quale non è stato possibile trarre alcun segno di seria resipiscenza.

Non colgono, dunque, nel segno le rimostranze dei ricorrenti sul punto in questione.

Da ultimo viene in considerazione il decimo motivo di ricorso dedotto da B.B.. Con esso si pone in contestazione la disposta conferma della pena dell’ergastolo, denunciando violazione dell’art. 72 c.p.. A detta del deducente la pena sulla quale computare la riduzione di un terzo per la scelta del rito non doveva essere quella dell’ergastolo inasprito da isolamento diurno; infatti a quel risultato sarebbe stato possibile pervenire soltanto attraverso il cumulo dell’ergastolo – applicato per il delitto di omicidio pluriaggravato – con pene detentive temporanee di durata superiore a cinque anni complessivi; a tanto non si sarebbe giunti in concreto, avendo il giudice di merito applicato la continuazione fra tutti i reati senza quantificare nello specifico la determinazione delle pene per i singoli reati satelliti. La sentenza impugnata sarebbe dunque incorsa in carenza motivazionale, non avendo integrato la motivazione addotta dal primo giudice sul punto riguardante la dosimetria della pena.

La censura non è fondata.

Per quanto il giudice di primo grado, nella determinazione del trattamento sanzionatorio, abbia direttamente applicato il regime della continuazione e il cumulo giuridico ex art. 81, comma 2 e art. 72 c.p., senza espressamente indicare le pene astrattamente irrogabili per ciascuno dei reati satelliti, è agevole constatare che la gravità di questi ultimi non avrebbe potuto non comportare – pur nel contenimento entro il minimo edittale – l’applicazione di una pena detentiva superiore ai cinque anni: basti pensare che, già solo per il tentato omicidio pluriaggravato ai danni di G. M., il minimo irroga bile sarebbe stato di dodici anni di reclusione. Non vi era dunque alcuna necessità che il giudice di rinvio integrasse la motivazione sul punto, valendo l’evidenza più di qualsiasi argomentazione.

Conclusivamente, sono da rigettare in tota i ricorsi proposti da S.V., J.B., D.S., D.Z. e B.B., alias T. N. (dell’inammissibilità di quello proposto da S. D. si è già detto in apertura). A ciascuno di costoro fanno perciò carico le spese processuali.

Tutti i ricorrenti sono inoltre da condannare in solido alla rifusione in favore delle parti civili delle spese da costoro sostenute nel presente giudizio di legittimità. La relativa liquidazione, che tiene conto della pluralità delle parti rappresentate dal comune difensore e del conseguente aumento del 20% per ognuna di esse ex art. 3, comma 1 della tariffa penale allegata al D.M. 8 aprile 2004 n. 127, è effettuata nella somma di Euro 3.200,00, da maggiorarsi in ragione degli accessori di legge.

Attesa la minore età, all’epoca dei fatti, di uno dei soggetti passivi del reato, va disposto l’oscuramento dei dati identificativi.

E’ appena il caso di annotare che sulla richiesta di scarcerazione per avvenuto decorso dei termini, presentata dal ricorrente T. N. alias B.B., non vi è luogo a provvedere da parte di questa Corte Suprema, trattandosi di istanza da presentare al giudice a quo giusta il disposto dell’art. 91 disp. att. c.p.p..

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso di Di.

S., che condanna al pagamento della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende; rigetta gli altri ricorsi e condanna tutti i ricorrenti a pagare le spese del procedimento ed a rifondere in solido le spese delle parti civili, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, oltre accessori come per legge. Dispone l’oscuramento dei dati identificativi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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